A volte un
romanzo ben riuscito fa capire una realtà sociale
molto meglio di tante fini analisi sociologiche. Questo
mi viene da dire, in prima istanza, riflettendo a freddo
sulla prima prova letteraria di Pietro Treccagnoli,
affermato giornalista napoletano. Dico a freddo perché
gli elementi del libro che in un primo momento risaltano
con maggiore evidenza sono altri: la lugubre giocosità
che emana dai personaggi, che si muovono in un ambiente
(in tutti i sensi) di merda e si confondono con esso;
la velocità e scorrevolezza del testo (lo si
comincia a leggere e non si stacca più gli occhi
da esso fino alla fine); il linguaggio dei personaggi,
che è poi quello di chi vive nelle realtà
ove si svolge il racconto: un mix altamente creativo
e paradostico, sempre in movimento, di italiano, dialetto,
neologismi e parole importate; l’ossessione, che
appartiene a tutti i protagonisti, per il sesso, anch’esso
creativamente vissuto e immaginato, in una fragorosa
babele postmoderna; la quotidianità e banalità
della morte in un’atmosfera pulp e anch’essa
postmoderna alla Tarantino.
Dicevamo della merda, ma meglio sarebbe dire “la
monnezza”, con più pregno di significati
termine napoletano. E’ un mondo di immondizia,
morale ma prima di tutto materiale, quello in cui vivono
i personaggi. L’immondizia ha trasformato quella
vasta zona a Nord di Napoli, fra l’entroterra
casertano e il Lago Patria e la Domiziana, che un tempo
era Campania felix e ridente e che oggi è luogo
di scorribanda e smaltimento (si fa per dire) di scorie
e rifiuti. E attorno ai rifiuti, enormi e invivibili
casermoni, abitazioni per lo più abusive che
deturpano quei posti un tempo baciati dagli Dei. Case
in cui vegetano, aspettando il Nulla, vivendo di pensioni
minime e mutui trentennali, tanti poveri anziani cristi
da tutti dimenticati. Territori ove lo Stato non c’è
e c’è invece la camorra, che fa il suo
sporco mestiere: traffica di tutto, come sempre, dalla
coca (che non è più droga di élite)
alle donne (“puttane” africane o dell’est),
ma prima di tutto e per l’appunto monnezza. Che
il più delle volte è veleno radioattivo
che impesta la terra e gli animi.
La morte di una gabonese dall’enorme culo nero
che batte sulla Domiziana può perciò essere,
in questo contesto, un “normale” caso di
cronaca nera legato al racket della prostituzione, oppure
qualcosa “di più grosso” come intuisce
una disinibita commissaria di polizia in carriera, pronta
ad usare tutte le armi in suo possesso. E come alla
fine è costretto ad ammettere anche il vecchio
commissario Ascione che vive in un arrapato disincanto
gli ultimi scampoli di vita professionale (arrapato
nel senso che anche lui ha l’ossessione del sesso
e soprattutto del modo in cui la commissaria carrierista,
Sharon Stone di un mondo minore, accavalla le gambe).
La storia si chiude nel modo più camilleriano
possibile, con il commissario che archivia il faldone
del caso sotto l’emblematico titolo di “prostituzione
radioattiva”. Ma che il caso criminis si
chiuda è meno importante del caso Napoli Nord
che ai nostri occhi dalla lettura si dischiude, con
semplicità e vivaddio senza moralismi. Non un
Paradiso abitato da diavoli, ma un ex Paradiso abitato
da ex uomini. In quelle terre lo “spirito del
mondo” fattosi merce immonda, cioè immondizia,
usa il materiale umano per i suoi fini e lo reifica
trasformandolo in ulteriore immondizia.
Pietro Treccagnoli,
Non lo chiamano veleno,
Avagliano Editore,
2006, p.125, euro 9,00
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