Trattao
dal quotidiano l'Unità
Un uomo sta morendo. Con straordinaria serenità
racconta al figlio la sua vita, il suo lungo viaggiare,
cercare. Ne tira le fila. Quell’uomo, Tiziano
Terzani, l’ho conosciuto, era mio amico. I figli,
Folco e Saskia, ancora piccoli quando stavamo a Pechino,
li ho visti crescere. Anni dopo, venuto a trovarci a
New York, Folco avrebbe incantato per sere di seguito
i miei, piccoli come erano loro quando li avevo conosciuti
in Cina, leggendogli per molte sere di seguito le Cronache
di Narnia. Ora sono io ad essere incantato dalla lettura
di queste ultime conversazioni con suo padre. La
Fine è il mio inizio è un libro bellissimo.
Che ho letto d’un fiato, e mi ha lasciato senza
fiato.
L’itinerario del mio viaggio e quello di Tiziano
si erano incrociati per la prima volta a Pechino, ormai
oltre un quarto di secolo fa. Lui è arrivato.
Ma quel che conta è il viaggio, non la destinazione,
“come tutti i grandi viaggiatori hanno sempre
saputo”, ricorda a Folco. Come tutti i grandi
viaggiatori era un viaggiatore solitario. Ho il rammarico
di non avere fatto alcuni tratti in più in sua
compagnia. In Cina ad un certo punto avevamo deciso
di scrivere un giallo spionistico a quattro mani, ci
avremmo messo tutti i personaggi reali che avevamo conosciuto.
Poi lui fu espulso. Più tardi mi propose di scambiare
delle lettere, lui dall’Asia, io dall’America.
Anche di questo non se ne fece nulla. Ero troppo distratto
dalla “destinazione”, dal giornalismo quotidiano
ad inseguire “i fatti”. Non mi ero ancora
accorto che, come dice lui a Folco, “nei fatti
non trovi la risposta. La trovi in qualcosa di più
profondo, che in questo caso è la cultura, la
storia, di cui mi sono sempre occupato”. È
stato Tiziano a contagiarmi nella passione di accumulare
libri per “prepararsi” ai viaggi. “Io
non andavo mai in un posto senza una piccola bibliotechina
di chi aveva viaggiato prima di me, magari un gesuita
che ci era vissuto per farsi raccontare l’anima”.
“I libri. Sono stati i miei grandi amici, perché
non c’è di meglio che viaggiare con qualcuno
che ha fatto già la stessa strada, che ti racconta
com’era per poter paragonare, per sentire un odore
che non c’è più, o che c’è
ancora”. Tiziano parla di “feticismo del
libro”. La differenza è che io temo di
essere rimasto prigioniero della “preparazione”,
a scapito del “viaggio”. Apprendo che eravamo
cresciuti entrambi poveri di libri. “In casa mia
non c’è stato mai un libro, mai”.
Che il primo libro che aveva visto in casa, grazie ad
uno zio rilegatore fu una Storia d’Italia a dispense.
Il mio primo libro in italiano era stata l’Enciclopedia
Garzanti in due volumi, leggevo le voci in ordine alfabetico.
Ora mi sento come il professor K. dell’Autodafè
di Elias Canetti, costretto a mettersi in testa ogni
mattina i suoi diecimila volumi e scaricarli per andare
a dormire sotto i ponti.
Tiziano ha trovato le sue “due forme di minima
immortalità”, il suo “piccolo momento
di eternità”, nei figli e nei libri che
ha scritto, “nella speranza che tra cinquanta,
cent’anni qualcuno ritrovi per caso un mio libro”
su una bancarella, come noi abbiamo trovato i nostri.
Ne ha scritti due sul Vietnam, ma resta convinto che
The Quiet American (il romanzo di Graham Greene)
sia inarrivabile (“il sogno di tutti era di scriverne
un altro così, tutti, tutti scrivevano e non
ne uscì niente”). Chissà se saremmo
mai riusciti a cavare qualcosa da quel giallo mai scritto
sulla Pechino degli anni Ottanta. Certo si prestava.
Giornalisti e spioni, veri e finti, tutti quanti a loro
volta spiati dal grande fratello cinese, in un gioco
che riesce a far ancora scompisciare dal ridere Tiziano
morente. Uno di quelli di cui racconta divertito a Folco
è Sergei Svirin, già da lui conosciuto
a Singapore, di cui si dice certo fosse il capo del
Kgb a Pechino. E mi fa venire in mente che il mio angelo
custode per conto dei servizi sovietici era invece un
tale Stanislav Lunev, colonnello del Gru, lo spionaggio
militare sovietico, accreditato come corrispondente
della Tass. Me l’ero poi ritrovato corrispondente
Tass a New York. Un paio d’anni fa ho visto che
ha scritto un libro, Through the Eyes of the Enemy,
con gli occhi del nemico, la cui fascetta spiega che
si tratta “del funzionario più alto in
grado dei servizi militari russi” passato agli
americani. Me lo sono fatto arrivare. Sono andato a
scorrere il capitolo sui suoi anni in missione in Cina.
Dove dice di “aver reclutato”, col nome
in codice “Zag”, il corrispondente del giornale
del Pci, Antonio, fonte “estremamente preziosa”
per lo spionaggio militare sovietico. L’informazione
decisiva fornitagli da questo Antonio sarebbe stato
il testo di un’intervista che aveva avuto con
l’allora presidente Li Xiannian, in cui Li si
serviva del suo interlocutore per “informare il
governo italiano (sic) dei piani della Cina nei confronti
dell’Urss”. Antonio sono evidentemente io.
In effetti gli avevo dato il testo di un’intervista
pubblicata qualche giorno prima sull’Unità.
Che i suoi superiori avrebbero potuto agevolmente e
più tempestivamente procurarsi in una qualsiasi
edicola italiana. Anni dopo mi è capitato di
parlarne con i miei “angeli custodi” da
parte cinese e abbiamo riso a crepapelle. Allora abitavo,
come corrispondente dell’Unità, in un siheyuan,
una antica “casa di cortile” in piena città
tartara, presso il Gulou, la Torre del tamburo, una
foresteria gestita dall’ufficio relazioni estere
del Pcc, quindi in pratica direttamente dai servizi
segreti cinesi. Il colonnello Lunev racconta anche di
aver riconosciuto, nel corso di una delle sue visite,
tra gli asiatici che giocavano a badminton (il tennis
col piumino) nel mio cortile, niente meno che Pol Pot
in persona. Per un giornalista avere come compagno di
racchetta il più feroce massacratore di tutti
i tempi e non accorgersene sarebbe stato certo un “buco”
da suicidarsi per la vergogna. Ma la cosa è altamente
improbabile. I cinesi non avrebbero mai esposto in quel
modo un ospite così ingombrante. In quel siheyuan
ricevevamo molte visite. Diplomatici, giornalisti, studenti
italiani e di molti altri paesi. Un giorno Tiziano mi
portò a pranzo un diplomatico americano che lui
sosteneva fosse il capostazione della Cia. Mi pare si
chiamasse Martin. Ricordo che mi chiese cosa trovasse
un comunista italiano in Cina. “Da seguire come
esempio assolutamente nulla, da imparare sul mondo moltissimo”,
gli risposi.
Per Tiziano invece la Cina era stata, sin dal momento
in cui aveva deciso di fare il giornalista, e aveva
lasciato una promettente carriera di dirigente alla
Olivetti per andare a studiare il cinese alla Columbia
University a New York, una grandissima passione, forse
la più travolgente della sua vita. Non solo un
oggetto di indagine giornalistica. Ma una vera a propria
storia d’amore. Intensissima, quasi smodata, che
riemerge in moltissime pagine del racconto a Folco.
“Per questo puoi capire che quando i cinesi mi
hanno cacciato mi hanno davvero punito, mi hanno tolto
una grande gioia di cui solo l’India mi ha poi
ripagato”. Tanti anni dopo, non ho ancora ben
capito perché l’abbiano espulso. Ne abbiamo
talvolta parlato. Ne parla molto con Folco. Ho l’impressione
che non l’abbia mai capito neanche lui. Perché
era troppo curioso? Perché si impicciava in storie
di spionaggio come la straordinaria vicenda di Shi Beipu,
l’attore dell’Opera di Pechino (M. Butterfly,
il titolo con cui fu portata in scena in America) che
aveva sedotto un diplomatico francese facendosi passare
per donna e facendogli persino credere di avergli dato
un figlio? Perché, da grande attore che è
sempre stato, si travestiva da cinese, portava i grilli
nel taschino del cappottone cinese, e faceva impazzire
i suoi custodi, seminandoli ad ogni viaggio? Perché
le sue magnifiche inchieste sulla distruzione di Pechino
antica e il Tibet avevano arruffato i responsabili in
alto loco? Perché il suo caso fu usato da una
delle fazioni che si contendevano il potere per mettere
in difficoltà l’altra? L’unica cosa
certa è che, da uomo di passioni estreme che
era, non glie l’ha mai perdonata.
La Cina fu forse la sua maggiore delusione, in quello
che definisce ad un certo punto come “un secolo
di spaventose delusioni”. Aggiungendo che “anche
per questo oggi c’è questo grande disorientamento”.
Tiziano è spietato nell’elencare la sue
delusioni. Deluso dal Giappone. Deluso persino dal nuovo
amore India: “Come, vado in India e trovo questi
che…?! Tu vedessi il giorno che annunciarono la
loro bomba atomica! Pareva, Dio Bono, che fossero arrivati
sulla luna, Apollo 13. La gloria dell’India!”.
Deluso dal ripetersi delle delusioni: “Lo vedi?
Sempre la stessa storia”. Deluso da tutto quello
che è successo dopo l’11 settembre: “Era
un’occasione straordinaria di ripensare a tutto…
un’occasione buona, mi pareva, perché era
così enorme quello che era successo e c’era
stata una presa di coscienza così grande…”.
E invece la si è sprecata con le guerre. Deluso
dalla politica (“ho smesso di scrivere pezzi di
politica”), ma per poi parlare nel suo “testamento”
molto più di politica che nei libri precedenti.
Deluso dal giornalismo, ridotto a “fare spettacolo”,
ma per poi dedicare quasi tutto quello che dice a Folco
al perché ha voluto fare il giornalista, e raccomandargli
di “controllare i dettagli”, perché
“basta un dettaglio sbagliato e tutto perde la
sua credibilità” (“Questo è
il giornalismo?” “Questo è il vero
giornalismo”). Deluso, lui eterno estremista,
dai fanatismi e dagli estremismi, “sbagliati in
tutti i casi”, anche tra ascetismo ed edonismo:
“La Via di mezzo, sempre”. “Devi capire
cos’è il filo di questo racconto. È
il cercare – tra tutta l’illusione della
politica, della scienza che dovrebbero risolvere i problemi,
per cui ci si impegna, si scrive, si tenta di cambiare
l’opinione degli altri – per poi renderti
conto che non serve a niente”. Ma al tempo stesso
inguaribilmente ottimista, tanto da voler continuare
a dire con l’ultimo filo di voce la sua (“Voglio
parlare!”). Contraddittorio? Forse. Ma con un
filo che lega il tutto: “Vorrei che il mio messaggio
fosse un inno alla diversità, alla possibilità
di essere quello che vuoi”.
Ho visto che c’è chi è portato
a leggere anche questo libro di Terzani come un ragionamento
sui grandi temi del senso della vita e della morte.
C’è anche tutto questo. Il capitolo finale,
di sconvolgente bellezza, è un inno all’unità
della nostra vita con la natura, di forza paragonabile
alle poesie filosofiche di Tommaso Campanella. È
un abbraccio ai suoi cari, a noi tutti, all’umanità,
al pianeta, al cosmo. Ma, come tutti i grandi testi
letterari, può essere letto anche in molte altre
maniere. Non credo gli dispiacerà che il suo
vecchio compagno di viaggio abbia scelto una lettura
più prosaica e forse limitata, partendo da dove
i nostri sentieri si erano incontrati, nel “paese
di mezzo”, sulla “via di mezzo”, per
dirla con le sue parole.
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