Ogni volta
ci tocca constatare che il nostro è un paese
in cui si legge poco. Eppure premi e festival letterari
non fanno altro che moltiplicarsi in giro per l’Italia.
Soprattutto d’estate.
Tra questi uno spazio sempre più rilevante è
venuto occupando nel corso delle sue prime tre edizioni
il Premio Paolo Volponi che si tiene sulla riviera adriatica
nel Comune di Porto San Giorgio. Dibattiti con grande
partecipazione di pubblico, presenza delle più
importanti case editrici, interesse della stampa nazionale
e tutto nel nome del grande scrittore marchigiano. Insomma,
una buonissima riuscita per uno spazio dedicato a una
letteratura, quella dell’impegno civile, che solo
a nominarla evoca sbiaditi ricordi degli anni Sessanta
e il grigiume eroico e stantio degli eroi proletari
del realismo socialista. L’ultima edizione, vinta
dal giovane Mario Desiati con Vita precaria e amore
eterno, ha invece confermato l’esistenza
di un filone letterario ancora vivo e dinamico che riesce
ad interpretare bene una fase storica complicata come
quella attuale.
Abbiamo incontrato l’assessore alla Cultura del
Comune di Porto San Giorgio Giacomo Maroni che, insieme
al direttore artistico Stefano Tassinari, è stato
l’ideatore del Premio.
In Italia negli ultimi anni i premi letterari
sono nati come funghi, ce ne sono a centinaia. Come
mai avete puntato su un evento del genere?
Quando abbiamo deciso di fare il premio in molti ci
hanno osteggiato sostenendo che nessuno legge e proponendo
di utilizzare le risorse per organizzare qualcosa di
più “popolare”. Invece abbiamo voluto
rischiare ed è stato un successo inaspettato.
Ne è nata un’alchimia, un evento che ha
richiamato l’interesse di tutta la stampa nazionale,
dall’Unità alla Stampa
a Avvenire che ha definito il premio Volponi
uno dei più importanti e intelligenti in Italia.
Successo anche di pubblico con dibattiti letterari gremiti
di gente. Il nostro azzardo ha dimostrato che se interpellato
il pubblico risponde e che bisogna mettersi in gioco
per evitare il degrado culturale.
Un successo che dipende anche dalla struttura
stessa del premio?
Direi di sì. Una giuria tecnica seleziona i
cinque libri finalisti che poi vengono giudicati e votati
da una giuria popolare composta da 39 lettori forti
del territorio, scelti dalle tre amministrazioni che
partecipano al premio (Porto San Giorgio, Porto Sant’Elpidio
e Grottammare). Una struttura questa che non vuole avere
nulla di demagogico, che non vuole cioè coinvolgere
la cittadinanza per attirare consensi, ma che nasce
piuttosto dalla volontà di diffondere la lettura
e il dibattito su alcuni temi importanti che riguardano
la vita collettiva. Da questo punto di vista il premio
ha trovato terreno fertile e oggi s’incontrano
cittadini che stanno leggendo o consigliano di leggere
i libri finalisti mentre sul territorio le vendite crescono.
Questo è un po’ quello che volevamo ottenere,
poiché credo che l’obiettivo di un premio
letterario sia quello di diffondere la lettura.
Il nome di Paolo Volponi si lega al mondo dell’industria,
al mondo del lavoro e quindi il vostro premio ha voluto
essere uno spazio dedicato alla letteratura dell’impegno
civile. Qual è lo stato di questa scrittura che
in altri tempi ha occupato il dibattito nazionale sulla
letteratura?
Dal nostro osservatorio abbiamo notato che la letteratura
“impegnata” ha avuto un ritorno forte dopo
un periodo d’abbandono iniziato alla fine degli
anni Settanta. Si è tornati oggi a un’ampia
produzione letteraria che riguarda questi temi. D’altro
canto quando parliamo di impegno civile parliamo di
un universo composito, di diverse tipologie che possono
rientrare nel medesimo campo engagé.
Basta prendere ad esempio i libri finalisti di quest’anno.
Mario Desiati con Vita precaria e amore eterno
ha affrontato il tema del precariato mentre Vincenzo
Pardini con Tra uomini e lupi ha lavorato sul
recupero di una memoria storica condivisa parlando di
certe forme di vita in via di estinzione come quella
dei pastori sugli Appennini. Claudio Piersanti con Il
ritorno a casa di Enrico Metz ha rappresentato
il fallimento di un’epoca che sembrava dorata
con un personaggio che si ritrova a farne il bilancio
nel periodo di Tangentopoli mentre Silvia Ballestra
con La seconda Dora è tornata al Ventennio
per ambientare parte del suo romanzo durante il periodo
delle leggi razziali. Bruno Arpaia, infine, con Il
passato davanti a noi ha scritto un testo collettivo
sugli anni Settanta e i sogni di una generazione. Diciamo
quindi che l’impegno civile raggruppa temi variegati.
Il dibattito su Letteratura e Industria negli
anni Sessanta era legato a una fase in cui in Italia
l’industria assumeva una centralità senza
precedenti nella società. Oggi, nell’epoca
postfordista dell’industria dislocata e delocalizzata,
cosa ne rimane nella letteratura?
Rimane la crisi dei lavoratori che non si identificano
più in una classe, in un partito, in un progetto
collettivo. Una crisi che li rende atomi impazziti,
individui incapaci di organizzarsi per trovare i modi
per rapportarsi ad un’industria completamente
atomizzata.
Molto spesso in passato il lavoro è
entrato nei testi letterari attraverso il tema dell’alienazione.
Oggi attraverso cosa filtra nelle pagine dei nostri
scrittori?
Molto attraverso il tema del precariato che è
ormai diventato una condizione esistenziale. Ne emerge
una realtà frammentata e, in relazione alla visione
volponiana, un fallimento dell’industria italiana
incapace di relazionarsi al territorio e di innovare
la propria struttura. Un fallimento generalizzato.
Quello di questi libri è un punto di
vista sociologico o esistenziale?
C’è uno scritto di Calvino sul rapporto
tra letteratura e industria in cui parla di due modi
di scrivere su tali temi: uno razionale e uno viscerale.
Molto spesso ci troviamo di fronte ad una miscela di
queste due modalità. Il libro che ha vinto quest’anno,
ad esempio, ne è una sintesi. C’è
un’analisi dura e cruda della realtà sociale
e le conseguenze sulla vite soggettive, le ricadute
esistenziali.
Durante il periodo d’oro della letteratura
engagé il dibattito girava spesso intorno
alla forma. Molti sostenevano che l’impegno non
era tanto l’assunzione di un tema specifico quanto
piuttosto l’intervento sulla lingua. Ecco, dal
punto di vista formale a che punto siamo oggi?
Da quello che possiamo vedere noi grossi passi avanti
non ce ne sono stati. Ci siamo sempre trovati di fronte
forme abbastanza consolidate, un discorso prettamente
narrativo, una scrittura lineare con punto di partenza
e d’arrivo che ha poco a che fare certe volte
con la scrittura esplosiva di un Volponi che spiazza
cambiando continuamente orizzonti e punti di vista.
Di fatto oggi si tratta di una ripartenza, di una fase
importante che in futuro potrà dare buoni frutti
anche sul versante formale. In fondo un premio come
questo è legato anche a questa volontà
di dare a chi si cimenta con temi e forme diverse, altre
e di difficile fruizione, uno spazio di agibilità
letteraria che molto spesso le case editrici non concedono
più, impegnate come sono ad accontentare una
domanda al ribasso con scelte facili e poco rischiose.
Come intendete procedere per conservare e aumentare
questo spazio?
Dato il successo di queste prime tre edizioni abbiamo
deciso di dare una continuità al singolo evento
estivo con la creazione, spero a breve, di una Fondazione
Paolo Volponi con la finalità di mantenere vivo
il dibattito intorno alla letteratura e diffondere la
figura e l’opera di un grande scrittore della
contemporaneità come Volponi.
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