304 - 24.08.06


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Stammi a sentire Gran Bretagna!

Goran Stefanovski



Il testo che segue è tratto dal libro “Quando la cultura fa la differenza. Patrimonio, arti e media nella società multiculturale”, a cura di Simona Bodo e Maria Rita Ciffarelli (Meltemi, 2006; pp. 212, € 18,50). Viene riproposto sulle nostre pagine per gentile concessione della casa editrice Meltemi.

Contesto
Sono un autore teatrale, nato nella Repubblica di Macedonia, dove ho trascorso gran parte della mia vita. Mia moglie Patricia, che è inglese, ci è rimasta con me per diciotto anni. Poi, nel 1992, con il crollo della Iugoslavia, è tornata in Inghilterra. Per sei anni ho fatto la spola in aereo tra Skopje, in Macedonia, e Canterbury, in Inghilterra. Ho vissuto in due mondi, letteralmente, senza metafore. Durante queste mie peregrinazioni avanti e indietro, la sorte ha voluto che mi occupassi di svariati progetti europei, gran parte dei quali, in un modo o nell’altro, avevano a che fare con questioni legate all’interculturalità. Lavoravo con un amico, un socio, un impresario, un italoamericano che vive in Svezia e si chiama Chris Torch, o Chris Torchia, se preferite. I nostri progetti prevedevano la collaborazione di vari artisti dell’Est europeo, ma erano in larga parte co-finanziati da paesi dell’Europa occidentale e rivolti principalmente al pubblico dell’Ovest.

Questa combinazione aveva generato sconcerto e sgomento su vari fronti. Ho assistito di persona a una serie di bizzarri malintesi, insospettati sarcasmi, trappole e tranelli, ostinate mediazioni, successi e fiaschi. Chris Torch era convinto di essere il paladino della condivisione delle culture, del superamento dei confini, della riscrittura cartografica, della capacità di cogliere le nuove sfide europee. Si credeva un pioniere dell’interculturalità.
Di fatto, però, captavo offese più o meno esplicite nei suoi confronti, che si ripercuotevano anche su di me. E appellativi come “imperialista della cultura”, “farabutto multinazionale”, “truffatore legalizzato”, “venditore di fumo globalizzato”, “ squalo”, “ciarlatano” e “impostore”. Da entrambe le parti era sospettato di comprare manovalanza artistica a buon mercato all’Est per poi rivenderla, speculandoci, all’Ovest. A molti non importava affatto degli spettacoli o dell’espressione artistica in sé. Detestavano l’idea per partito preso. «Lo sappiamo che è una fregatura. Perché prendersi la briga di dare un’occhiata?»

Ero sconcertato. Ma perché, poi, ce l’avevano proprio con il mio amico Chris? L’attore del Living Theatre, mitico mucchio selvaggio anarchico-teatrale degli anni Sessanta? Il fondatore di Jordcircus, una comune teatrale di stanza a Stoccolma? A quanto mi risultava, quest’uomo vantava credenziali di prim’ordine, ma per molti laggiù era uno schiavista col sigaro in bocca.(…)
Un giorno, nel 1995, Chris e io peregrinammo per i teatri di tutta la Macedonia cercando di raccogliere consensi intorno al nostro progetto multietnico. Stavamo lavorando a un rifacimento delle Baccanti di Euripide dove i protagonisti erano tutti maschi, e avevamo deciso di scritturare attori di origine macedone, turca e albanese per rappresentare in maniera semplice e nel contempo efficace la realtà sul campo. Bussammo a parecchie porte, dal Teatro Nazionale Macedone all’Accademia d’Arte Drammatica al Teatro delle Nazioni Turca e Albanese, invitandoli a collaborare.

Si rivelò una proposta esplosiva. «Collaborare! Mai collaborato prima. Qui tutti sospettano di tutti, ognuno cura i propri interessi, praticamente siamo nemici. Come sarebbe collaborare?» (…) «Noi ci vogliamo affrancare da questi schemi tipici del socialismo reale, e tu ce li vuoi rifilare di nuovo? Stai cercando di vendere corda a casa dell’impiccato». Il caso volle che tutto questo accadesse proprio il giorno dell’attentato al presidente macedone, Kiro Gligorov. (…)

Ovviamente questi individui, così imbevuti di fanatismo nei confronti degli stranieri, si portano dietro le medesime passioni quando si ritrovano essi stessi stranieri, in terra straniera, come immigrati. E le proiettano su chiunque passi loro accanto. «Devono detestarmi esattamente come li detesterei io se fossi nei loro panni».
E il loro fanatismo lo alimentano, lo potenziano, lo pongono al centro della loro identità, se lo avvolgono addosso come una vite intorno a un pergolato, finché diviene un tutt’uno e risulta faticoso distinguere il reale dal virtuale, l’autentico e il naturale dal forzato e dall’artificiale. Allora questo scenario mentale si fa così tortuoso che è difficile, per chi sta fuori, capirlo o penetrarlo; per ironia della sorte dolce e amara insieme, è difficile da comprendere anche per chi lo prova.
Mi piacerebbe tentare di renderlo con un piccolo monologo che ho scritto. Si tratta di una conversazione immaginaria tra un immigrato macedone e la Gran Bretagna, ma non ci vuole un grande sforzo d’immaginazione per adattarla a un contesto italiano, dove a parlare potrebbe essere, magari, un immigrato nordafricano.

Testo
Stammi a sentire, Gran Bretagna! Non ti spaventare se ti apostrofo così, senza giri di parole. Sì, sono io, Zoran. Ti ricordi di me? Penso sia venuto il momento di farci una chiacchieratina, tu e io. È da un po’ di tempo che nel nostro rapporto qualcosa mi preoccupa. Mi sento tradito. Sono venuto qui per te. Io ero tuo, e tu eri mia, o così credevo. Mi sono lasciato tutto alle spalle, ho sacrificato tutto. Due anni fa sono arrivato a Heathrow con il cuore in gola. Mi sono guardato attorno. Tu non c’eri ad aspettarmi. Non sapevo cosa fare. Mi sono infilato in una lunga coda, e gli impiegati dell’ufficio immigrazione mi hanno chiesto come mi chiamavo e qual era lo scopo della mia visita.

Sono passati dei mesi. Ho atteso con pazienza che mi lanciassi un segnale, che mi dicessi qualcosa, che facessi una mossa. Non hai mai chiamato. Hai finto di non conoscermi. Me ne sono fatta una ragione. Lavoro in un negozio di ferramenta a Londra. Vivo da solo. Sono depresso e mi sono venuti i capelli grigi. Qualsiasi cosa mi succeda, è come spargere sale sulle mie ferite. A volte penso che dovrei uccidermi. Un suicidio clamoroso sarebbe una soluzione, in un certo senso. Lasciare un biglietto in cui ti do la colpa di tutto. Passo i sabati e le domeniche a fantasticare su di te che vieni al mio funerale, stravolta dal dolore, tutta sexy vestita di nero.

Faccio un corso serale di inglese, organizzato a spese dell’amministrazione locale. Non sono gran che bravo, ma se è per questo, neanche i miei vicini inglesi lo sono. Loro non capiscono me, io non capisco loro. Non parlo un inglese perfetto, e neanche loro. Non ho letto Shakespeare, e neanche loro. Sono un diverso, e sono diversi anche loro. Io vado alla scuola serale, e loro no. Non è mica giusto. Anche loro dovrebbero andare alla scuola serale. “Lingua e cultura inglese per principianti”.

Non sono mai stato all’università. Un amico mi ha suggerito di studiare sociologia, che era facile. Ha provato a spiegarmi cos’era, ma io non ho capito e così non ci sono andato. Ho scelto la scuola della vita. Ero disoccupato, vivevo con i miei. Quando ho compiuto 33 anni, mio padre ha detto che dovevo lavorare nel negozio di ferramenta del suo amico. Io ho detto che non avrei mai lavorato in un negozio di ferramenta, che ero fatto per cose migliori. Abbiamo litigato. Ho deciso di andarmene. Un amico mi ha detto che avevo una bella faccia balcanica, che era proprio quello che cercavano nel cinema.
Mi sono rivolto a te. Anche tu mi hai fatto credere che ero un’eccezione, che ero speciale. Sentivo che facevi sul serio. Così sono venuto qui. Ho aspettato la mia occasione, ho aspettato che ponessi fine alle mie sofferenze, che mi invitassi a prendere il tè a casa tua. Ma non è successo.
L’unico lavoro che ho trovato è in un negozio di ferramenta. Oh, beh, almeno è un lavoro. Tutti gli inglesi che conosco sono disoccupati, campano di sussidi.

Tutto questo mi mette tristezza e rabbia. E un giorno dovrai chiedermi scusa. Invece mi hai spedito uno stupido registucolo inglese dilettante, che mi vuole nel suo film inserito in un progetto sociale per piccoli immigrati iperattivi. Io dovrei fare la parte di un immigrato sbronzo che è entrato in una scuola piena di bambini dove c’è anche suo figlio. IL figlio si vergogna, anch’io mi vergogno, la sbronza mi passa e torno in me. Ma che razza di roba è questa? È un insulto. Grazie tante, ma non è questo che avevo in mente.

James Bond, ecco! Potrei fare James Bond per una grossa produzione. Impassibile e sprezzante del pericolo, liquiderei il folle che vuol diventare padrone del mondo. E tu vieni alla prima a Leicester Square e ti alzi in piedi ad applaudire. Dopodiché, ce ne andiamo insieme mano nella mano nella notte londinese. Un successo clamoroso sarebbe una soluzione, in un certo senso. Voglio fare film che sfondino ai botteghini, non quelle pellicole educative sugli immigrati e le loro difficoltà d’integrazione.

Mi rifiuto di lavorare con quel perdente che riesce a scovare finanziamenti solo per progetti con gli immigrati, e non c’è nessuno che voglia lavorarci assieme. Ha incominciato a parlarmi di programmi, di fondi e iniziative. Ponti fra culture e diversità culturale. «È là che bisogna guardare per far soldi in fretta», diceva. E io ero perfetto come Volto della Minoranza Autoctona. Gli ho chiesto cosa significava, sembrava una malattia venerea. «Non ti preoccupare di cosa vuol dire – ha risposto lui vieni con me e basta». Così mi porta in un ufficio da questa donna Lei mi fa accomodare e incomincia a blaterare su come mi vorrebbe legittimare e trascinare nella pubblica arena, farmi partecipare al dibattito e al processo politico, così potrei esprimere le mie istanze e acquisire il senso delle mie affinità culturali. Non avevo idea di cosa volesse da me. Mi sono spaventato, manco fossi dal dentista, e me la sono data a gambe.

I meccanismi della tua democrazia mi fanno ridere. Per anni, prima del crollo, la Iugoslavia aveva creduto di possedere gli strumenti adatti a garantirle stabilità, intesa e armonia. Tutti quanti facevano finta di volersi bene. Poi, un bel giorno, è arrivato un duro che ha picchiato un pugno sul tavolo e ha esclamato: «Signori, il gioco è finito. Andate a farvi fottere». Ed è bastato questo perché il castello di carte precipitasse nel guerra civile.

Gli amici mi dicono che la tua attrazione per me è puramente fisica, che sono solo l’uomo di una notte. Che sei una puttana e hai milioni di altri amanti. Che hai un buco al posto del cuore e ogni giorno, come un drago, lo riempi con quaranta immigrati di diverse culture. E la chiami world culture. Forse farei bene a voltarti le spalle e mettere in atto un clamoroso ritorno a casa. Anche questa sarebbe una soluzione in un certo senso. Dirti addio, dirti che me ne devo andare per via dei miei impegni. E lasciarti in lacrime – uscire senza girarmi indietro. Me ne andrei al mio paese, farei la pace con mio padre, tornerei alle mie danze, al mio cibo, alla mia bandiera e ai miei gitani: per quattro soldi ti fanno tutti i lavori di casa più schifosi, cucinano, puliscono, stirano, eccetera – è come avere uno schiavo personale. In patria posso essere un re.

Così tu pensi che io sia il solito ipocrita, un bastardo che tiene il piede in due scarpe, incostante e imprevedibile. Beh, forse è vero. Forse dovrei compiere un clamoroso omicidio, ammazzare quel regista per le strade di Londra piantando un messaggio d’odio con un coltello sul tuo corpo. Sì, anche l’omicidio sarebbe una soluzione, in un certo senso.
Lo so che non t’importa nulla di me – che è tutta una frottola. Affari e niente più. Brillante appalto di operazioni all’estero. Gestione del conflitto interculturale. Non mi freghi, so vedere dietro la facciata…

Et cetera, et cetera, et cetera. E avanti di questo passo. Beh, la finisco qui, ma lascia che io ti dica un paio di cose da parte del mio eroe immigrato. Sono sicuro di sapere cosa prova, e che parlerebbe proprio così se ne fosse capace.
Ti pregherebbe di non darlo per spacciato, perché quanto più proverai ad agguantarlo, tanto più riuscirà a sfuggirti. Più lo cercherai, più cercherà di nascondersi. Ha bisogno che tu reciti la parte della madre cattiva, della puttana, dell’orrida strega, perché così puoi sentirsi agnello innocente, uomo perbene, vittima sacrificale. Dagli tempo, però. Deve crescere ancora parecchio. Deve lavorare sul suo orgoglio e imparare ad ascoltare. Amarti lo ha reso migliore. Ha tanto da offrire non darlo per spacciato.

Magari, un bel giorno, vincerà il clamoroso premio di Commesso del Mese al negozio di ferramenta. Che sarebbe senz’altro una soluzione. E allora ti lascerà andare. Ti lascerà libera, così tu proseguirai per la tua strada e lui per la sua. E riuscirà a sorridere e ad esclamare tra sé e sé: «Questo sì che è un meraviglioso mondo multiculturale, interculturale e transculturale!»

 


 

 

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