Il testo
che segue è tratto dal libro “Quando la
cultura fa la differenza. Patrimonio, arti e media nella
società multiculturale”, a cura di Simona
Bodo e Maria Rita Ciffarelli (Meltemi, 2006; pp. 212,
€ 18,50). Viene riproposto sulle nostre pagine
per gentile concessione della casa editrice Meltemi.
Contesto
Sono un autore teatrale, nato nella Repubblica di Macedonia,
dove ho trascorso gran parte della mia vita. Mia moglie
Patricia, che è inglese, ci è rimasta
con me per diciotto anni. Poi, nel 1992, con il crollo
della Iugoslavia, è tornata in Inghilterra. Per
sei anni ho fatto la spola in aereo tra Skopje, in Macedonia,
e Canterbury, in Inghilterra. Ho vissuto in due mondi,
letteralmente, senza metafore. Durante queste mie peregrinazioni
avanti e indietro, la sorte ha voluto che mi occupassi
di svariati progetti europei, gran parte dei quali,
in un modo o nell’altro, avevano a che fare con
questioni legate all’interculturalità.
Lavoravo con un amico, un socio, un impresario, un italoamericano
che vive in Svezia e si chiama Chris Torch, o Chris
Torchia, se preferite. I nostri progetti prevedevano
la collaborazione di vari artisti dell’Est europeo,
ma erano in larga parte co-finanziati da paesi dell’Europa
occidentale e rivolti principalmente al pubblico dell’Ovest.
Questa combinazione aveva generato sconcerto e sgomento
su vari fronti. Ho assistito di persona a una serie
di bizzarri malintesi, insospettati sarcasmi, trappole
e tranelli, ostinate mediazioni, successi e fiaschi.
Chris Torch era convinto di essere il paladino della
condivisione delle culture, del superamento dei confini,
della riscrittura cartografica, della capacità
di cogliere le nuove sfide europee. Si credeva un pioniere
dell’interculturalità.
Di fatto, però, captavo offese più o meno
esplicite nei suoi confronti, che si ripercuotevano
anche su di me. E appellativi come “imperialista
della cultura”, “farabutto multinazionale”,
“truffatore legalizzato”, “venditore
di fumo globalizzato”, “ squalo”,
“ciarlatano” e “impostore”.
Da entrambe le parti era sospettato di comprare manovalanza
artistica a buon mercato all’Est per poi rivenderla,
speculandoci, all’Ovest. A molti non importava
affatto degli spettacoli o dell’espressione artistica
in sé. Detestavano l’idea per partito preso.
«Lo sappiamo che è una fregatura. Perché
prendersi la briga di dare un’occhiata?»
Ero sconcertato. Ma perché, poi, ce l’avevano
proprio con il mio amico Chris? L’attore del Living
Theatre, mitico mucchio selvaggio anarchico-teatrale
degli anni Sessanta? Il fondatore di Jordcircus, una
comune teatrale di stanza a Stoccolma? A quanto mi risultava,
quest’uomo vantava credenziali di prim’ordine,
ma per molti laggiù era uno schiavista col sigaro
in bocca.(…)
Un giorno, nel 1995, Chris e io peregrinammo per i teatri
di tutta la Macedonia cercando di raccogliere consensi
intorno al nostro progetto multietnico. Stavamo lavorando
a un rifacimento delle Baccanti di Euripide dove i protagonisti
erano tutti maschi, e avevamo deciso di scritturare
attori di origine macedone, turca e albanese per rappresentare
in maniera semplice e nel contempo efficace la realtà
sul campo. Bussammo a parecchie porte, dal Teatro Nazionale
Macedone all’Accademia d’Arte Drammatica
al Teatro delle Nazioni Turca e Albanese, invitandoli
a collaborare.
Si rivelò una proposta esplosiva. «Collaborare!
Mai collaborato prima. Qui tutti sospettano di tutti,
ognuno cura i propri interessi, praticamente siamo nemici.
Come sarebbe collaborare?» (…) «Noi
ci vogliamo affrancare da questi schemi tipici del socialismo
reale, e tu ce li vuoi rifilare di nuovo? Stai cercando
di vendere corda a casa dell’impiccato».
Il caso volle che tutto questo accadesse proprio il
giorno dell’attentato al presidente macedone,
Kiro Gligorov. (…)
Ovviamente questi individui, così imbevuti di
fanatismo nei confronti degli stranieri, si portano
dietro le medesime passioni quando si ritrovano essi
stessi stranieri, in terra straniera, come immigrati.
E le proiettano su chiunque passi loro accanto. «Devono
detestarmi esattamente come li detesterei io se fossi
nei loro panni».
E il loro fanatismo lo alimentano, lo potenziano, lo
pongono al centro della loro identità, se lo
avvolgono addosso come una vite intorno a un pergolato,
finché diviene un tutt’uno e risulta faticoso
distinguere il reale dal virtuale, l’autentico
e il naturale dal forzato e dall’artificiale.
Allora questo scenario mentale si fa così tortuoso
che è difficile, per chi sta fuori, capirlo o
penetrarlo; per ironia della sorte dolce e amara insieme,
è difficile da comprendere anche per chi lo prova.
Mi piacerebbe tentare di renderlo con un piccolo monologo
che ho scritto. Si tratta di una conversazione immaginaria
tra un immigrato macedone e la Gran Bretagna, ma non
ci vuole un grande sforzo d’immaginazione per
adattarla a un contesto italiano, dove a parlare potrebbe
essere, magari, un immigrato nordafricano.
Testo
Stammi a sentire, Gran Bretagna! Non ti spaventare se
ti apostrofo così, senza giri di parole. Sì,
sono io, Zoran. Ti ricordi di me? Penso sia venuto il
momento di farci una chiacchieratina, tu e io. È
da un po’ di tempo che nel nostro rapporto qualcosa
mi preoccupa. Mi sento tradito. Sono venuto qui per
te. Io ero tuo, e tu eri mia, o così credevo.
Mi sono lasciato tutto alle spalle, ho sacrificato tutto.
Due anni fa sono arrivato a Heathrow con il cuore in
gola. Mi sono guardato attorno. Tu non c’eri ad
aspettarmi. Non sapevo cosa fare. Mi sono infilato in
una lunga coda, e gli impiegati dell’ufficio immigrazione
mi hanno chiesto come mi chiamavo e qual era lo scopo
della mia visita.
Sono passati dei mesi. Ho atteso con pazienza che mi
lanciassi un segnale, che mi dicessi qualcosa, che facessi
una mossa. Non hai mai chiamato. Hai finto di non conoscermi.
Me ne sono fatta una ragione. Lavoro in un negozio di
ferramenta a Londra. Vivo da solo. Sono depresso e mi
sono venuti i capelli grigi. Qualsiasi cosa mi succeda,
è come spargere sale sulle mie ferite. A volte
penso che dovrei uccidermi. Un suicidio clamoroso sarebbe
una soluzione, in un certo senso. Lasciare un biglietto
in cui ti do la colpa di tutto. Passo i sabati e le
domeniche a fantasticare su di te che vieni al mio funerale,
stravolta dal dolore, tutta sexy vestita di nero.
Faccio un corso serale di inglese, organizzato a spese
dell’amministrazione locale. Non sono gran che
bravo, ma se è per questo, neanche i miei vicini
inglesi lo sono. Loro non capiscono me, io non capisco
loro. Non parlo un inglese perfetto, e neanche loro.
Non ho letto Shakespeare, e neanche loro. Sono un diverso,
e sono diversi anche loro. Io vado alla scuola serale,
e loro no. Non è mica giusto. Anche loro dovrebbero
andare alla scuola serale. “Lingua e cultura inglese
per principianti”.
Non sono mai stato all’università. Un
amico mi ha suggerito di studiare sociologia, che era
facile. Ha provato a spiegarmi cos’era, ma io
non ho capito e così non ci sono andato. Ho scelto
la scuola della vita. Ero disoccupato, vivevo con i
miei. Quando ho compiuto 33 anni, mio padre ha detto
che dovevo lavorare nel negozio di ferramenta del suo
amico. Io ho detto che non avrei mai lavorato in un
negozio di ferramenta, che ero fatto per cose migliori.
Abbiamo litigato. Ho deciso di andarmene. Un amico mi
ha detto che avevo una bella faccia balcanica, che era
proprio quello che cercavano nel cinema.
Mi sono rivolto a te. Anche tu mi hai fatto credere
che ero un’eccezione, che ero speciale. Sentivo
che facevi sul serio. Così sono venuto qui. Ho
aspettato la mia occasione, ho aspettato che ponessi
fine alle mie sofferenze, che mi invitassi a prendere
il tè a casa tua. Ma non è successo.
L’unico lavoro che ho trovato è in un negozio
di ferramenta. Oh, beh, almeno è un lavoro. Tutti
gli inglesi che conosco sono disoccupati, campano di
sussidi.
Tutto questo mi mette tristezza e rabbia. E un giorno
dovrai chiedermi scusa. Invece mi hai spedito uno stupido
registucolo inglese dilettante, che mi vuole nel suo
film inserito in un progetto sociale per piccoli immigrati
iperattivi. Io dovrei fare la parte di un immigrato
sbronzo che è entrato in una scuola piena di
bambini dove c’è anche suo figlio. IL figlio
si vergogna, anch’io mi vergogno, la sbronza mi
passa e torno in me. Ma che razza di roba è questa?
È un insulto. Grazie tante, ma non è questo
che avevo in mente.
James Bond, ecco! Potrei fare James Bond per una grossa
produzione. Impassibile e sprezzante del pericolo, liquiderei
il folle che vuol diventare padrone del mondo. E tu
vieni alla prima a Leicester Square e ti alzi in piedi
ad applaudire. Dopodiché, ce ne andiamo insieme
mano nella mano nella notte londinese. Un successo clamoroso
sarebbe una soluzione, in un certo senso. Voglio fare
film che sfondino ai botteghini, non quelle pellicole
educative sugli immigrati e le loro difficoltà
d’integrazione.
Mi rifiuto di lavorare con quel perdente che riesce
a scovare finanziamenti solo per progetti con gli immigrati,
e non c’è nessuno che voglia lavorarci
assieme. Ha incominciato a parlarmi di programmi, di
fondi e iniziative. Ponti fra culture e diversità
culturale. «È là che bisogna guardare
per far soldi in fretta», diceva. E io ero perfetto
come Volto della Minoranza Autoctona. Gli ho chiesto
cosa significava, sembrava una malattia venerea. «Non
ti preoccupare di cosa vuol dire – ha risposto
lui vieni con me e basta». Così mi porta
in un ufficio da questa donna Lei mi fa accomodare e
incomincia a blaterare su come mi vorrebbe legittimare
e trascinare nella pubblica arena, farmi partecipare
al dibattito e al processo politico, così potrei
esprimere le mie istanze e acquisire il senso delle
mie affinità culturali. Non avevo idea di cosa
volesse da me. Mi sono spaventato, manco fossi dal dentista,
e me la sono data a gambe.
I meccanismi della tua democrazia mi fanno ridere.
Per anni, prima del crollo, la Iugoslavia aveva creduto
di possedere gli strumenti adatti a garantirle stabilità,
intesa e armonia. Tutti quanti facevano finta di volersi
bene. Poi, un bel giorno, è arrivato un duro
che ha picchiato un pugno sul tavolo e ha esclamato:
«Signori, il gioco è finito. Andate a farvi
fottere». Ed è bastato questo perché
il castello di carte precipitasse nel guerra civile.
Gli amici mi dicono che la tua attrazione per me è
puramente fisica, che sono solo l’uomo di una
notte. Che sei una puttana e hai milioni di altri amanti.
Che hai un buco al posto del cuore e ogni giorno, come
un drago, lo riempi con quaranta immigrati di diverse
culture. E la chiami world culture. Forse farei bene
a voltarti le spalle e mettere in atto un clamoroso
ritorno a casa. Anche questa sarebbe una soluzione in
un certo senso. Dirti addio, dirti che me ne devo andare
per via dei miei impegni. E lasciarti in lacrime –
uscire senza girarmi indietro. Me ne andrei al mio paese,
farei la pace con mio padre, tornerei alle mie danze,
al mio cibo, alla mia bandiera e ai miei gitani: per
quattro soldi ti fanno tutti i lavori di casa più
schifosi, cucinano, puliscono, stirano, eccetera –
è come avere uno schiavo personale. In patria
posso essere un re.
Così tu pensi che io sia il solito ipocrita,
un bastardo che tiene il piede in due scarpe, incostante
e imprevedibile. Beh, forse è vero. Forse dovrei
compiere un clamoroso omicidio, ammazzare quel regista
per le strade di Londra piantando un messaggio d’odio
con un coltello sul tuo corpo. Sì, anche l’omicidio
sarebbe una soluzione, in un certo senso.
Lo so che non t’importa nulla di me – che
è tutta una frottola. Affari e niente più.
Brillante appalto di operazioni all’estero. Gestione
del conflitto interculturale. Non mi freghi, so vedere
dietro la facciata…
Et cetera, et cetera, et cetera. E avanti
di questo passo. Beh, la finisco qui, ma lascia che
io ti dica un paio di cose da parte del mio eroe immigrato.
Sono sicuro di sapere cosa prova, e che parlerebbe proprio
così se ne fosse capace.
Ti pregherebbe di non darlo per spacciato, perché
quanto più proverai ad agguantarlo, tanto più
riuscirà a sfuggirti. Più lo cercherai,
più cercherà di nascondersi. Ha bisogno
che tu reciti la parte della madre cattiva, della puttana,
dell’orrida strega, perché così
puoi sentirsi agnello innocente, uomo perbene, vittima
sacrificale. Dagli tempo, però. Deve crescere
ancora parecchio. Deve lavorare sul suo orgoglio e imparare
ad ascoltare. Amarti lo ha reso migliore. Ha tanto da
offrire non darlo per spacciato.
Magari, un bel giorno, vincerà il clamoroso
premio di Commesso del Mese al negozio di ferramenta.
Che sarebbe senz’altro una soluzione. E allora
ti lascerà andare. Ti lascerà libera,
così tu proseguirai per la tua strada e lui per
la sua. E riuscirà a sorridere e ad esclamare
tra sé e sé: «Questo sì che
è un meraviglioso mondo multiculturale, interculturale
e transculturale!»
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