“Su
ciò di cui non si può parlare bisogna
tacere”. Questa considerazione perentoria di Wittgenstein
– la frase conclusiva del suo celebre Tractatus
– si riferisce alle questioni cosiddette metafisiche
(ad esempio, se vi sia o meno un aldilà o cosa
ci attenda dopo la morte), intorno alle quali il pensatore
austriaco ritiene la filosofia non possa e non debba
occuparsi.
Diversamente la pensava Jung, che lungo tutta la propria
indefessa indagine intorno alla psiche – o anima,
per dirla con bella voce latina – si occupò
in continuazione di problematiche inerenti la sfera
religiosa, spirituale o comunque relativa ad ambiti
non meramente mondani e/o materialistici; poiché
riteneva che tutto quanto noi pensiamo del
mondo (l’aspetto della mera coscienza) fosse strettamente
legato ad un ambito pre-logico (la dimensione dell’inconscio),
non certo solo soggettivo (nasce con Jung il concetto
di inconscio collettivo), da cui egli riteneva emergessero
simboli, immagini e metafore psichiche – i cosiddetti
archetipi – assolutamente non riferibili al logos
(alla razionalità), ma espressivi della nostra
più profonda e autentica realtà psichica
e umana.
Così in Anima e morte, del 1934, il
fondatore della psicologia analitica prende posizione
sull’indicibile dell’exitus: sul
senso (o non senso) del venir meno al termine della
nostro itinerario esistenziale; tema su cui egli pensa
che non solo la religione possa e debba parlare. Scrive
a tale proposito Jung: “mai s’impone in
modo più stringente e penoso il problema del
significato e del valore della vita come quando assistiamo
all’ultimo respiro che abbandona un corpo”.
Vale a dire: è ineludibile, di fronte allo scacco
della morte, una riflessione sullo scopo, sul perché
(o viceversa sull’assurdo o inanità) di
un annichilimento fonte di lutto, angoscia e impotenza.
Ma forse – suggerisce lo studioso svizzero –
è necessario innanzitutto mettere in parentesi
le idee preconcette che noi moderni disincantati abbiamo
sulla morte, ovvero il considerarla solo una cessazione,
una fine; e non già piuttosto un fine: un compimento
equivalente al raggiungere una meta. Jung compara dunque
l’esistenza alla traiettoria parabolica di un
proiettile, il quale attraversa varie fasi. Partendo
da una situazione di quiete esso conosce un moto di
ascesa, di discesa e infine trova nuovamente quiete.
Ebbene, per restare sempre nell’esemplificazione
junghiana, come il proiettile si arresta – giunto
al bersaglio – così: “la vita termina
nella morte, che è quindi il bersaglio, lo scopo
di tutta la vita”.
Affermazione paradossale solo se insistiamo nel dare
risalto/significato appena alla nascita/inizio del nostro
essere al mondo, e mai alla morte/fine dell’umana
parabola. Di contro, l’obiezione, che lo stesso
Jung per primo si pone è però prevedibile:
Ma allora: “che cosa si ottiene con la morte?”.
Ovvio che il Nostro nemmeno osi risposte esaustive.
Tuttavia, nel tentativo di replicare allo scontato rilievo,
il Nostro si rifà al consensus gentium,
cioè alla credenza tradizionale/popolare nell’exitus
quale passaggio ad un’essenza altra (l’“aldilà”,
per capirci) e al messaggio comune un po’ di tutte
le religioni, che nella morte vede un transito e una
trasformazione non negativi, ma volti a farci partecipare
all’eterno.
L’ateo, l’agnostico o più semplicemente
il razionalista potrebbe obiettare a questo proposito
che di fantasie si tratta, di illusioni consolatorie;
in ogni caso di scenari scientificamente inattendibili
e non verificabili; quindi privi affatto di credibilità.
Ma suppongo Jung gli farebbe notare come i simboli e
i mitologemi religiosi non siano tanto prodotti della
coscienza, ma dell’inconscio, ossia del nostro
strato psichico più profondo, che tutti gli uomini
hanno in comune. Gli direbbe forse altresì che
il tema della morte non come fine ma come inizio di
nuova vita sia non già il prodotto d’una
elucubrazione consapevole/ingannevole – magari
finalizzata ad esorcizzare l’ansia del trapasso
e della finitudine – quanto un antichissimo frutto
spontaneo millenario, maturato nei recessi più
abissali e misteriosi della psiche, o anima, appunto.
“L’essenza della psiche si estende in tenebre
che sono molto al di là delle nostre categorie
intellettuali”, nota, sempre in Anima e morte,
l’autore. “L’anima contiene non meno
enigmi di quanti ne abbia l’universo con le sue
galassie, di fronte al cui sublime aspetto soltanto
uno spirito privo di fantasia può non riconoscere
la propria insufficienza”.
Sicuramente queste puntualizzazioni non significano
si possa dire nulla di certo intorno al dopo rispetto
alla morte o al suo significato. Del resto l’anima/psiche
tiene in gran poco conto le certezze razionali. Resta
che chi riuscisse a pensare – come gli antichi
– alla morte come compimento o fioritura dell’essere,
egli non solo eviterebbe di guardare alla fine come
una cessazione definitiva e/o angosciosa, ma “godrebbe
inoltre il non disprezzabile vantaggio di trovarsi in
armonia con una "inclinazione" dell’anima
umana, esistente da tempo immemorabile e universalmente
diffusa”.
Carl G. Jung,
Anima e morte – Sul rinascere,
Bollati Boringhieri, pp. 88, € 11,00
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