Possono esserci
diversi modi di intendere l’espressione “la
cultura fa la differenza”.
Il più banale e immediato è questo. Immaginiamo
il caso di un gruppo di studenti non troppo brillanti
che si trova a sostenere l’esame nello stesso
giorno di un ragazzo assai capace. Ovviamente quando
i primi riceveranno il loro risicato 18 e il secondo
il suo bel 30 e lode, il fatto si commenterà
da sé: “la cultura fa la differenza”.
Ma la cultura intesa in questo senso potrebbe anche
sfumare rapidamente in un’accezione un poco snob
come un circolo riservato a pochi eletti. Insomma, dove
c’è cultura c’è anche in-cultura,
dove c’è il colto c’è l’incolto
e via dicendo. Esiste, però, una seconda possibilità
meno immediata: quando il termine cultura non indica
il patrimonio di conoscenze, più o meno libresche,
di un determinato individuo, ma, con valore più
antropologico, il complesso di saperi, tradizioni, procedimenti
tecnici, comportamenti trasmessi che caratterizzano
un popolo, un gruppo di popoli o l’umanità
intera. Qui non solo è vero che la cultura fa
la differenza ma anche il contrario. Nell’incontro
e nello scambio tra culture e popoli diversi si genera
nuova cultura.
A questa nuova cultura, alla multi-cultura, Simona
Bodo e Maria Rita Ciffarelli dedicano una raccolta di
saggi dal titolo Quando la cultura fa la differenza.
Patrimonio, arti e media nella società multiculturale.
Gli autori dei testi – da Tony Bennett a Iain
Chambers, da François Matarasso a Franco Bianchini,
da Massimo Ghirelli a Goran Stefanovski – avanzano,
ciascuno nel proprio ambito e nel rispetto delle proprie
competenze, suggerimenti per una società realmente
aperta all’inclusione delle diversità.
Il volume, che “si propone di esplorare il tema
del rapporto tra politiche culturali e società
multietnica”, si apre con una riflessione su alcuni
concetti chiave e una mappa concettuale e terminologica:
cosa s’intende con interculturalismo? E con multiculturalismo?
Cosa vuol dire dialogo? Esiste una deontologia interculturale?
La parte centrale resta, tuttavia, quella dedicata ai
policy makers, alle istituzioni e ai media
di fronte alle sfide poste dalla società multiculturale.
Legittimazione democratica in testa.
Le istituzioni non si sono ancora adeguate al cambiamento
e “ancora troppi individui e interi gruppi sociali
sono tagliati fuori dalla cultura sovvenzionata”.
È necessario “rinegoziare lo spazio pubblico”
affinché la condivisione diventi “qualcosa
di più di un semplice gesto simbolico”,
rinnovare le istituzioni culturali già esistenti
e crearne di nuove dando vita a politiche innovative
nei settori della vita urbana, della cosiddetta “cultura
ufficiale” (musei, commissioni di opere, ecc.)
e dei media i quali troppo spesso cedono a rappresentazioni
caricaturali dell’Altro e tendono a emarginare,
anche dal punto di vista informativo, le comunità
dei migranti. Non basta adattare il vecchio quadro politico
alla nuova situazione sociale ma occorre sviluppare
contesti nuovi capaci di ospitare le culture e le storie
degli altri.
Questo discorso è particolarmente stringente
nel contesto italiano dove le questioni dell’integrazione
culturale non sono state ancora affrontate con la dovuta
sensibilità e la recente immigrazione dalle coste
africane è stata vissuta – erroneamente
– come un evento radicalmente nuovo, se non allarmante.
“Abituati a pensare alle questioni di emigrazione,
immigrazione, razzismo e diversità come problemi
altrui, siamo, invece, ora chiamati a pensarli come
prodotti della nostra storia, della nostra cultura,
del nostro linguaggio, del nostro potere, dei nostri
desideri e delle nostre nevrosi. (…) Dopo Freud,
ma, come Jean François Lyotard ci ricorda, già
all’alba della tragedia greca, sappiamo che la
patria è illusoria. Lo straniero, il represso,
l’inconscio, si infiltrano nello spazio domestico,
la porta è porosa”.
Simona Bodo, Maria Rita Ciffarelli (a cura di)
Quando la cultura fa la differenza.
Patrimonio, arti e media nella società multiculturale,
Meltemi, 2006; pp. 212, € 18,50
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