304 - 24.08.06


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Quello stile tutto di Celati

Luca Sebastiani



Gianni Celati è un Grande scrittore, uno dei pochi rimasti. Forse l’unico nel suo genere. Scrittore completo, di quella completezza e complessità degli scrittori di una volta, quelli che tenevano insieme nel loro lavoro un’attitudine critica e una riflessione su più versanti. Quelli per cui ogni raggiungimento può essere soltanto una tappa, per cui la “scrittura” può essere solo un esperimento, un’apertura. Ricerca.

Traduttore, di Céline, Swift, Holderlin, Melville, London e Stendhal, tra gli altri. Critico e saggista con Finzioni Occidentali. Pedagogo quando aveva la cattedra di Letteratura americana. Documentarista con Visioni di case che crollano.

Nonostante la grandezza e ricchezza, quello di Gianni Celati è un percorso personalissimo, appartato, al di fuori dei circuiti ufficiali ai quali oppone una ricerca molto poco ufficializzabile, codificabile e vendibile. Nonostante la sua influenza grandissima su almeno un paio di generazioni di giovani scrittori, il nome dello scrittore “bolognese” rimane poco noto ai più. Eppure, ci permettiamo di dire, Celati è un Classico.

Anche qui una distinzione. Perché la sua opera è molteplice, diversa, differenziata. Una produzione a intervalli irregolari, fuori da scadenze e aspettative. Un’opera, però, che della classicità ha la riconoscibilità. Celati è una voce, uno stile.

Prendiamo questo libretto uscito da Nottetempo che ha appena vinto il Premio Viareggio. S’intitola Vite di pascolanti, tre brevi racconti intrisi di celatianità. Nello stile, nella voce.

Nella quarta di copertina lo stesso autore scrive: “Questi racconti fanno parte di una serie di esercitazioni a raccontare storie, che se un giorno arrivassero in porto dovrebbero chiamarsi Costumi degli italiani, e comprendere: la storia della mia famiglia, storie scolastiche, idiozie dell’adolescenza, ritratti di celebrità, notizie su vacanze, politica, raccomandazioni, cattolicesimo, sesso, calcio, morale etc.”.

Ecco, nei racconti sono contenute un po’ tutte queste cose che appartengono alla società, nella fattispecie, italiana. Ma Vite di pascolanti, ci avverte l’autore, non racconta questa o quella storia, è piuttosto “un’esercitazione a raccontare storie”.

Attenzione allora a non lasciarsi prendere dalla tentazione di dire che i racconti parlano di, sviluppano che, insegnano a. I racconti di Celati si ricollegano ad una tradizione più antica di quella del racconto realistico, moralistico, moderno o che so io.

Il suo è un raccontare visionario, la sua lingua non ha intenti mimetici. Nasce dal “si dice”, dal “pare che”, dal “forse”, dal “mi sembra”. Insomma, da quell’esigenza del raccontare non per spiegare, ma per provare a far emergere ciò che la coscienza imperante circoscrive al di fuori di sé; con la “vaghezza” dei referenti e la precisione della lingua, che chiama il lettore entro i confini di uno spazio visionario, in cui tra elementi per poggiarsi e altri sconosciuti, il lettore è chiamato a vivere un’esperienza della disponibilità ad una realtà non univoca, non segnata, non nevrotica.

Una realtà che molti si affrettano a definire, per la famosa esigenza a spiegare sempre: “Celati ci rappresenta la vita in provincia”. Certo, il racconto non ha senso senza la collettività, così come l’uomo solo non ha senso se non in società. E allora si riconosce questo e quello e si cade nella tentazione di dire che l’autore ci spiega la vita in provincia. Fosse stato così sulla quarta di copertina avrebbe riassunto le storie contenute nel libro e indicato la morale. Come sempre nei libri che si stampano.

Celati parte invece dall’assunto che la realtà non sia immediatamente rappresentabile e che la sua codificazione univoca non sia nient’altro che la follia contemporanea.

Questi tre racconti sono incorniciati alla maniera del racconto orale in cui il “narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita – e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia.” (Walter Benjamin). La parola del narratore si costituisce allora come un dire per voce in cui la parola stessa sembra farsi direttamente, prima della scrittura.

Come sempre in Celati, il narratore – che qui è lo stesso autore da giovane, come scopriremo soltanto alla fine – imprime il suo marchio alla materia, ma non diventa il punto di connessione logocentrica che unifica e sintetizza la trama in una morale. Procede per quadri, per visioni sconnesse e incerte, in cui strambi personaggi tornano e si perdono di continuo.

La lingua del narratore e il ritmo del narrato, nella sua apparente impassibilità e omogeneità, produce effetti comici e malinconici consegnandoci l’impressione, che si ha sempre leggendo Celati, “che ci sia un dentro e un fuori collegati in qualche modo, vai poi a sapere come”.


Gianni Celati
Vite di Pascolanti – tre racconti
Nottetempo, pagine 138, euro 7,00

 


 

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