Gianni Celati
è un Grande scrittore, uno dei pochi rimasti.
Forse l’unico nel suo genere. Scrittore completo,
di quella completezza e complessità degli scrittori
di una volta, quelli che tenevano insieme nel loro lavoro
un’attitudine critica e una riflessione su più
versanti. Quelli per cui ogni raggiungimento può
essere soltanto una tappa, per cui la “scrittura”
può essere solo un esperimento, un’apertura.
Ricerca.
Traduttore, di Céline, Swift, Holderlin, Melville,
London e Stendhal, tra gli altri. Critico e saggista
con Finzioni Occidentali. Pedagogo quando aveva
la cattedra di Letteratura americana. Documentarista
con Visioni di case che crollano.
Nonostante la grandezza e ricchezza, quello di Gianni
Celati è un percorso personalissimo, appartato,
al di fuori dei circuiti ufficiali ai quali oppone una
ricerca molto poco ufficializzabile, codificabile e
vendibile. Nonostante la sua influenza grandissima su
almeno un paio di generazioni di giovani scrittori,
il nome dello scrittore “bolognese” rimane
poco noto ai più. Eppure, ci permettiamo di dire,
Celati è un Classico.
Anche qui una distinzione. Perché la sua opera
è molteplice, diversa, differenziata. Una produzione
a intervalli irregolari, fuori da scadenze e aspettative.
Un’opera, però, che della classicità
ha la riconoscibilità. Celati è una voce,
uno stile.
Prendiamo questo libretto uscito da Nottetempo che
ha appena vinto il Premio Viareggio. S’intitola
Vite di pascolanti, tre brevi racconti intrisi
di celatianità. Nello stile, nella voce.
Nella quarta di copertina lo stesso autore scrive:
“Questi racconti fanno parte di una serie di esercitazioni
a raccontare storie, che se un giorno arrivassero in
porto dovrebbero chiamarsi Costumi degli italiani,
e comprendere: la storia della mia famiglia, storie
scolastiche, idiozie dell’adolescenza, ritratti
di celebrità, notizie su vacanze, politica, raccomandazioni,
cattolicesimo, sesso, calcio, morale etc.”.
Ecco, nei racconti sono contenute un po’ tutte
queste cose che appartengono alla società, nella
fattispecie, italiana. Ma Vite di pascolanti, ci avverte
l’autore, non racconta questa o quella storia,
è piuttosto “un’esercitazione a raccontare
storie”.
Attenzione allora a non lasciarsi prendere dalla tentazione
di dire che i racconti parlano di, sviluppano che, insegnano
a. I racconti di Celati si ricollegano ad una tradizione
più antica di quella del racconto realistico,
moralistico, moderno o che so io.
Il suo è un raccontare visionario, la sua lingua
non ha intenti mimetici. Nasce dal “si dice”,
dal “pare che”, dal “forse”,
dal “mi sembra”. Insomma, da quell’esigenza
del raccontare non per spiegare, ma per provare a far
emergere ciò che la coscienza imperante circoscrive
al di fuori di sé; con la “vaghezza”
dei referenti e la precisione della lingua, che chiama
il lettore entro i confini di uno spazio visionario,
in cui tra elementi per poggiarsi e altri sconosciuti,
il lettore è chiamato a vivere un’esperienza
della disponibilità ad una realtà non
univoca, non segnata, non nevrotica.
Una realtà che molti si affrettano a definire,
per la famosa esigenza a spiegare sempre: “Celati
ci rappresenta la vita in provincia”. Certo, il
racconto non ha senso senza la collettività,
così come l’uomo solo non ha senso se non
in società. E allora si riconosce questo e quello
e si cade nella tentazione di dire che l’autore
ci spiega la vita in provincia. Fosse stato così
sulla quarta di copertina avrebbe riassunto le storie
contenute nel libro e indicato la morale. Come sempre
nei libri che si stampano.
Celati parte invece dall’assunto che la realtà
non sia immediatamente rappresentabile e che la sua
codificazione univoca non sia nient’altro che
la follia contemporanea.
Questi tre racconti sono incorniciati alla maniera
del racconto orale in cui il “narratore prende
ciò che narra dall’esperienza – dalla
propria o da quella che gli è stata riferita
– e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano
la sua storia.” (Walter Benjamin). La parola del
narratore si costituisce allora come un dire per voce
in cui la parola stessa sembra farsi direttamente, prima
della scrittura.
Come sempre in Celati, il narratore – che qui
è lo stesso autore da giovane, come scopriremo
soltanto alla fine – imprime il suo marchio alla
materia, ma non diventa il punto di connessione logocentrica
che unifica e sintetizza la trama in una morale. Procede
per quadri, per visioni sconnesse e incerte, in cui
strambi personaggi tornano e si perdono di continuo.
La lingua del narratore e il ritmo del narrato, nella
sua apparente impassibilità e omogeneità,
produce effetti comici e malinconici consegnandoci l’impressione,
che si ha sempre leggendo Celati, “che ci sia
un dentro e un fuori collegati in qualche modo, vai
poi a sapere come”.
Gianni Celati
Vite di Pascolanti – tre racconti
Nottetempo, pagine 138, euro 7,00
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