302 - 07.07.06


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Lontano dall’infelicità

Francesco Roat



Orfano di Dio (o meglio della supponenza metafisica) sin dai tempi di Nietzsche, ormai refrattario alle ideologie (tranne forse quella economicistico-liberistica che tutto riduce a mercanzia) e sempre più disincantato nei confronti del progresso tecnologico-tecnocratico, l’uomo postmoderno ? figlio di un Occidente senza più stelle fisse all’orizzonte del proprio declino ?, consapevole della caducità/provvisorietà di ogni ambito esistenziale, rischia di smarrirsi nella selva oscura di un nichilismo pessimistico o di perdere la propria anima, consegnandosi ad un individualismo narciso che lo fa monade senza porte e finestre e soprattutto senza più tratti umani, se essi da sempre sono espressivi di empatia, condivisione, ascolto indefesso e apertura al tu e all’altro/oltre da sé.

Ha dunque necessariamente da giungere a detto approdo epocale la nostra Storia dell’infelicità, per dirla col sottotitolo del nuovo saggio di Flavio Ermini? Ovvero, dobbiamo arrenderci all’insignificanza di un vivere insensato, la cui unica certezza è l’annichilimento dopo una breve parabola, segnata – come attesta l’amara lezione di Leopardi – dal venir meno e dal dolore? Dobbiamo zittire le nostre parole, o per ben che vada esse sono destinate ad implodere nella retorica autoreferenziale, nella lamentazione autoconsolatoria, nella chiacchiera fine a se stessa?

La risposta – forte e chiara – che emerge dalla riflessione di Ermini è inequivocabilmente un no. Ma attenzione. No, solo se sapremo finalmente procedere “oltre le torri della filosofia, i precipizi della letteratura, gli idoli della religione, la rotta delle belle arti” aprendoci ad un pensiero inedito, ad una parola/espressività che nasca nel mondo medesimo e muova da esso a noi attraverso la “lingua muta delle cose”, e tramite un ascolto/approccio “senza mediazioni” concettuali e senza la protervia di dominarle/controllarle.

Si tratta di farsi umili, quindi, di rigettare una volta per tutte la fallacia di un logos illuso di tutto spiegare o piegare alla propria razionalità.
In questo caso la parola non cerca di illuminare/fugare le tenebre del non-conosciuto ma di abitarne l’oscurità ineludibile, di percorrerne gli anfratti accogliendone l’aspetto umbratile e profondo, allenandoci non già alla staticità/sistematicità di una ratio assolutizzante ma ad un perpetuo interrogarci; ad un antipensiero vaccinato contro ogni forma di cristallizzazione in modelli/schemi fissi e immutabili; ad un dire declinabile nel segno del pluriverso, della traccia allusiva, della metafora.

Non a caso è il dire poetico quello a cui Ermini fa riferimento, nella speranza di poter giungere a “guarire” le parole dalla saccenza e dall’esaustività di una significazione rigida, allorché “compito della parola diventa quello di mettere a contatto gli uomini con ciò che di pre-sensato vi è in loro”; senza che questo significhi regressione alcuna al caos dell’indistinto.

Ma allora parlare comporta prima un ammutolirsi teso all’ascolto dell’altro rispetto all’io; al mondo che – ci ricorda l’autore – è un insieme d’esistenze caduche non una collezione di “pure forme”. E poeta è colui il quale invita a un silenzio che comporta accoglienza nei confronti delle cose, cui aprirsi rifuggendo apriorismi e convenzionalità, in modo possa farsi udire in noi quella voce dell’anima di cui sembra si siano smarriti gli accenti.

E l’insoddisfazione, l’infelicità delle quali si accennava all’inizio? In un’ottica diversa, la prospettiva di come porci nei confronti del cosiddetto Weltschmerz (il dolore del mondo) può mutare totalmente se guardiamo alla vita come espressione di un esistere all’insegna del mutamento; dove morte e vita possono venir colti come due poli dell’esserci; dove il tramonto inevitabile del singolo individuo è appena la possibilità dello sbocciare di nuova vita. Ma, si badi bene, sbaglieremmo senz’altro nel voler cavare a tutti i costi dal breviario poetico-filosofico di Ermini formule definitive, risposte unidirezionali, mappe interpretative o peggio ancora considerazioni consolatorie. Non faremmo che perpetuare il vizio di forzare la parola in una direzione o di congelarla/esaurirla in un paradigma statico.

A nulla di tutto questo mirano, credo, le pagine di questa eccellente riflessione saggistico-narrativa dal respiro poetico, dal registro aforistico e dall’intento non asseverativo ma propositivo che, invitandoci a prendere congedo una volta per tutte dal vizio assurdo del conformismo intellettuale, “provoca a pensare altrimenti”.


Flavio Ermini,
Il moto apparente del sole.
Storia dell’infelicità,

Moretti & Vitali, pp. 301, € 20,00


 

 

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