Orfano di
Dio (o meglio della supponenza metafisica) sin dai tempi
di Nietzsche, ormai refrattario alle ideologie (tranne
forse quella economicistico-liberistica che tutto riduce
a mercanzia) e sempre più disincantato nei confronti
del progresso tecnologico-tecnocratico, l’uomo
postmoderno ? figlio di un Occidente senza più
stelle fisse all’orizzonte del proprio declino
?, consapevole della caducità/provvisorietà
di ogni ambito esistenziale, rischia di smarrirsi nella
selva oscura di un nichilismo pessimistico o di perdere
la propria anima, consegnandosi ad un individualismo
narciso che lo fa monade senza porte e finestre e soprattutto
senza più tratti umani, se essi da sempre sono
espressivi di empatia, condivisione, ascolto indefesso
e apertura al tu e all’altro/oltre da sé.
Ha dunque necessariamente da giungere a detto approdo
epocale la nostra Storia dell’infelicità,
per dirla col sottotitolo del nuovo saggio di Flavio
Ermini? Ovvero, dobbiamo arrenderci all’insignificanza
di un vivere insensato, la cui unica certezza è
l’annichilimento dopo una breve parabola, segnata
– come attesta l’amara lezione di Leopardi
– dal venir meno e dal dolore? Dobbiamo zittire
le nostre parole, o per ben che vada esse sono destinate
ad implodere nella retorica autoreferenziale, nella
lamentazione autoconsolatoria, nella chiacchiera fine
a se stessa?
La risposta – forte e chiara – che emerge
dalla riflessione di Ermini è inequivocabilmente
un no. Ma attenzione. No, solo se sapremo finalmente
procedere “oltre le torri della filosofia, i precipizi
della letteratura, gli idoli della religione, la rotta
delle belle arti” aprendoci ad un pensiero inedito,
ad una parola/espressività che nasca nel mondo
medesimo e muova da esso a noi attraverso la “lingua
muta delle cose”, e tramite un ascolto/approccio
“senza mediazioni” concettuali e senza la
protervia di dominarle/controllarle.
Si tratta di farsi umili, quindi, di rigettare una
volta per tutte la fallacia di un logos illuso
di tutto spiegare o piegare alla propria razionalità.
In questo caso la parola non cerca di illuminare/fugare
le tenebre del non-conosciuto ma di abitarne l’oscurità
ineludibile, di percorrerne gli anfratti accogliendone
l’aspetto umbratile e profondo, allenandoci non
già alla staticità/sistematicità
di una ratio assolutizzante ma ad un perpetuo interrogarci;
ad un antipensiero vaccinato contro ogni forma di cristallizzazione
in modelli/schemi fissi e immutabili; ad un dire declinabile
nel segno del pluriverso, della traccia allusiva, della
metafora.
Non a caso è il dire poetico quello a cui Ermini
fa riferimento, nella speranza di poter giungere a “guarire”
le parole dalla saccenza e dall’esaustività
di una significazione rigida, allorché “compito
della parola diventa quello di mettere a contatto gli
uomini con ciò che di pre-sensato vi è
in loro”; senza che questo significhi regressione
alcuna al caos dell’indistinto.
Ma allora parlare comporta prima un ammutolirsi teso
all’ascolto dell’altro rispetto all’io;
al mondo che – ci ricorda l’autore –
è un insieme d’esistenze caduche non una
collezione di “pure forme”. E poeta è
colui il quale invita a un silenzio che comporta accoglienza
nei confronti delle cose, cui aprirsi rifuggendo apriorismi
e convenzionalità, in modo possa farsi udire
in noi quella voce dell’anima di cui sembra si
siano smarriti gli accenti.
E l’insoddisfazione, l’infelicità
delle quali si accennava all’inizio? In un’ottica
diversa, la prospettiva di come porci nei confronti
del cosiddetto Weltschmerz (il dolore del mondo)
può mutare totalmente se guardiamo alla vita
come espressione di un esistere all’insegna del
mutamento; dove morte e vita possono venir colti come
due poli dell’esserci; dove il tramonto inevitabile
del singolo individuo è appena la possibilità
dello sbocciare di nuova vita. Ma, si badi bene, sbaglieremmo
senz’altro nel voler cavare a tutti i costi dal
breviario poetico-filosofico di Ermini formule definitive,
risposte unidirezionali, mappe interpretative o peggio
ancora considerazioni consolatorie. Non faremmo che
perpetuare il vizio di forzare la parola in
una direzione o di congelarla/esaurirla in un paradigma
statico.
A nulla di tutto questo mirano, credo, le pagine di
questa eccellente riflessione saggistico-narrativa dal
respiro poetico, dal registro aforistico e dall’intento
non asseverativo ma propositivo che, invitandoci a prendere
congedo una volta per tutte dal vizio assurdo del conformismo
intellettuale, “provoca a pensare altrimenti”.
Flavio Ermini,
Il moto apparente del sole.
Storia dell’infelicità,
Moretti & Vitali, pp. 301, € 20,00
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