Tratto
da Reset
Monolingue o poliglotta, il mondo della comunicazione
elettronica è un mondo di sovrabbondanza testuale,
nel quale l’offerta dello scritto supera di gran
lunga la capacità dei lettori di appropriarsene.
Spesso la letteratura ha denunciato l’inutilità
dei libri accumulati, il numero eccessivo di testi1.
Tale diagnosi ha fatto da contraltare a tutti i discorsi
celebrativi che, a partire dal XV secolo, esaltano l’invenzione
di Gutenberg.
Essa esprime un’inquietudine persistente di fronte
a un mondo testuale cha ha proliferato, divenendo incontrollabile.
Nel racconto di Borges Utopia di un uomo che è
stanco, il dialogo tra Eudoro Acevedo e l’uomo
senza nome traduce a suo modo questa angoscia. Sfogliando
un’edizione del 1518
dell’Utopia di Tommaso Moro, Eudoro Acevedo
dichiara: «È un libro stampato. A casa
mia ne ho più di duemila, anche se non così
antichi e preziosi». Il suo interlocutore si mette
a ridere: «Nessuno può leggere duemila
libri. Nei quattro secoli che ho vissuto finora non
ne ho letti più di mezza dozzina. Inoltre la
cosa importante non è leggere, ma rileggere.
La stampa, ora abolita, è stata uno dei peggiori
mali dell’Uomo, giacché la sua tendenza
è stata quella di moltiplicare fino alla vertigine
testi inutili».
La proliferazione dei libri è fonte di confusione
più che di sapere, e la stampa ne ha generato
un eccesso che non ha prodotto nuovi geni. Ne deriva
una domanda sul presente: in che modo pensare la lettura,
di fronte ad un’offerta testuale che la tecnica
elettronica accresce ancor più che l’invenzione
della
stampa? Scriveva nel 1725 Adrien Baillet, in un’opera
intitolata Jugemens des savants sur les principaux
ouvrages des auteurs: «C’è ragione
di temere che la moltitudine dei libri, che aumentano
prodigiosamente ogni giorno,
faccia cadere i secoli futuri in uno stato altrettanto
deprecabile quale quello in cui la barbarie aveva gettato
i secoli passati allorché iniziò la decadenza
dell’Impero romano». Aveva ragione Baillet,
siamo caduti in una barbarie testuale simile a quella
subentrata alla decadenza dell’Impero romano?
Per
rispondere a questa domanda, bisogna distinguere con
estrema attenzione i vari registri sui quali influiscono
i cambiamenti che caratterizzano la rivoluzione del
testo digitale: anzitutto l’ordine dei discorsi,
poi l’ordine
delle ragioni, infine l’ordine delle proprietà.
Finisce la differenziane tra generi
Con l’ordine dei discorsi ci troviamo di fronte
alla rottura senza dubbio più importante. Nella
cultura scritta, così come la conosciamo, quest’ordine
è stabilito in base alla relazione tra alcuni
oggetti (la lettera, il libro, il giornale, la rivista,
il manifesto, il formulario, etc.), alcune categorie
testuali e alcuni usi dello scritto. Questo legame,
che associa tipi di oggetti, classi di testi e forme
di lettura, è il risultato di una sedimentazione
storica di lunghissima durata, che rimanda a tre innovazioni
fondamentali. La prima compare nei
primi secoli dell’era cristiana, allorché
il codex a noi noto – e cioè un
libro costituito da fogli e pagine assemblati in una
stessa rilegatura o copertina – prende il posto
del rotolo o volumen, il libro dei lettori
greci e romani, che aveva una struttura completamente
diversa.
La seconda rottura si colloca nel XIV e XV secolo,
prima dell’invenzione di Gutenberg, e consiste
nella comparsa del «libro unitario», per
usare l’espressione di Armando Petrucci. Esso
racchiude in un’unica rilegatura le opere di un
solo autore, o anche una sola opera.
Se questa realtà materiale era la regola per
le compilazioni giurisprudenziali, per le opere canoniche
della tradizione cristiana o per i classici dell’antichità,
non era così per i testi in volgare che, in genere,
si trovavano riuniti in miscellanee composte da opere
con date, generi o lingue diverse. È attorno
a figure come Petrarca o Boccaccio, Christine de Pisan
o Renato I il Buono che nasce, per gli scrittori moderni,
il libro «unitario», vale a dire un libro
in cui si suggella il legame tra l’oggetto materiale,
l’opera (nel senso di un’opera particolare
o una serie di opere) e l’autore.
La terza rottura è, ovviamente, l’invenzione
del torchio da stampa e dei caratteri mobili a metà
del Quattrocento. A partire da quel momento la stampa
diventa la tecnica più adoperata per la riproduzione
dello scritto e la
produzione dei libri, anche se non fa scomparire immediatamente
la produzione manoscritta.
Siamo gli eredi di queste tre storie. Prima di tutto
per la definizione del libro, che è per noi allo
stesso tempo un oggetto diverso dagli altri oggetti
della cultura scritta e un’opera intellettuale
o estetica dotata di un’identità e di una
coerenza attribuite al suo autore. In secondo luogo,
e in forma più ampia, per una percezione della
cultura scritta fondata sulle distinzioni immediate,
materiali, tra oggetti che trasportano generi testuali
diversi e implicano
usi diversi.
È questo ordine dei discorsi ad essere messo
in discussione dalla testualità elettronica.
In effetti è lo stesso supporto, in questo caso
lo schermo del computer, a far apparire di fronte al
lettore i diversi tipi di testo che, nel mondo della
cultura manoscritta e, a fortiori, di quella
stampata, erano distribuiti tra oggetti distinti. Tutti
i testi, qualunque essi siano, sono
prodotti o recepiti su di un medesimo supporto e in
forme molto simili, decise in genere dal lettore stesso.
In questo modo viene creata una continuità testuale
che non differenzia più i generi a partire dalla
loro iscrizione materiale. Da ciò sorge l’inquietudine
o la confusione dei lettori che devono affrontare e
superare la scomparsa dei criteri maggiormente
interiorizzati che permettevano loro di distinguere,
classificare e gerarchizzare i discorsi.
Lo smarrimento del lettore
Ne deriva che è la percezione delle opere in
quanto tali a diventare più difficile. La lettura
di fronte allo schermo è generalmente una lettura
discontinua, che a partire da parolechiave o rubriche
tematiche ricerca il frammento di cui vuole impossessarsi:
un articolo in una rivista elettronica, un passo in
un libro, un’informazione in un sito, e questo
senza che la totalità testuale da cui questo
frammento viene estratto debba necessariamente
essere conosciuta nell’identità e nella
coerenza che le sono proprie. In un certo senso, si
può dire che nel mondo digitale tutte le entità
testuali sono come banche dati, offrono cioè
alcune unità, la cui lettura non presuppone in
alcun modo la percezione globale dell’opera o
del corpus da cui provengono.
Quanto all’ordine dei discorsi, il mondo elettronico
presenta una triplice rottura: propone una nuova tecnica
di iscrizione e di diffusione dello scritto; invita
a una nuova relazione con i testi; impone a questi una
nuova forma di organizzazione. L’originalità
e l’importanza della rivoluzione digitale non
devono essere dunque sottovalutate, nella misura in
cui essa obbliga il lettore contemporaneo ad abbandonare,
che ne sia consapevole o no, le diverse eredità
che l’hanno costituito. Questa nuova forma di
testualità non utilizza più la stampa
(almeno nel suo significato tipografico), ignora il
«libro unitario» ed è estranea alla
materialità del codex. È dunque
una rivoluzione
che, per la prima volta nella storia, al contempo associa
una rivoluzione nella modalità tecnica di riproduzione
dei testi (come l’invenzione della stampa), una
rivoluzione nel supporto dello scritto (come la rivoluzione
del codex) e una rivoluzione nell’uso e nella
percezione dei discorsi (come le varie rivoluzioni della
lettura). Da qui, senza dubbio, lo smarrimento del lettore
contemporaneo, che deve trasformare non soltanto le
categorie intellettuali attivate per descrivere, gerarchizzare
e classificare il mondo dei libri e degli scritti, ma
anche le sue stesse percezioni, abitudini e i suoi gesti
più immediati.
Il secondo cambiamento riguarda l’ordine delle
ragioni, con cui intendiamo il modo di organizzare un’argomentazione
e i criteri a cui può ricorrere un lettore per
accettarla o rifiutarla. Dal lato dell’autore,
la testualità elettronica permette di sviluppare
delle dimostrazioni secondo una logica che non è
più
lineare o deduttiva, come quella imposta dalla iscrizione
– qualunque ne sia la tecnica con cui viene realizzata
– di un testo su una pagina. Permette un’articolazione
del ragionamento aperta, «esplosa» e relazionale,
resa possibile dalla moltiplicazione dei legami ipertestuali.
Dal lato del lettore, la convalida o il rifiuto di un
argomento può ormai fondarsi sulla consultazione
dei testi (ma anche le immagini fisse o mobili, le parole
registrate o le composizioni musicali) che sono l’oggetto
stesso dello studio, a condizione, ovviamente, che siano
accessibili in un formato digitale.
In tal caso, il lettore non è più soltanto
costretto ad accordare la propria fiducia all’autore,
ma può a sua volta, se ne ha tempo o voglia,
rifare tutto o in parte il percorso della ricerca. Si
tratta di un mutamento epistemologico
fondamentale, che trasforma profondamente le tecniche
della prova e le modalità di costruzione e convalida
dei discorsi del sapere.
Un esempio. Nel mondo della stampa, un libro di storia
presuppone un patto di fiducia tra lo storico e il suo
lettore. Le note rimandano a documenti che il lettore,
in genere, non potrà leggere. I riferimenti bibliografici
citano libri che il lettore, il più delle volte,
potrebbe trovare esclusivamente presso biblioteche specializzate.
Le citazioni sono frammenti ritagliati dalla sola volontà
dello storico, senza possibilità per il lettore
di conoscere la totalità dei testi che contengono
quei passi. Questi tre dispositivi classici della prova
(la nota, il riferimento e la citazione) si trovano
profondamente modificati nel mondo della testualità
digitale, dal momento che il lettore è messo
in condizione di leggere a sua volta il libro letto
dallo storico e di consultare
egli stesso, direttamente, i documenti analizzati.
I primi utilizzi di queste nuove modalità per
la produzione, l’organizzazione e l’accreditamento
dei discorsi del sapere mostrano quanto sia importante
la trasformazione delle operazioni cognitive implicata
dal ricorso al testo elettronico.
Il problema del copyright
Un terzo registro di cambiamento è legato all’ordine
delle proprietà, intendendo il termine proprietà
sia in senso giuridico, come proprietà
letteraria o copyright, sia in un senso testuale, quello
delle caratteristiche peculiari di ciascuno scritto.
Il testo elettronico che conosciamo è un testo
mobile, malleabile, aperto.
Il lettore può intervenire non soltanto sui margini,
ma anche sul contenuto, spostando, riducendo, aumentando,
ricomponendo le unità testuali di cui si impossessa.
A differenza della cultura manoscritta o a stampa, in
cui il lettore può soltanto insinuare la sua
scrittura all’interno degli spazi lasciati in
bianco dalla copiatura manuale o dalla composizione
tipografica, con il mondo digitale il lettore può
intervenire nel testo stesso. La conseguenza, potenzialmente,
è di grande rilevanza. Porta alla cancellazione
del nome di
autore e della figura dell’autore, dati come garanti
dell’identità e dell’autenticità
del testo, poiché quest’ultimo può
essere costantemente
modificato da una scrittura multipla e collettiva. Si
può ipotizzare che questa possibilità
offra alla scrittura nuove virtualità, più
volte vagheggiate da Michel Foucault, il quale immagina
un ordine dei discorsi nel quale
scompare l’appropriazione individuale dei testi
e ognuno, anonimamente, lascia la propria traccia all’interno
di strati di discorso senza autore.
Ma con ogni evidenza la mobilità del testo aperto
e malleabile lancia una seria sfida ai criteri e alle
categorie che, almeno a partire dal XVIII secolo, hanno
fondato giuridicamente la proprietà dell’autore
sulla sua opera, e quindi quella dell’editore
che compra l’opera dallo scrittore. Il riconoscimento
del copyright (la parola compare per la prima
volta nel 1704 nei registri della Stationers’
Company a Londra) presuppone che l’opera possa
essere identificata nella sua singolarità e originalità.
È così che nel Settecento Blackstone,
uno degli avvocati implicati nei processi sorti intorno
alla nascita del copyright, giustifica la proprietà
dell’autore sostenendo
che un’opera è sempre la stessa se, al
di là delle variazioni delle sue forme materiali,
è possibile riconoscervi ciò che egli
definisce come il «sentimento», lo «stile»
o il «linguaggio».
Viene dunque stabilito uno stretto legame tra l’identità
singolare dei testi, sempre reperibile, e il regime
giuridico ed estetico che ne attribuisce la proprietà
ai loro autori.
Si tratta del fondamento stesso del concetto di copyright,
che protegge un’opera supponendo che sia sempre
la stessa, qualunque ne siano le forme di pubblicazione.
I testi polifonici della testualità digitale
mettono in discussione la possibilità stessa
di riconoscere questa identità perpetuata.
Da ciò deriva la riflessione, sorta negli ultimi
anni, in merito alla possibilità o meno di stabilizzare
nella testualità digitale l’identità
dei testi o, perlomeno, di alcuni testi. Ne deriva altresì
il suggerimento di riorganizzare il mondo digitale in
maniera da tutelare i diritti degli autori e di conseguenza
anche quelli dei loro editori.
Questa riorganizzazione può ondurre a una distinzione
più forte (anche se è resa difficile dal
supporto, trattandosi di una sola macchina in grado
però di trasmettere testi di natura diversa)
tra la comunicazione elettronica quale la conosciamo,
che rende possibile offrire o ricevere testi aperti,
mobili e gratuiti, e l’edizione elettronica dall’altro,
la quale presuppone che il testo debba essere fissato,
circoscritto e chiuso affinché la sua proprietà
sia chiaramente definita e, in questo modo, lo siano
anche i diritti del suo
autore e la rimunerazione del suo editore. È
attorno all’e-book che si era cristallizzata
questa discussione, perché questo nuovo tipo
di computer non permette di trasmettere, copiare, modificare
o stampare i testi messi sul
mercato in una forma elettronica. L’edizione elettronica,
che implica le stesse operazioni dell’edizione
stampata (preparazione dei testi, costituzione di un
catalogo, lavoro di correzione) dovrebbe essere quindi
definita per opposizione con la comunicazione libera
e spontanea della rete.
L’«assault on paper»
La tensione tra la comunicazione gratuita delle idee
e l’edizione che consolida e fissa i testi è
qualcosa che va oltre i conflitti sorti tra le comunità
scientifiche e gli editori. In questi ultimi anni una
fortissima controversia ha
contrapposto le riviste scientifiche – di cui
hanno proliferato edizioni elettroniche protette da
securities per impedire di copiarne o stamparne
gli articoli, così da mantenere un mercato chiuso
per riviste i cui abbonamenti
possono costare fino a 10.000 o 12.000 dollari –
e i ricercatori, che reclamano il libero accesso ai
progressi del sapere. In questo caso si contrappongono
due logiche: quella di una comunicazione gratuita, che
rimanda all’ideale illuminista di condivisione
della conoscenza, e la logica editoriale, fondata sulle
nozioni di diritto d’autore e di profitto commerciale.
Alcune riviste, come «Molecular Biology of the
Cell» e «Science», hanno finalmente
acconsentito a rendere consultabili gratuitamente i
loro articoli dopo alcuni mesi o un anno di accesso
a pagamento.
L’esempio dei periodici illustra la profonda differenza
che esiste tra le letture dello «stesso »
testo allorché si passa da un supporto stampato
a un formato elettronico. Questa differenza deve essere
ricordata in un periodo in cui in tutte le biblioteche
del mondo si discute (ultimamente per via dell’iniziativa
presa da Google) della necessità di creare intere
raccolte digitali, specialmente per quotidiani e riviste.
I progetti di digitalizzazione che permettono la comunicazione
a distanza sono assolutamente essenziali, ma non devono
portare in nessun caso a relegare o, peggio, a distruggere
gli oggetti stampati nella loro forma primitiva.
Il vivace dibattito suscitato negli Stati Uniti dalla
pubblicazione del libro del romanziere Nicholson Baker,
Double Fold. Libraries and the Assault on Paper,
dedicato agli effetti deplorevoli della microfilmatura
delle raccolte
di libri e giornali, mostra che il timore di nuove distruzioni,
questa volta a seguito della digitalizzazione, non è
privo di fondamento. A partire dagli anni Sessanta il
Council on Library Resources ha sostenuto una politica
di trasposizione su microfilm di milioni di volumi e
periodici, con una doppia giustificazione: la necessità
di svuotare i magazzini delle biblioteche per far posto
alle nuove acquisizioni e la conservazione dei testi
su un nuovo supporto. Questa politica ha raggiunto una
forma parossistica nel 1999, in Inghilterra, dove la
British Library decise di vendere o distruggere tutte
le raccolte di quotidiani statunitensi successivi al
1850, dopo averli microfilmati.
Le conseguenze sono state disastrose su entrambe le
sponde dell’Atlantico, dando luogo alla scomparsa
di intere raccolte, distrutte durante lo stesso lavoro
di microfilmatura o smembrate per poi venderne separatamente
i singoli numeri. Lo scandalo è stato tale che
in Inghilterra e negli Stati Uniti
c’è stato un passo indietro nell’«assault
on paper» e quindi ha potuto cessare il «grande
massacro» di libri e periodici. Ma le perdite
sono state immense e irreparabili.
L’errore dello strutturalismo
Non bisogna dimenticare questa lezione, oggi che le
possibilità offerte dalla digitalizzazione accrescono
il numero delle raccolte accessibili a distanza, ma
allo stesso tempo rafforzano l’idea che un testo
è sempre lo stesso, qualunque sia il formato,
stampato, microfilmato o digitale. Si tratta di un errore
fondamentale, perché i processi attraverso i
quali un lettore attribuisce un significato a un testo
dipendono, più o meno coscientemente, non solo
dal contenuto semantico del testo, ma anche dai formati
materiali attraverso i quali questo è stato pubblicato,
diffuso e recepito.
È dunque essenziale che sia preservata la possibilità
di consultare i testi nei formati che hanno assunto
di volta in volta e che in nessun caso le operazioni
di digitalizzazione, peraltro assolutamente necessarie,
comportino la distruzione degli oggetti che hanno trasmesso
questi testi al lettore del passato, come anche a noi
stessi, oggi.
Come sottolinea energicamente McKenzie, «forms
effect sense». Un testo è sempre sorretto
da un materiale specifico: l’oggetto scritto in
cui è copiato o stampato, la voce che lo legge,
lo recita o lo enuncia, la rappresentazione
che lo fa intendere. Ognuna di queste forme di «pubblicazione»
è organizzata in base a dispositivi propri che
vincolano in misura variabile la produzione di senso.
Così, per rimanere allo scritto a stampa, il
formato del libro, la disposizione dell’impaginazione,
la suddivisione del testo, le convenzioni tipografiche,
la punteggiatura, sono investiti di una «funzione
espressiva».
Organizzati da intenzioni e interventi diversi (quelli
dell’autore, dei copisti,
dell’editore, del tipografo, dei compositori o
dei correttori), questi dispositivi formali mirano a
qualificare il testo, a indirizzare la ricezione, a
controllare la comprensione. Guidano l’inconscio
del lettore o dell’ascoltatore, regolano, almeno
in parte, il lavoro dell’interpretazione e dell’appropriazione
dello scritto. Tale constatazione obbliga a prendere
le distanze da tutti gli approcci critici secondo i
quali la produzione di senso risulta dal solo funzionamento,
automatico e impersonale, del linguaggio. Tale posizione,
che separa radicalmente il testo dalla sua materialità,
è stata quella del New Criticism americano,
della critica strutturalista e della prospettiva decostruzionista.
Essa poggia su numerosi postulati: la riduzione del
testo alla sola struttura
verbale, la cancellazione dell’autore, la cui
intenzione non è dotata di alcuna particolare
pertinenza, la separazione tra il o i significati dell’opera
e le modalità storiche della sua trasmissione,
lettura e interpretazione.
McKenzie ha opposto una procedura completamente diversa
a questo approccio in cui il testo è senza materialità,
senza autore e senza lettore. Contro l’astrazione
del testo, ridotto alla sua struttura semantica, egli
mostra
che lo statuto e le interpretazioni di un’opera
dipendono dalle sue forme successive. Contro l’affermazione
della morte dell’autore, egli sottolinea il ruolo
che questi può giocare, insieme ad altri, nel
processo, sempre collettivo, che conferisce materialità
ai testi. Contro l’assenza dei lettori, ricorda
che il significato attribuito a un testo è una
produzione storica, situata all’incrocio tra le
competenze o le attese dei suoi lettori, da un lato,
e dall’altro, i dispositivi, insieme grafici e
discorsivi, che l’organizzano. Indicando che «new
readers make new texts and their new meanings
are a function of their new forms», McKenzie
aiuta a pensare la relazione che lega la variazione
delle forme in cui le opere sono consegnate alla lettura,
la definizione del pubblico dei possibili lettori e
il senso che questi attribuiscono ai testi che fanno
propri.
La fine del libro?
Nel 1978, Borges affermava: «Si parla della distruzione
del libro – io credo sia impossibile». Non
aveva del tutto ragione, dato che due anni dopo nel
suo paese si bruciavano o distruggevano libri e autori
e editori scomparivano,
assassinati. Ma, chiaramente, si riferiva ad altro:
la fiducia nella sopravvivenza del libro e dello scritto
di fronte ai nuovi mezzi di comunicazione del suono
e dell’immagine, il cinema, la televisione, il
disco. Possiamo esserne ancora così certi, oggi?
La domanda si pone tanto spesso da risultare ormai frusta.
E in più, si tratta senza dubbio di una domanda
mal posta, perché il nostro presente è
caratterizzato prima di tutto dalla comparsa di una
nuova tecnica e modalità di iscrizione, diffusione
e appropriazione dei testi. Gli schermi odierni non
sono schermi di immagini da opporre alla cultura dello
scritto. Sono schermi di scritti. Certo, accolgono le
immagini, fisse o mobili, i suoni, le parole, le musiche,
ma soprattutto
trasmettono, moltiplicano, forse fino a un eccesso incontrollabile,
la cultura
scritta.
E tuttavia non abbiamo alcuna idea di come questo nuovo
supporto proposto ai lettori trasformi le loro pratiche.
Sappiamo bene, ad esempio, che il volumen nell’antichità
presupponeva una lettura continua che coinvolgeva
tutto il corpo, perché bisognava tenere il rotolo
con entrambe le mani e questo impediva di scrivere mentre
si leggeva. Sappiamo anche che il codex, manoscritto
e poi a stampa, ha permesso gesti inediti. Il lettore
può sfogliare il libro, ormai organizzato in
base a quaderni, fogli e pagine. Il codex può
essere impaginato e indicizzato, il che permette di
citare precisamente e di ritrovare facilmente questo
o quel passo. Pertanto la lettura che esso favorisce
è frammentata, ma la percezione globale dell’opera,
imposta dalla materialità stessa dell’oggetto,
vi rimane comunque sempre presente. Come caratterizzare
la lettura del testo elettronico?
«Un nuovo, mostruoso, libro di sabbia…»
Si possono formulare due osservazioni, prese in prestito
ad Antonio Rodríguez de las Heras, che ci allontanano
dalle nostre abitudini ereditate o dai nostri gesti
spontanei. Non dobbiamo considerare lo schermo come
una
pagina, ma come uno spazio a tre dimensioni, dotato
di larghezza, altezza e profondità, come se i
testi raggiungessero la superficie dello schermo partendo
dal fondo dell’apparecchio. Di conseguenza nello
spazio digitale
non è l’oggetto che è piegato, come
nel caso del foglio del libro manoscritto o stampato,
ma il testo stesso. La lettura consiste dunque nel «dispiegare»
questa testualità mobile e infinita.
Tale lettura costituisce sullo schermo delle unità
testuali effimere, multiple e singolari, composte dal
lettore a suo piacimento, che non sono assolutamente
pagine definite una volta per tutte.
L’immagine della navigazione in rete, divenuta
così familiare, indica in modo calzante le caratteristiche
di un nuovo modo di leggere, segmentato, frammentato
e discontinuo. Se essa si addice ai testi di natura
enciclopedica,
frammentati in virtù della loro stessa costruzione,
rimane però turbata o disorientata dai generi
la cui appropriazione presuppone una lettura continua,
una familiarità prolungata con l’opera
e la percezione del testo
come creazione originale e coerente. I successi delle
enciclopedie elettroniche, Encyclopædia Britannicao
Encyclopédia Universalis, così come
le delusioni degli editori pionieri nell’edizione
elettronica di saggi o
romanzi, attestano chiaramente il legame che associa
alcune modalità di lettura con alcuni generi
e, ugualmente, la capacità maggiore o minore
del testo elettronico di soddisfare o trasformare queste
abitudini ereditate.
Una delle grandi sfide dell’avvenire sta in questo
interrogativo: se la testualità digitale riuscirà
a superare o meno la tendenza alla frammentazione che
caratterizza, al tempo stesso, il supporto elettronico
e le modalità di lettura che esso propone.
Tale sfida è particolarmente viva per le più
giovani generazioni di lettori che (almeno nelle classi
sociali sufficientemente agiate e nei paesi più
sviluppati) sono entrati nella cultura scritta di fronte
allo schermo del computer. Nel loro caso una pratica
di lettura abituata, con grande immediatezza e spontaneità,
alla frammentazione dei testi, quali che siano, si scontra
frontalmente con le categorie forgiate a partire dal
XVII secolo per definire le opere in base alla loro
singolarità e alla loro totalità. La posta
in gioco non è di poco conto, perché da
essa dipende sia la possibile introduzione, nella testualità
digitale, di dispositivi capaci di perpetuare i criteri
classici di identificazione delle opere, che sono gli
stessi su cui si fonda la proprietà letteraria,
sia l’abbandono di questi criteri a beneficio
di un nuovo modo di percepire e pensare lo scritto,
considerato come un discorso continuo nel quale il lettore
taglia e ricompone i testi in tutta libertà.
La testualità elettronica sarà un nuovo
e mostruoso libro di sabbia, il cui numero di pagine
era infinito, che nessuno poteva leggere e che dovette
essere sotterrato nei magazzini della biblioteca nazionale
di via México? O permetterà invece, grazie
alle promesse che offre, di arricchire il dialogo che
ogni libro intrattiene con il suo lettore? Come lettori
inventiamo la risposta ogni giorno, anche se magari
non lo sappiamo.
Traduzione dal francese
di Alessandro de Lachenal
e Anna Maria Senatore
Questo articolo riproduce l’intervento tenuto
il 27 gennaio al Seminario di perfezionamento della
Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri.
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