301 - 16.06.06


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Viaggio in fondo all’io

René Capovin



Charles Larmore,
Pratiche dell’io,
Meltemi, 2006,
pag 240, euro 19,50
traduzione di M. Piras
(ed. or. Les pratiques du moi,
Presses Universitaires de France, 2004).


L’apparenza in questo caso dice molto: il libro si presenta come un’opera scritta in francese da un famoso filosofo americano contemporaneo e, in effetti, si tratta di una fusione, piuttosto riuscita, di materiali teorici della tradizione letteraria e filosofica francese con domande e categorie del dibattito teorico contemporaneo, rappresentato prevalentemente dall’area analitica. Ne risulta un’opera densa, composita e stimolante, per i problemi trattati e per le soluzioni proposte.

Come escludere che le azioni attraverso cui crediamo di esprimere il nostro io più autentico non siano in realtà maschere della convenzione? Come introdurre la scelta di essere autentici entro la sfera, per definizione sottratta alla riflessione, dell’azione naturale, cioè sincera e non determinata dalle aspettative degli altri? La forza e i limiti di queste due obiezioni, mosse da Valéry all’ideale stendhaliano del “naturel”, occupano il primo terzo di un libro che ha per obiettivo fondamentale l’esposizione di un’“ontologia dell’io”. Non si tratta di un’occupazione abusiva: secondo Larmore, la nozione di autenticità può e deve essere riformulata in modo da rispondere a queste critiche, ma ciò richiede un superamento della teoria dell’io, che spesso la sottende, derivata dal modo in cui quasi tutti i filosofi hanno impostato la questione, da Cartesio in poi. Il contributo a una difesa dell’autenticità, così, deve passare attraverso un sentiero filosoficamente secondario: Larmore si oppone al mainstream secondo cui il rapporto con noi stessi si distinguerebbe dalla nostra interazione con il mondo per l’esistenza di una qualche forma speciale di auto-conoscenza. Qui ha origine l’illusione di un io che si tratterebbe di conoscere in piena auto-trasparenza e di lasciare esprimere nella sua natura autentica e, qui sta il punto, già data. La principale alternativa all’egemonia di questo modello riflessivo-cognitivo, delineata da Ryle, risulta inaccettabile perché equipara il rapporto con se stessi all’usuale processo interpretativo attivato nel leggere l’azione altrui. La negazione dell’ipotesi di un accesso privilegiato di tipo cognitivo ai propri stati mentali, in questo modo, viene (mal) condotta fino a collidere con quella che Larmore considera un’evidenza: quando si tratta di dichiarare quello che credo non mi metto a osservarmi e a interpretarmi, ma mi esprimo in modo immediato.

Contro la riduzione di Ryle e contro l’ombra lunga di Cartesio, Larmore attinge principalmente a Sartre, Nabert e Ricoeur per configurare il “rapporto a sé che fa di ognuno di noi un io” come un rapporto pratico: la certezza che quando penso qualcosa sono proprio io a pensarlo non deriva da un qualche tipo di conoscenza e non è nemmeno un errore, ma discende dalla specifica forma normativa del rapporto con se stessi. In particolare, l’autorità della prima persona si radica negli impegni (engagement), più o meno espliciti (significativo il parallelo con gli habitus di Bourdieu), con cui ci vincoliamo a pensare e agire conformemente a credenze e prese di posizione che, per quanto sempre aperte a una ricostruzione razionale da parte di terzi, sono in primo luogo nostre. Nessun altro, infatti, può prendere questi impegni al nostro posto.

Da questo fondo normativo originario possono svilupparsi, quando si crea una tensione tra il complesso degli impegni che ci costituiscono e il proprio comportamento attuale, due tipi di riflessione: nella riflessione cognitiva, le proprie parole e i propri gesti vengono assunti come dati di fatto, e ci si volge ad approfondire l’ordine e il contenuto della propria rete di impegni; nella riflessione pratica, l’origine della dissonanza viene ricondotta al nostro comportamento reale, che si decide di confermare e assumere come proprio se corrisponde all’orizzonte normativo che fa di noi quel che siamo. Questa differenza pone la riflessione pratica in una sorta di “presa diretta” con la natura normativa dell’io e la configura come la forma privilegiata di riappropriazione di sé: solo tornando su noi stessi in questa maniera, segnata dall’esigenza di prendere posizione, ci ricolleghiamo all’essenza pratica dell’io.

Questo nucleo normativo, in quanto contenutisticamente fluido, permette di delineare un’idea di autenticità su cui non grava l’ipoteca di un qualche specifico insieme di credenze o valori con cui dovremmo necessariamente fare i conti. L’esposizione al ritorno riflessivo su di sé si collega ad una seconda apertura, stavolta situata a livello di quella che chiamiamo “storia di vita”: il bene che esperiamo nella nostra vita è molto spesso lontano da quello che avevamo ragione di cercare. Emerge qui quella che potremmo qualificare come una radice antropologica dell’autenticità, intesa non già come tendenza ad armonizzare questi beni imprevisti con la nostra identità previa, ma come disposizione a lasciarsi trasportare dalle nostre passioni, andando incontro non in retromarcia, diciamo così, allo choc del nuovo e dell’imprevisto. Contro un soggetto che storna i rischi viene sostenuta l’attitudine a rompere il cerchio magico del ragionamento prudenziale, che tende a immunizzarci anche da quello che potrebbe rivelarsi come il nostro bene più grande.

Questa riflessione, giocata nel capitolo conclusivo contro la nozione rawlsiana di “piano di vita”, segna il punto di avvicinamento massimo tra il pensiero di Larmore e il lascito conoscitivo del sapere saggistico e romanzesco. Si tratta di una chiusura interessante anche se per molti versi ellittica, non da ultimo perché in essa vengono raccolti solo una parte relativamente esigua degli spunti (e dei problemi) disseminati nella parte centrale del libro. Anche per questo motivo vale la pena sottolineare che la compattezza dell’opera discende dalla pervasività del suo nucleo teoretico, sviluppato in maniera rigorosa, talora piuttosto tecnica, in sede di articolazione di una teoria dell’io che risulta talora indistinguibile da una teoria della normatività. È questa, in ogni caso, la base argomentativa su cui poggiano sia il nesso tra autenticità e natura pratica dell’io quanto le asserite ricadute a livello di etica individuale.


 

 

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