Charles
Larmore,
Pratiche dell’io,
Meltemi, 2006,
pag 240, euro 19,50
traduzione di M. Piras
(ed. or. Les pratiques du moi,
Presses Universitaires de France, 2004).
L’apparenza in questo caso dice molto: il libro
si presenta come un’opera scritta in francese
da un famoso filosofo americano contemporaneo e, in
effetti, si tratta di una fusione, piuttosto riuscita,
di materiali teorici della tradizione letteraria e filosofica
francese con domande e categorie del dibattito teorico
contemporaneo, rappresentato prevalentemente dall’area
analitica. Ne risulta un’opera densa, composita
e stimolante, per i problemi trattati e per le soluzioni
proposte.
Come escludere che le azioni attraverso cui crediamo
di esprimere il nostro io più autentico non siano
in realtà maschere della convenzione? Come introdurre
la scelta di essere autentici entro la sfera, per definizione
sottratta alla riflessione, dell’azione naturale,
cioè sincera e non determinata dalle aspettative
degli altri? La forza e i limiti di queste due obiezioni,
mosse da Valéry all’ideale stendhaliano
del “naturel”, occupano il primo
terzo di un libro che ha per obiettivo fondamentale
l’esposizione di un’“ontologia dell’io”.
Non si tratta di un’occupazione abusiva: secondo
Larmore, la nozione di autenticità può
e deve essere riformulata in modo da rispondere a queste
critiche, ma ciò richiede un superamento della
teoria dell’io, che spesso la sottende, derivata
dal modo in cui quasi tutti i filosofi hanno impostato
la questione, da Cartesio in poi. Il contributo a una
difesa dell’autenticità, così, deve
passare attraverso un sentiero filosoficamente secondario:
Larmore si oppone al mainstream secondo cui
il rapporto con noi stessi si distinguerebbe dalla nostra
interazione con il mondo per l’esistenza di una
qualche forma speciale di auto-conoscenza. Qui ha origine
l’illusione di un io che si tratterebbe di conoscere
in piena auto-trasparenza e di lasciare esprimere nella
sua natura autentica e, qui sta il punto, già
data. La principale alternativa all’egemonia di
questo modello riflessivo-cognitivo, delineata da Ryle,
risulta inaccettabile perché equipara il rapporto
con se stessi all’usuale processo interpretativo
attivato nel leggere l’azione altrui. La negazione
dell’ipotesi di un accesso privilegiato di tipo
cognitivo ai propri stati mentali, in questo modo, viene
(mal) condotta fino a collidere con quella che Larmore
considera un’evidenza: quando si tratta di dichiarare
quello che credo non mi metto a osservarmi e a interpretarmi,
ma mi esprimo in modo immediato.
Contro la riduzione di Ryle e contro l’ombra
lunga di Cartesio, Larmore attinge principalmente a
Sartre, Nabert e Ricoeur per configurare il “rapporto
a sé che fa di ognuno di noi un io” come
un rapporto pratico: la certezza che quando
penso qualcosa sono proprio io a pensarlo non deriva
da un qualche tipo di conoscenza e non è nemmeno
un errore, ma discende dalla specifica forma normativa
del rapporto con se stessi. In particolare, l’autorità
della prima persona si radica negli impegni (engagement),
più o meno espliciti (significativo il parallelo
con gli habitus di Bourdieu), con cui ci vincoliamo
a pensare e agire conformemente a credenze e prese di
posizione che, per quanto sempre aperte a una ricostruzione
razionale da parte di terzi, sono in primo luogo nostre.
Nessun altro, infatti, può prendere questi impegni
al nostro posto.
Da questo fondo normativo originario possono svilupparsi,
quando si crea una tensione tra il complesso degli impegni
che ci costituiscono e il proprio comportamento attuale,
due tipi di riflessione: nella riflessione cognitiva,
le proprie parole e i propri gesti vengono assunti come
dati di fatto, e ci si volge ad approfondire l’ordine
e il contenuto della propria rete di impegni; nella
riflessione pratica, l’origine della dissonanza
viene ricondotta al nostro comportamento reale, che
si decide di confermare e assumere come proprio se corrisponde
all’orizzonte normativo che fa di noi quel che
siamo. Questa differenza pone la riflessione pratica
in una sorta di “presa diretta” con la natura
normativa dell’io e la configura come la forma
privilegiata di riappropriazione di sé: solo
tornando su noi stessi in questa maniera, segnata dall’esigenza
di prendere posizione, ci ricolleghiamo all’essenza
pratica dell’io.
Questo nucleo normativo, in quanto contenutisticamente
fluido, permette di delineare un’idea di autenticità
su cui non grava l’ipoteca di un qualche specifico
insieme di credenze o valori con cui dovremmo necessariamente
fare i conti. L’esposizione al ritorno riflessivo
su di sé si collega ad una seconda apertura,
stavolta situata a livello di quella che chiamiamo “storia
di vita”: il bene che esperiamo nella nostra vita
è molto spesso lontano da quello che avevamo
ragione di cercare. Emerge qui quella che potremmo qualificare
come una radice antropologica dell’autenticità,
intesa non già come tendenza ad armonizzare questi
beni imprevisti con la nostra identità previa,
ma come disposizione a lasciarsi trasportare dalle nostre
passioni, andando incontro non in retromarcia, diciamo
così, allo choc del nuovo e dell’imprevisto.
Contro un soggetto che storna i rischi viene sostenuta
l’attitudine a rompere il cerchio magico del ragionamento
prudenziale, che tende a immunizzarci anche da quello
che potrebbe rivelarsi come il nostro bene più
grande.
Questa riflessione, giocata nel capitolo conclusivo
contro la nozione rawlsiana di “piano di vita”,
segna il punto di avvicinamento massimo tra il pensiero
di Larmore e il lascito conoscitivo del sapere saggistico
e romanzesco. Si tratta di una chiusura interessante
anche se per molti versi ellittica, non da ultimo perché
in essa vengono raccolti solo una parte relativamente
esigua degli spunti (e dei problemi) disseminati nella
parte centrale del libro. Anche per questo motivo vale
la pena sottolineare che la compattezza dell’opera
discende dalla pervasività del suo nucleo teoretico,
sviluppato in maniera rigorosa, talora piuttosto tecnica,
in sede di articolazione di una teoria dell’io
che risulta talora indistinguibile da una teoria della
normatività. È questa, in ogni caso, la
base argomentativa su cui poggiano sia il nesso tra
autenticità e natura pratica dell’io quanto
le asserite ricadute a livello di etica individuale.
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