Joseph Stiglitz
ama l’idea di persona. L’economista statunitense
visita la mostra Tempo moderno. Da Van Gogh a Warhol.
Lavoro macchine e automazioni nelle Arti del Novecento
allestita per celebrare un secolo di vita della Cgil
a Palazzo Ducale di Genova fino al 30 luglio. Una visita,
quella di Stiglitz, avvenuta in occasione dell’incontro
organizzato dal Centro Culturale Europeo della Fondazione
Carige sul tema Europa e globalizzazione. Il
premio nobel è stato a Genova per ricevere la
laurea honoris causa in Scienze internazionali e diplomatiche.
“Ho sempre lamentato il fatto che l’economia
sia in mano a burocrati che considerano tutto in percentuali
e tabelle”, afferma Stiglitz alludendo ad una
relazione tra una maggiore sensibilità etica
e quindi umana, spirituale, ed il lavoro. “Questa
mostra – continua - è uno strumento utilissimo
perché evidenzia il rapporto tra uomo, lavoro
e civiltà industriale e lo fa in modo sensibile,
appassionante. Può essere un grande strumento
didattico per chi si confronta con tali fenomeni”.
Durante la visita si sofferma sui quadri del Futurismo
e sulla proiezione del film Riso amaro. I suoi
maestri europei sono filosofi e cita subito Karl Popper,
definendo l’Europa uno spazio etico in virtù
della sua storia cosmopolita e culturale.
D’altronde la mostra organizzata da Germano Celant
propone un tema molto sentito da Stiglitz: l’ibrido
essere-macchina della modernità.
Tempo Moderno attraversa la storia del lavoro
nelle arti dell’intero Novecento: pittura, scultura,
fotografia, cinema, partendo dalla fine dell’Ottocento
con i dipinti di Van Gogh fino ai giorni nostri con
le foto di Edward Burtynsky sul lavoro industriale in
Cina. Un discorso che inizia con la sofferenza e la
lotta dei lavoratori in cui “la rappresentazione
artistica è principalmente un racconto visivo
che cerca di evidenziare la forza fisica e la componente
umana che si sviluppava dinanzi ai nuovi apparati industriali”
scrive Celant. Ed è proprio questa “componente
umana”, quell’idea di persona di Stiglitz
che connota l’intera esposizione, dagli inizi
del rifiuto o accettazione della macchina nell’universo
del lavoro fino alla scomparsa di ogni dimensione di
lotta, di fatica, di schiavitù, di esperienza
diretta dell’uomo con il proprio mestiere.
“La Banca Mondiale – racconta Stiglitz
– ha recentemente istituito delle figure di giovani
ricercatori che operano nei Paesi in via di sviluppo,
per fare esperienza di una realtà concreta”.
Un’intuizione che in Tempo Moderno è
stata colta nel confronto tra l’uniformità
spirituale contemporanea dei luoghi economici, finanziari,
commerciali, con la vita lavorativa di altre etnie,
di nazioni povere. Qui si ripropone una condizione di
vita governata dalla schiavitù, come nelle foto
di Jacob A. Riis e di Lewis Hine, in cui sono rappresentate
la miseria, la rassegnazione dell’uomo di fronte
alla macchina, lo sfruttamento dei più deboli,
in particolare i bambini, nell’Occidente dei primi
anni del Novecento.
Il racconto del lavoro moderno nasce da questa condizione
drammatica per sfociare nella tragicità dell’alienazione
umana. Una storia iconografica che inizia con il forte
coinvolgimento emotivo nell’idealizzazione della
lotta, “una sublimazione, tanto che l’effettualità
si affievolisce e lentamente l’immagine si diluisce
in processo concettuale ed astratto”.
Dal Futurismo italiano al Costruttivismo e Suprematismo
dei rivoluzionari russi e, in seguito, dagli sperimentalismi
Bauhaus in Germania al meccanicismo di Fernand Léger
in Francia, all’irrisione critica dada e surrealista.
Negli anni Sessanta e Settanta nasce una nuova rappresentazione
del lavoro. Compaiono immagini fotografiche, cinematografiche,
televisive: una rivoluzione nella comunicazione artistica.
Qualcosa è mutato nel rapporto tra reale e immaginario.
“Il sovvertimento è totale – scrive
Germano Celant – sembra quasi che la realtà
del lavoro perda la sua fisicità e materialità
e l’immagine, nella sua virtualità e nella
sua autonomia, riesca ad affermare il suo potere, svincolato
dal referente, cosicché la produzione letteraria
e artistica si connette sempre più con la vita
in generale e distanzia il suo fare dalla crisi del
politico e del sociale. E’ un momento di derealizzazione
e di dematerializzazione che non è una separazione
dalla realtà, ma l’effetto di una riflessione
sui rapporti tra lavoro ed immagine, che è un
riflesso del passaggio da contrapposizione a equivalenza
tra essere e macchina, vale a dire tra essere vivente
ed essere artificiale, tra originale e simulacro”.
A chiusura della mostra, gli ultimi decenni del secolo
con il dramma umano del progressivo avvento della tecnologia
nel lavoro. La rivoluzione tecnologica invade il mondo
occidentale e asiatico creando un rapporto confuso e
asettico tra uomo e macchina.
Parte integrante dell’esposizione è costituita
dall’intervento audiovisivo: il cinema e i video
che sono entrati nell’universo del lavoro. Dai
brevi film con cui Frank Gilbreth documentava e studiava
le più svariate attività produttive, alle
raffigurazioni dello sciopero e del lavoro delle avanguardie
russe; dai minatori tragici di Pabst e Wilder ai disoccupati
danzanti di Busby Berkeley fino alle catene di montaggio
realistiche ed esilaranti di Renoir e Chaplin, per arrivare
poi agli operai, braccianti e aspiranti lavoratori del
neorealismo con i film di De Sanctis e De Sica, Petri,
Monicelli.
Negli ultimi quaranta anni del Novecento nascono altre
forme rappresentative del lavoro: grandi documentaristi
come Wiseman e Watkins e reporter televisivi della grande
stagione di TV7 e Cinq à la Une, entrano
nelle fabbriche e nei laboratori di tutto il mondo per
documentare le nuove tecniche produttive automatizzate.
Così le incursioni del cinema di fiction nel
mondo del lavoro: da Blue Collar di Schrader
fino al recente L’uomo senza sonno di
Brad Anderson, dalle storie amare di lavoratori sovietici
del regista scrittore Suksin, alla saga di Wajda, ai
camionisti di Wenders.
Tempo Moderno
Da Van Gogh a Warhol
Genova, Palazzo Ducale
14 aprile – 30 luglio 2006
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