300 - 02.06.06


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Secondo, splendido, D’Arrigo

Francesco Roat



Cima delle nobildonne mancava purtroppo dagli scaffali delle librerie da vent’anni. Bene ha fatto dunque Rizzoli a ripubblicare il secondo dei due soli romanzi di Stefano D’Arrigo (1919-1992), l’appartato scrittore siciliano che fece la sua comparsa quale astro letterario di prima grandezza sulla ribalta nazionale ed internazionale nel 1975 col celebre Horcynus Orca (pubblicato presso Mondadori), indiscusso capolavoro e romanzo fiume dalla annosa/laboriosa gestazione: sorta di Odissea moderna, caratterizzata da un registro espressivo assolutamente originale, da una felicità fabulatorio-descrittiva senza pari e da una lingua audacemente ibridata di neologismi e voci vernacolari.

C’era chi riteneva allora che dopo un’opera unica e straordinaria quale Horcynus Orca, D’Arrigo non avrebbe più osato metter mano alla penna. Come, infatti, non tanto superare ma quantomeno eguagliare in pregevolezza/arditezza compositiva il primo romanzo? E cosa dire ancora, dopo le ben 1257 studiatissime/sudatissime pagine del testo precedente? Così argomentavano gli scettici, man mano che il tempo trascorreva e il Nostro non dava alcun segno di volersi cimentare in nuove imprese di penna. Nondimeno, pur dieci anni dopo l’Horcynus, ecco l’autore riaffacciarsi alla ribalta editoriale con un lavoro originalissimo, ardito per contenuto, scrittura e peculiarità stilistica. Si trattava, appunto, di Cima delle nobildonne: romanzo che – inizialmente, almeno – ebbe forse più accoglienza di pubblico di quello precedente, ma che in seguito cadde ben presto nel dimenticatoio, fino al 2006 e a questa opportuna riedizione, arricchita da un articolato commento introduttivo a cura di Walter Pedullà, il primo critico cui D’Arrigo sottopose il suo secondo romanzo e che da tale opera innovativa fu assai favorevolmente colpito.

Va subito detto che Cima si presenta all’insegna di una ulteriore “rivoluzione linguistica” ? come sottolinea Pedullà ? non meno interessante di quella di Horcynus, pur risultando affatto dissimile. Non più un italiano ibridato di espressioni dialettali ma una lingua ad alto tasso di fraseologia medico-scientifica: un idioma pseudotecnico, in apparenza algido ed anatomico, che si rivela però sottilmente ermetico ed allusivo. Tanto da risultare straniante e un poco (o tanto) surreale; perché i temi sfiorati in Cima sono da far tremar le vene e i polsi. Qui si parla di metamorfosi inquietanti, di trasmutamenti solo a prima vista sessuali, di metempsicosi e mitologia, di amore e di morte; insomma di una fisica che rischia di debordare sin troppo in metafisica. Anche perché la parola chiave, emblematica del romanzo, la cima delle nobildonne altro non è che la placenta: involucro e vaso di vita che rimane sospeso fra il non esserci ancora e l’umana esistenza. Organo che permette lo sviluppo del feto ma che può in certi casi intossicarlo, uccidendolo prima ancora che nasca. La placenta: paradossale amorfo strumento generatore di forma, inizio ma al contempo fine dello sviluppo fetale, metafora enigmatica dell’arcano processo generativo.

È un emiro ? figura concreta e altamente simbolica di principe orientale ? uno dei protagonisti di Cima. È lui ha volere il concretizzarsi di due eventi singolari: in primo luogo che il proprio amante ermafrodito sia chirurgicamente/definitivamente trasformato in donna; in secondo che venga creata una Placentateca: monumento all’imprintig per antonomasia. E il romanzo si apre, in un’atmosfera insieme asettica e allucinata, giusto con l’operazione sul giovane, o meglio sulla giovane Amina (nome facilmente/esotericamente anagrammabile in Anima) allo scopo di fornirla di una “neovagina”. Non dimentichiamo altresì che l’emiro crede nella reincarnazione: cifra misterica di ogni ulteriore mondana trasformazione. Lo aiuterà a creargli una sposa artefatta una equipe di medici, qui ministri del culto profano per antonomasia, quello del desiderio senza limiti o, se vogliamo, di una hybris assai postmoderna: la velleità di superare/abolire ogni confine/condizione naturale.

Noi non sapremo tuttavia cosa avverrà di Amina e della Placentateca. Non c’è vera e propria trama in Cima, dove niente accade o forse tutto è già accaduto. E se nel racconto di D’Arrigo una cosa si verifica, ben lungi dalla nascita o dall’inizio di un nuovo evento, questa cosa è la morte o il reiterarsi di essa attraverso una serie di decessi o reminiscenze di essi. Già, si muore spesso in Cima, ma ciò non sembra luttuoso o definitivo (per la narrazione, quantomeno) tale sorta di ritorno placentare alla madre terra. In ogni caso mi pare ovvio che la storia o le storie raccontate in questa fabula non siano affatto realistiche anche se ne hanno l’aspetto. Bisogna andare oltre la sottile pellicola di verosimiglianza che le avvolge come una sottilissima placenta. Quello cui qui si allude o si accenna, più o meno vagamente è il mistero del vivere (per morire?) e l’impensabile della morte, che per ogni soggetto è sempre altrui, dunque ancora una volta paradossalmente l’assolutamente altro e oltre da sé. Il fine di Cima, allora, è forse dire o suggerire l’indicibile.

Ma qui intendo fermarmi; e non perché non vi sia ancora da dire: penso che sul secondo romanzo di D’Arrigo potrebbe essere scritto un saggio intero. Mi fermo, ritenendo di avere tracciato sufficienti coordinate analitiche, solo per cedere il testimone al lettore eventuale, affinché in prima persona assuma il compito/piacere di interpretare/gustare di persona questo stupendo lascito estremo di uno degli autori più vivaci del novecento letterario italiano e non solo.

Stefano D’Arrigo
Cima delle nobildonne,
Rizzoli, pp.182, € 18,00



 

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