Cima
delle nobildonne mancava purtroppo dagli scaffali
delle librerie da vent’anni. Bene ha fatto dunque
Rizzoli a ripubblicare il secondo dei due soli romanzi
di Stefano D’Arrigo (1919-1992), l’appartato
scrittore siciliano che fece la sua comparsa quale astro
letterario di prima grandezza sulla ribalta nazionale
ed internazionale nel 1975 col celebre Horcynus
Orca (pubblicato presso Mondadori), indiscusso
capolavoro e romanzo fiume dalla annosa/laboriosa gestazione:
sorta di Odissea moderna, caratterizzata da un registro
espressivo assolutamente originale, da una felicità
fabulatorio-descrittiva senza pari e da una lingua audacemente
ibridata di neologismi e voci vernacolari.
C’era chi riteneva allora che dopo un’opera
unica e straordinaria quale Horcynus Orca,
D’Arrigo non avrebbe più osato metter mano
alla penna. Come, infatti, non tanto superare ma quantomeno
eguagliare in pregevolezza/arditezza compositiva il
primo romanzo? E cosa dire ancora, dopo le ben 1257
studiatissime/sudatissime pagine del testo precedente?
Così argomentavano gli scettici, man mano che
il tempo trascorreva e il Nostro non dava alcun segno
di volersi cimentare in nuove imprese di penna. Nondimeno,
pur dieci anni dopo l’Horcynus, ecco
l’autore riaffacciarsi alla ribalta editoriale
con un lavoro originalissimo, ardito per contenuto,
scrittura e peculiarità stilistica. Si trattava,
appunto, di Cima delle nobildonne: romanzo
che – inizialmente, almeno – ebbe forse
più accoglienza di pubblico di quello precedente,
ma che in seguito cadde ben presto nel dimenticatoio,
fino al 2006 e a questa opportuna riedizione, arricchita
da un articolato commento introduttivo a cura di Walter
Pedullà, il primo critico cui D’Arrigo
sottopose il suo secondo romanzo e che da tale opera
innovativa fu assai favorevolmente colpito.
Va subito detto che Cima si presenta all’insegna
di una ulteriore “rivoluzione linguistica”
? come sottolinea Pedullà ? non meno interessante
di quella di Horcynus, pur risultando affatto
dissimile. Non più un italiano ibridato di espressioni
dialettali ma una lingua ad alto tasso di fraseologia
medico-scientifica: un idioma pseudotecnico, in apparenza
algido ed anatomico, che si rivela però sottilmente
ermetico ed allusivo. Tanto da risultare straniante
e un poco (o tanto) surreale; perché i temi sfiorati
in Cima sono da far tremar le vene e i polsi.
Qui si parla di metamorfosi inquietanti, di trasmutamenti
solo a prima vista sessuali, di metempsicosi e mitologia,
di amore e di morte; insomma di una fisica che rischia
di debordare sin troppo in metafisica. Anche perché
la parola chiave, emblematica del romanzo, la cima delle
nobildonne altro non è che la placenta: involucro
e vaso di vita che rimane sospeso fra il non esserci
ancora e l’umana esistenza. Organo che permette
lo sviluppo del feto ma che può in certi casi
intossicarlo, uccidendolo prima ancora che nasca. La
placenta: paradossale amorfo strumento generatore di
forma, inizio ma al contempo fine dello sviluppo fetale,
metafora enigmatica dell’arcano processo generativo.
È un emiro ? figura concreta e altamente simbolica
di principe orientale ? uno dei protagonisti di Cima.
È lui ha volere il concretizzarsi di due eventi
singolari: in primo luogo che il proprio amante ermafrodito
sia chirurgicamente/definitivamente trasformato in donna;
in secondo che venga creata una Placentateca: monumento
all’imprintig per antonomasia. E il romanzo si
apre, in un’atmosfera insieme asettica e allucinata,
giusto con l’operazione sul giovane, o meglio
sulla giovane Amina (nome facilmente/esotericamente
anagrammabile in Anima) allo scopo di fornirla di una
“neovagina”. Non dimentichiamo altresì
che l’emiro crede nella reincarnazione: cifra
misterica di ogni ulteriore mondana trasformazione.
Lo aiuterà a creargli una sposa artefatta una
equipe di medici, qui ministri del culto profano per
antonomasia, quello del desiderio senza limiti o, se
vogliamo, di una hybris assai postmoderna: la velleità
di superare/abolire ogni confine/condizione naturale.
Noi non sapremo tuttavia cosa avverrà di Amina
e della Placentateca. Non c’è vera e propria
trama in Cima, dove niente accade o forse tutto
è già accaduto. E se nel racconto di D’Arrigo
una cosa si verifica, ben lungi dalla nascita o dall’inizio
di un nuovo evento, questa cosa è la morte o
il reiterarsi di essa attraverso una serie di decessi
o reminiscenze di essi. Già, si muore spesso
in Cima, ma ciò non sembra luttuoso
o definitivo (per la narrazione, quantomeno) tale sorta
di ritorno placentare alla madre terra. In ogni caso
mi pare ovvio che la storia o le storie raccontate in
questa fabula non siano affatto realistiche
anche se ne hanno l’aspetto. Bisogna andare oltre
la sottile pellicola di verosimiglianza che le avvolge
come una sottilissima placenta. Quello cui qui si allude
o si accenna, più o meno vagamente è il
mistero del vivere (per morire?) e l’impensabile
della morte, che per ogni soggetto è sempre altrui,
dunque ancora una volta paradossalmente l’assolutamente
altro e oltre da sé. Il fine di Cima,
allora, è forse dire o suggerire l’indicibile.
Ma qui intendo fermarmi; e non perché non vi
sia ancora da dire: penso che sul secondo romanzo di
D’Arrigo potrebbe essere scritto un saggio intero.
Mi fermo, ritenendo di avere tracciato sufficienti coordinate
analitiche, solo per cedere il testimone al lettore
eventuale, affinché in prima persona assuma il
compito/piacere di interpretare/gustare di persona questo
stupendo lascito estremo di uno degli autori più
vivaci del novecento letterario italiano e non solo.
Stefano D’Arrigo
Cima delle nobildonne,
Rizzoli, pp.182, € 18,00
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