Zygmunt
Bauman,
Vita liquida, Laterza,
pp. 190, euro 15
De te fabula narratur. Sicuramente –
davvero senza ombra di dubbio – siamo noi a trovarci
immersi nella “favola”. Soltanto che quella
in oggetto – sorta di nuova “grande narrazione”
che domina il mondo più o meno a partire dal
momento della proclamazione della fine dei “grandi
racconti” fatta da Jean-François Lyotard
(l’”indiscusso padre spirituale della svolta
postmoderna nella nostra percezione del mondo umano”)
– è tutto fuorché una favola a lieto
fine… Stiamo parlando del neoliberismo, l’ideologia
onnipervasiva che, negli scritti del grande sociologo
anglo-polacco Zygmunt Bauman (professore emerito presso
le università di Leeds e Varsavia), pare avere
reso liquido il nostro mondo e le nostre stesse esistenze.
Come Bauman ci racconta ancora, ma ogni volta aggiungendo
spunti e analisi inedite, nel libro Vita liquida
(uscito da poco per i tipi di Laterza).
Al centro del volume si collocano, soprattutto, i molteplici
“giochi dell’identità” contemporanei;
quel prisma e quelle rifrazioni identitarie oggi incredibilmente
scivolosi e che provocano parecchi sconvolgimenti nel
soggetto contemporaneo, l’individuo “sotto
assedio”. Tutto fluisce, incessantemente, all’insegna
di una libertà che pochi privilegiati possono
scegliere e molti malcapitati devono subire. La velocità
tanto predicata, lo scivolare “con leggerezza”
(come appuntava, decantando le sorti magnifiche e progressive
del mondo neoliberista e della Cool Britannia
suo avamposto, l’anonimo “Barefoot Doctor”,
il columnist sotto pseudonimo dell’Observer,
citato da Bauman) su cose, affetti, appartenenze è
una possibilità reale offerta a una minoranza,
a cui le “moltitudini” (come direbbe qualcuno…)
non possono sottrarsi. Un “gioco di società”
spietato e pericoloso a cui non si sceglie liberamente
di partecipare, ma nel quale ci si trova immersi, senza
scampo, né vie di fuga, che ha eletto la transitorietà,
la fugacità e la precarietà a dogmi inscalfibili.
È la dittatura della transitorietà che
celebra il perseguimento del piacere istantaneo, senza
memoria e senza futuro (vale a dire, senza progetto
e senza prospettiva). Dove la cultura, considerata “ribelle
e ingestibile” viene sterilizzata nell’effimero
e nell’assenza di finalità (come dimostrano
Villeglé, Valdes e Braun-Vega, considerati altrettante
espressioni idealtipiche dell’artista dell’era
della “modernità liquida” che, a
differenza di quello della fase della “modernità
solida”, non si pone neppure il problema di inseguire
un “modello di perfezione” e si trova a
proprio agio fra trovate pubblicitarie, mercato dell’arte
e frammenti). Dove il consumismo è divenuto divisa
di vita e ideologia indiscutibile e ha sostituito alla
“salute” della società dei produttori
il nuovo paradigma della fitness. Dove i sentimenti,
i rapporti interpersonali e i partner risultano “a
tempo” e transeunti come qualunque altro aspetto
o prodotto del mondo liquido. Dove l’insicurezza
ha assunto la forma di incubo totale, e la paura dilaga
divenendo la misura e la cifra distintiva – ecco
l’assurdo che si fa realtà al servizio
del “colpo di Stato neoliberale” –
delle relazioni umane (o, sarebbe meglio dire, ormai
compiutamente sub-umanizzate…), distruggendo l’idea
stessa di città come luogo dell’esistenza
gomito a gomito, spesso conflittuale ma comunque tentata
ed esperita, dei diversi e degli estranei; città
rimpiazzate, ogni volta che il censo degli abitanti
lo permette, dalle gated communities(che, nei
soli Stati Uniti, sono attualmente più di ventimila).
Il mondo liquido è il villaggio globale degli
happy few cosmopoliti deterritorializzati che
se la spassano e che innalzano palizzate, quando devono
soggiornare o spendere tempo in luogo fisico, per non
mescolarsi con i tanti che vengono costretti a una “pseudo-libertà”
di cui pagano solamente i costi e a cui non riescono
ad adattarsi. Un globo nel quale le maree di sans
papiers, gli esiliati del pianeta globale delle
grandi migrazioni forzate, che devono spostarsi alla
ricerca della stessa sopravvivenza fisica, convivono
con i “sottoproletari dello spirito”, secondo
l’efficace e immaginifica definizione coniata
da Andrzej Stasiuk, ovvero coloro che, “migrando
spiritualmente” dalla new age alla cabala,
dal sufismo al sunnismo (e chi più ne ha, più
ne metta), cercano di lenire il disagio del vivere,
anch’esso effetto, molto chiaro, della liquidità
esistenziale.
Senza parlare, molto marxianamente, della giustezza
dell’osservazione di Richard Rorty riguardo il
passaggio, nella società statunitense (e nel
resto del cosiddetto ex Primo mondo), dalla fase della
“borghesizzazione del proletariato” a quella
della “proletarizzazione della borghesia”,
che lo studioso anglo-polacco fa propria, radicalizzandola
ancor più.
Se il nostro (alquanto discutibile) momento storico
tracima di laudatores temporis acti –
tra i quali vanno annoverati, per dirla alla francese,
schiere di “intellettuali mediatici” –
Bauman non va confuso con un nostalgico passatista.
Né, sic et simpliciter, con un “apocalittico
che non si integra”. Ciò che invoca e richiama
sempre con forza – in particolare, nel libro,
sulla scorta della francofortese Dialettica dell’Illuminismo
e del pensiero di Adorno e Arendt – è l’esercizio
dello spirito critico, di cui il neoliberalismo ha fatto
strage, rimpiazzandolo con il coro unanime e conformista
del pensiero unico.
E, allora, di fronte a questa devastazione morale, si
interroga l’autore, “può lo spazio
pubblico tornare a essere luogo d’impegno duraturo,
anziché d’incontri casuali e fugaci? Spazio
di dialogo, di discussione, di confronto e di accordo?
Sì e no” (p. 176). Perché il processo
è andato molto avanti e non è certo facile
invertire la megamacchina. Ma qualcosa si può
fare. Come? Leggere Bauman per impararlo…
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