Suad Amiry
palestinese scrittrice anomala, così è
stata definita da Maria Nadotti nell’incontro
con i lettori di Galassia Gutenberg, la fiera partenopea
del libro e della multimedialità. Non a caso
l’evento era designato come “Il racconto
della Palestina”. Perchè Suad di mestiere
non fa la scrittrice ma l’architetto: dal 1981
insegna architettura presso l’università
di Birzeit, dove ha conosciuto suo marito Salim, e nel
1991 ha fondato il Riwaq Center for Architectural Conservation
di Ramallah che dirige tuttora. Nata a Damasco, si è
trasferita con la sua famiglia ad Amman, poi nella vita
adulta ha scelto di tornare in Palestina, a Ramallah,
perché è la sua terra d’origine
e perché il suo istinto narrativo nasce proprio
dal desiderio di raccontare la vita, la quotidianità
nei territori occupati.
Suad ha scelto Napoli ed in particolare Procida per
scrivere: l’Italia è il suo secondo Paese,
e il suo primo libro, Sharon e mia suocera-Diari
di guerra (Feltrinelli) nasce nel 2002 durante
il periodo più duro della seconda Intifada, quando
Ramallah fu messa sotto coprifuoco per trentaquattro
giorni consecutivi. E lei era prigioniera in casa con
sua suocera; per sopravvivere, di sera, scriveva e-mail
ai suoi amici lontani, in Italia, in Inghilterra, raccontando
esistenze ed episodi senza alcuna analisi o interpretazione.
Suad afferra l’arte della narrazione parlando
e scrivendo della sua vita, della vita dei palestinesi,
quella vita che accade ogni giorno, usando uno strumento
impareggiabile: l’umorismo. Così, con questo
sguardo amoroso, riesce a legare la tragedia alla commedia.
Suad, come è riuscita in questa difficile
ed originale operazione narrativa e personale?
Io sono un architetto e ho scritto opere di architettura.
Il mio primo libro di narrativa è stato frutto
del caso, perché è il risultato della
pressione che subivo in casa da mia suocera, che viveva
con me, e dall’avere l’esercito di Sharon
alle porte della mia abitazione. Ho cominciato a scrivere
per parlare della vita, perché i media si sono
sempre interessati alla morte e non raccontano mai di
quella che è la vita quotidiana. Questo è
stato sempre il nostro problema. Quando dico che sono
palestinese, tutti associano immediatamente la mia nazionalità
ai kamikaze, ai bombardamenti israeliani, alla guerra.
Eppure ci sono tre milioni e mezzo di palestinesi che
vivono, che mangiano, che fanno l’amore, e questa
occupazione non è altro che un modo per impedirci
di vivere. Il conflitto non è quello di due eserciti
in lotta tra loro: qui abbiamo un esercito molto potente
che impedisce ad una nazione, ad un popolo, di vivere.
Quando ho cominciato a scrivere il mio secondo libro,
avevo già un pubblico, dei lettori e mi sono
detta che era il caso di partire dalla mia storia personale.
Perché anche in politica si tende a pensare ai
palestinesi come un gruppo di persone, perdendo di vista
gli individui. Eppure ognuno di noi ha la propria storia.
Molti dei miei amici hanno detto che ero pazza, perché
appunto raccontavo la quotidianità e non di Sharon
o di Arafat. Ma io volevo narrare la mia storia personale
e di come la politica condizioni le esistenze.
Il suo secondo libro, Se questa è
vita-Dalla Palestina in tempo di occupazione (Feltrinelli),
è una raccolta di storie, apparentemente piccole,
leggere ma capaci di comunicare l’arbitrarietà
e l’assurdità, che sono i volti più
feroci del dominio israeliano. E non solo, in Palestina
la vita è colma di surrealtà. Suad, ci
parli di questo paradosso: vita quotidiana e surreale.
Quando ho scelto di tornare in Palestina, è
stata un’odissea avere una carta d’identità
e quindi poter convivere con mio marito. Questo dimostra
quanto sia aleatoria ed arbitraria l’occupazione
israeliana, perché quando ti sposi, automaticamente,
si dovrebbe ricevere la residenza. Eppure in Palestina
ci sono migliaia di persone che vivono nell’illegalità,
che non hanno la residenza, persone a cui lo stato di
Israele non concede il ricongiungimento familiare. Io
sono stata una rifugiata perché i miei genitori
lasciarono Giaffa nel 1948; sono nata a Damasco e per
ritornare in Palestina ci vuole un permesso che ha la
validità di un mese e che va rinnovato di continuo
fino a quando non è più rinnovabile. Allora
si va in Giordania, si sta un po’ di tempo lì,
si richiede il permesso e poi, quando te lo concedono,
tuo marito può venire a prenderti e riportarti
a casa in Palestina. Per cui anche io sono stata un’illegale,
perché ho dovuto aspettare sette anni per avere
questa carta d’identità. Un bel giorno
mi chiamano dal Comune di Ramallah, concedevano cinquanta
permessi ed il mio era tra questi. Cerimonia dinanzi
alle telecamere per consegnare le carte d’identità;
ma appena le telecamere scompaiono ci informano che
i permessi saranno inviati per posta. Il servizio postale
è quanto mai aleatorio a Ramallah, per cui ce
ne tornammo a casa senza documento, dopo anni di attesa.
Tutto questo, non è surreale?
Pensa che la vittoria di Kadima alle recenti
elezioni ed il tracollo del Likud, possano cambiare
qualcosa di sostanziale nei rapporti tra Israele e Palestina?
Abu Mazen si è detto pronto ad un negoziato diretto…
Se chiedi ad un palestinese se accetta la costituzione
di uno stato unico in cui le due comunità vivono
insieme, ti dirà di sì. Così come
direbbe di sì alla ripartizione del territorio.
Non è una questione religiosa, né culturale,
perché l’oggetto del contendere è
la terra. E’ un problema di colonizzazione: c’è
un Paese che colonizza l’altro; la loro terra
è la loro terra e la nostra terra è la
loro terra. Nel 1988 noi palestinesi abbiamo fatto una
grande concessione: quella di dimenticare la memoria
e la storia che era nei nostri territori. Mi sono detta:
“vabbè, quella parte la useranno gli israeliani,
non la userò più io”. Noi avevamo
già deciso di accettare la ripartizione sulla
frontiera del 1977: prima Gerusalemme, poi parte degli
insediamenti, poi hanno costruito il muro quindi una
buona parte della Cisgiordania. Ma nonostante ciò,
nessun israeliano è capace di dirti quale sia
la vera frontiera di Israele. Il problema sta nel dover
accettare di concedere terra in cambio di pace e sul
risultato delle elezioni io non ho una visione positiva,
almeno non nell’imminente futuro. Forse la soluzione
sarà di nuovo quella di uno stato unico.
L’Europa e l’Italia sono nelle
vostre speranze?
Se gli europei non prenderanno una posizione non ci
sarà soluzione, perché dagli americani
non ci aspettiamo nulla. Ovvio che per ora riponiamo
più speranze nell’Europa che negli Stati
Uniti. Certo, se domani Bush volesse sostenere i palestinesi,
la storia cambia. Ma sarebbe importante se l’Italia
assumesse una posizione più indipendente da quella
degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Il popolo italiano
e molti popoli europei conoscono la nostra storia, anche
la Francia ora è con noi. Bisogna che l’Europa
diventi un altro polo mondiale. L’Europa oppure
presto la Cina, un polo che si contrapponga agli Stati
Uniti, perché non possiamo risolvere i problemi
con Israele da soli. Ci vuole qualcuno che dica: “siamo
con te Israele, ma ora basta”.
C’è un altro libro nel suo futuro
letterario?
Sto scrivendo un libro, il terzo, qui in Italia. Non
è un libro sull’occupazione ma su alcune
donne palestinesi, mie amiche cinquantenni. E’
un libro sul confronto con lo stereotipo occidentale,
non solo americano ma anche europeo del mondo arabo.
Mi chiedo cosa voglia dire essere una tipica palestinese
e mi sembra che dopo Bush, la guerra in Iraq, dopo l’undici
settembre, noi palestinesi stiamo facendo di tutto per
corrispondere agli stereotipi occidentali.
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