298 - 05.05.06


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Da Ramallah vi racconto
una giornata qualsiasi

Suad Amiry con
Tina Cosmai



Suad Amiry palestinese scrittrice anomala, così è stata definita da Maria Nadotti nell’incontro con i lettori di Galassia Gutenberg, la fiera partenopea del libro e della multimedialità. Non a caso l’evento era designato come “Il racconto della Palestina”. Perchè Suad di mestiere non fa la scrittrice ma l’architetto: dal 1981 insegna architettura presso l’università di Birzeit, dove ha conosciuto suo marito Salim, e nel 1991 ha fondato il Riwaq Center for Architectural Conservation di Ramallah che dirige tuttora. Nata a Damasco, si è trasferita con la sua famiglia ad Amman, poi nella vita adulta ha scelto di tornare in Palestina, a Ramallah, perché è la sua terra d’origine e perché il suo istinto narrativo nasce proprio dal desiderio di raccontare la vita, la quotidianità nei territori occupati.

Suad ha scelto Napoli ed in particolare Procida per scrivere: l’Italia è il suo secondo Paese, e il suo primo libro, Sharon e mia suocera-Diari di guerra (Feltrinelli) nasce nel 2002 durante il periodo più duro della seconda Intifada, quando Ramallah fu messa sotto coprifuoco per trentaquattro giorni consecutivi. E lei era prigioniera in casa con sua suocera; per sopravvivere, di sera, scriveva e-mail ai suoi amici lontani, in Italia, in Inghilterra, raccontando esistenze ed episodi senza alcuna analisi o interpretazione. Suad afferra l’arte della narrazione parlando e scrivendo della sua vita, della vita dei palestinesi, quella vita che accade ogni giorno, usando uno strumento impareggiabile: l’umorismo. Così, con questo sguardo amoroso, riesce a legare la tragedia alla commedia.

Suad, come è riuscita in questa difficile ed originale operazione narrativa e personale?

Io sono un architetto e ho scritto opere di architettura. Il mio primo libro di narrativa è stato frutto del caso, perché è il risultato della pressione che subivo in casa da mia suocera, che viveva con me, e dall’avere l’esercito di Sharon alle porte della mia abitazione. Ho cominciato a scrivere per parlare della vita, perché i media si sono sempre interessati alla morte e non raccontano mai di quella che è la vita quotidiana. Questo è stato sempre il nostro problema. Quando dico che sono palestinese, tutti associano immediatamente la mia nazionalità ai kamikaze, ai bombardamenti israeliani, alla guerra. Eppure ci sono tre milioni e mezzo di palestinesi che vivono, che mangiano, che fanno l’amore, e questa occupazione non è altro che un modo per impedirci di vivere. Il conflitto non è quello di due eserciti in lotta tra loro: qui abbiamo un esercito molto potente che impedisce ad una nazione, ad un popolo, di vivere. Quando ho cominciato a scrivere il mio secondo libro, avevo già un pubblico, dei lettori e mi sono detta che era il caso di partire dalla mia storia personale. Perché anche in politica si tende a pensare ai palestinesi come un gruppo di persone, perdendo di vista gli individui. Eppure ognuno di noi ha la propria storia. Molti dei miei amici hanno detto che ero pazza, perché appunto raccontavo la quotidianità e non di Sharon o di Arafat. Ma io volevo narrare la mia storia personale e di come la politica condizioni le esistenze.

Il suo secondo libro, Se questa è vita-Dalla Palestina in tempo di occupazione (Feltrinelli), è una raccolta di storie, apparentemente piccole, leggere ma capaci di comunicare l’arbitrarietà e l’assurdità, che sono i volti più feroci del dominio israeliano. E non solo, in Palestina la vita è colma di surrealtà. Suad, ci parli di questo paradosso: vita quotidiana e surreale.

Quando ho scelto di tornare in Palestina, è stata un’odissea avere una carta d’identità e quindi poter convivere con mio marito. Questo dimostra quanto sia aleatoria ed arbitraria l’occupazione israeliana, perché quando ti sposi, automaticamente, si dovrebbe ricevere la residenza. Eppure in Palestina ci sono migliaia di persone che vivono nell’illegalità, che non hanno la residenza, persone a cui lo stato di Israele non concede il ricongiungimento familiare. Io sono stata una rifugiata perché i miei genitori lasciarono Giaffa nel 1948; sono nata a Damasco e per ritornare in Palestina ci vuole un permesso che ha la validità di un mese e che va rinnovato di continuo fino a quando non è più rinnovabile. Allora si va in Giordania, si sta un po’ di tempo lì, si richiede il permesso e poi, quando te lo concedono, tuo marito può venire a prenderti e riportarti a casa in Palestina. Per cui anche io sono stata un’illegale, perché ho dovuto aspettare sette anni per avere questa carta d’identità. Un bel giorno mi chiamano dal Comune di Ramallah, concedevano cinquanta permessi ed il mio era tra questi. Cerimonia dinanzi alle telecamere per consegnare le carte d’identità; ma appena le telecamere scompaiono ci informano che i permessi saranno inviati per posta. Il servizio postale è quanto mai aleatorio a Ramallah, per cui ce ne tornammo a casa senza documento, dopo anni di attesa. Tutto questo, non è surreale?

Pensa che la vittoria di Kadima alle recenti elezioni ed il tracollo del Likud, possano cambiare qualcosa di sostanziale nei rapporti tra Israele e Palestina? Abu Mazen si è detto pronto ad un negoziato diretto…

Se chiedi ad un palestinese se accetta la costituzione di uno stato unico in cui le due comunità vivono insieme, ti dirà di sì. Così come direbbe di sì alla ripartizione del territorio. Non è una questione religiosa, né culturale, perché l’oggetto del contendere è la terra. E’ un problema di colonizzazione: c’è un Paese che colonizza l’altro; la loro terra è la loro terra e la nostra terra è la loro terra. Nel 1988 noi palestinesi abbiamo fatto una grande concessione: quella di dimenticare la memoria e la storia che era nei nostri territori. Mi sono detta: “vabbè, quella parte la useranno gli israeliani, non la userò più io”. Noi avevamo già deciso di accettare la ripartizione sulla frontiera del 1977: prima Gerusalemme, poi parte degli insediamenti, poi hanno costruito il muro quindi una buona parte della Cisgiordania. Ma nonostante ciò, nessun israeliano è capace di dirti quale sia la vera frontiera di Israele. Il problema sta nel dover accettare di concedere terra in cambio di pace e sul risultato delle elezioni io non ho una visione positiva, almeno non nell’imminente futuro. Forse la soluzione sarà di nuovo quella di uno stato unico.

L’Europa e l’Italia sono nelle vostre speranze?

Se gli europei non prenderanno una posizione non ci sarà soluzione, perché dagli americani non ci aspettiamo nulla. Ovvio che per ora riponiamo più speranze nell’Europa che negli Stati Uniti. Certo, se domani Bush volesse sostenere i palestinesi, la storia cambia. Ma sarebbe importante se l’Italia assumesse una posizione più indipendente da quella degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Il popolo italiano e molti popoli europei conoscono la nostra storia, anche la Francia ora è con noi. Bisogna che l’Europa diventi un altro polo mondiale. L’Europa oppure presto la Cina, un polo che si contrapponga agli Stati Uniti, perché non possiamo risolvere i problemi con Israele da soli. Ci vuole qualcuno che dica: “siamo con te Israele, ma ora basta”.

C’è un altro libro nel suo futuro letterario?

Sto scrivendo un libro, il terzo, qui in Italia. Non è un libro sull’occupazione ma su alcune donne palestinesi, mie amiche cinquantenni. E’ un libro sul confronto con lo stereotipo occidentale, non solo americano ma anche europeo del mondo arabo. Mi chiedo cosa voglia dire essere una tipica palestinese e mi sembra che dopo Bush, la guerra in Iraq, dopo l’undici settembre, noi palestinesi stiamo facendo di tutto per corrispondere agli stereotipi occidentali.


 

 

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