297 - 14.03.06


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Un coro silenzioso per Moretti

Giuliano Montaldo con
Alessandro Russo



Giuliano Montaldo appare nelle sequenze iniziali di Il Caimano come Franco Caspio, regista da anni pronto a girare un fantomatico “Il ritorno di Cristoforo Colombo” e segregato negli studi della produzione senza produzioni di Bruno Bonomo (Silvio Orlando). Montaldo è uno tra gli ospiti d’eccezione che hanno partecipato alla realizzazione dell’opera di Nanni Moretti; un autore con più di cinquanta anni di carriera alle spalle, un titolo tra tutti Sacco e Vanzetti, e che è anche docente del corso di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. E’ un cammeo delizioso e ironico, una tra le diverse sorprese e giochi di verità di un film che, tra tante discussioni, affronta con decisione l’argomento dell’industria cinematografica italiana. Il film di Moretti è un’opera al presente e presente è anche la difficoltà di un autore nel realizzare la propria idea di cinema. Così Il Caimano, oltre a una generale riflessione culturale e politica, nelle storie che racconta rivela un’immagine a fuoco del cinema prodotto in Italia da un punto di vista interno sia all’opera che all’ambiente dello spettacolo.

Come mai ha accettato di partecipare a Il Caimano?

Mi ha chiamato un amico che mi ha fatto leggere una parte, l’amico poi è Nanni Moretti. Ho letto soltanto il mio ruolo e ho detto di sì, anche se non è il mio mestiere. “Ti vedo nel ruolo, si tratta di un regista”. E si trattava infatti di un regista che aveva delle difficoltà a mettere insieme il suo film, e dato che queste difficoltà le conosco, non mi è stato difficile interpretarlo. La lavorazione per me è durata cinque giorni, insieme a tanti amici. Conosco bene il direttore della fotografia, Arnaldo Catinari, e poi Angelo Barbagallo, insomma ero insieme ad amici, però non conoscevo perfettamente la storia, che ho visto solo ed esclusivamente al cinema.

Diceva delle difficoltà che si hanno nel fare cinema in Italia e una buona parte del film racconta proprio questo.

Infatti, mi pare che il film giochi su tre piani e da una parte c’è il problema del lavoro nel cinema. D’altra parte Moretti il film se l’è prodotto da solo con una coproduzione francese, se l’è distribuito da solo come Sacher insieme a Barbagallo. Le difficoltà sono evidenti, il momento è difficile soprattutto per certi film. Parlo non tanto di quelli destinati alla televisione, ma di quelli che, come questo di Moretti, scuotono un po’, fanno discutere. Ma anche questo è il ruolo del cinema. Io stesso in questo momento ho difficoltà a fare il mio film per ragioni economiche: ci sono stati i tagli al Fondo Unico per lo Spettacolo che riguardano tutta la cultura italiana e quindi si fa fatica.

Il film è ricco della partecipazione di tante persone che fanno cinema nel nostro paese...

Di quelli a cui Moretti ha chiesto una partecipazione, tra le vecchie e le nuove generazioni del cinema, nessuno ha detto di no sapendo che il film se lo produceva da solo, che stava facendo uno sforzo, che voleva fare un certo tipo di cinema. C’è stato anche da parte della troupe un impegno a non raccontare nulla, proprio per creare quella suspense che è stata poi la chiave di volta anche della curiosità, della corsa a vedere. Rispettando queste regole anche io non ho chiesto niente agli altri. Ho lavorato insieme ad un vecchio amico come Michele Placido, ma non gli ho chiesto nulla e lui non ha chiesto nulla a me. Ognuno ha fatto il suo ruolo e siamo andati avanti.

Un coro silenzioso...

Sì, un coro silenzioso, a bocca chiusa, ma sapendo che dopo, quando avrebbe parlato lo schermo, qualcosa sarebbe successo. Gli esiti, l’interesse, le pagine dei giornali, gli incassi, danno le dimensioni di un cinema che fa anche discutere.

Cinema civile?

Cinema che fa pensare, che apre delle discussioni. Vedo le persone che escono dalle sale e si fermano a parlare ancora. Se ne parla tutti i giorni. Oggi sono stato al Centro Sperimentale e gli studenti volevano parlare ancora un po’ di questo. Il cinema può essere avventura, divertimento, o quel meraviglioso periodo della commedia italiana dove c’erano anche momenti graffianti, in cui si parlava di costume e di società ridendo amaramente: Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman... Che fossero I soliti ignoti o i soldati di La Grande Guerra certo facevano sorridere, ma anche pensare.

Più di una volta nel film si parla di Gian Maria Volonté, e con lui si evoca tutta una stagione passata.

Non c’è dubbio, lui secondo me sarebbe stato presente, a un film così non avrebbe detto no neanche per una piccola partecipazione. Insomma è un attore che manca non solo sulla scena, ma come uomo di grandi battaglie del cinema italiano. Gian Maria per molti ha rappresentato un punto di riferimento di impegno, di onestà intellettuale, di ricerca di nuovi valori, nuovi personaggi, di ruoli mai ripetitivi, uno stimolo e anche un esempio. Moretti lo celebra.

Una battuta del film: “E’ sempre il momento di fare una commedia”.

E’ quello in cui ci si rifugia un po’. La dice lunga l’atteggiamento di Marco Pulici/Michele Placido, che prima sembra entusiasta del ruolo e poi, quando si rende conto che questo solleverà un polverone che potrebbe portargli dei problemi, scappa via.

Moretti riesce a raccontare una storia in un modo che gli è caratteristico: coniuga una commedia anche sentimentale con l’impegno. Ma in che modo è cambiata la possibilità di raccontare?

Mi pare che lui ci sia riuscito coinvolgendo tante persone, ma soprattutto rischiando in proprio, producendosi da solo. Non ha chiesto nulla a nessuno e non è andato da nessuna parte a chiedere interventi, né al Ministero né alle società di distribuzione. Avrebbe dovuto far leggere la storia, discuterla. Voleva fare una cosa in assoluta libertà e l’ha fatta. Le polemiche intorno al film mi fanno ridere. E’ un film. Voglio dire: uno va al cinema paga il biglietto, entra e lo vede. Non è obbligato, non è come per la televisione che irrompe in casa invasiva. Lo spettatore qui sa di che cosa si tratta, ha tutti gli elementi in mano ormai, e se decide di andarlo a vedere è una libera scelta. E’ una scelta e nessuno lo obbliga a fare questa scelta. Credo che non ci siano dubbi a proposito.

Ironia e verità come si muovono nel film?

Si muovono bene anche quando si sposano con il grottesco. In questo film, dicevo, ci sono tre piani: il dramma intimo di una famiglia allo sfascio, il discorso sul cinema e il problema politico. Tre livelli attraverso cui Nanni è passato in uno slalom fantastico, cucendo insieme tre racconti, tre racconti che sono esemplari. Da una parte la crisi di una cultura in generale e dall’altra quella dell’azienda cinema. Poi racconta con grande passione gli eventi di una famiglia: violenze, ritorsioni, malinconie e dolori. Poi c’è la rinuncia di un’attrice nel personaggio di Paola, Margherita Buy, che preferisce fare la corista. E’ ricco di annotazioni, ogni momento può essere un nuovo film. Ma i momenti più importanti senza dubbio sono nelle ultime sequenze.

Gli ultimi trenta anni di una cultura: abbiamo perso per strada qualcosa?

Si è perso un po’ di ottimismo e di speranza. E poi di ideologia; di voglia di lottare ne vedo poca. Vedo tante zattere più che una corazzata.

 

 

 

 

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