Giuliano
Montaldo appare nelle sequenze iniziali di Il Caimano
come Franco Caspio, regista da anni pronto a girare
un fantomatico “Il ritorno di Cristoforo Colombo”
e segregato negli studi della produzione senza produzioni
di Bruno Bonomo (Silvio Orlando). Montaldo è
uno tra gli ospiti d’eccezione che hanno partecipato
alla realizzazione dell’opera di Nanni Moretti;
un autore con più di cinquanta anni di carriera
alle spalle, un titolo tra tutti Sacco e Vanzetti,
e che è anche docente del corso di regia al Centro
Sperimentale di Cinematografia di Roma. E’ un
cammeo delizioso e ironico, una tra le diverse sorprese
e giochi di verità di un film che, tra tante
discussioni, affronta con decisione l’argomento
dell’industria cinematografica italiana. Il film
di Moretti è un’opera al presente e presente
è anche la difficoltà di un autore nel
realizzare la propria idea di cinema. Così Il
Caimano, oltre a una generale riflessione culturale
e politica, nelle storie che racconta rivela un’immagine
a fuoco del cinema prodotto in Italia da un punto di
vista interno sia all’opera che all’ambiente
dello spettacolo.
Come mai ha accettato di partecipare a Il
Caimano?
Mi ha chiamato un amico che mi ha fatto leggere una
parte, l’amico poi è Nanni Moretti. Ho
letto soltanto il mio ruolo e ho detto di sì,
anche se non è il mio mestiere. “Ti vedo
nel ruolo, si tratta di un regista”. E si trattava
infatti di un regista che aveva delle difficoltà
a mettere insieme il suo film, e dato che queste difficoltà
le conosco, non mi è stato difficile interpretarlo.
La lavorazione per me è durata cinque giorni,
insieme a tanti amici. Conosco bene il direttore della
fotografia, Arnaldo Catinari, e poi Angelo Barbagallo,
insomma ero insieme ad amici, però non conoscevo
perfettamente la storia, che ho visto solo ed esclusivamente
al cinema.
Diceva delle difficoltà che si hanno
nel fare cinema in Italia e una buona parte del film
racconta proprio questo.
Infatti, mi pare che il film giochi su tre piani e
da una parte c’è il problema del lavoro
nel cinema. D’altra parte Moretti il film se l’è
prodotto da solo con una coproduzione francese, se l’è
distribuito da solo come Sacher insieme a Barbagallo.
Le difficoltà sono evidenti, il momento è
difficile soprattutto per certi film. Parlo non tanto
di quelli destinati alla televisione, ma di quelli che,
come questo di Moretti, scuotono un po’, fanno
discutere. Ma anche questo è il ruolo del cinema.
Io stesso in questo momento ho difficoltà a fare
il mio film per ragioni economiche: ci sono stati i
tagli al Fondo Unico per lo Spettacolo che riguardano
tutta la cultura italiana e quindi si fa fatica.
Il film è ricco della partecipazione
di tante persone che fanno cinema nel nostro paese...
Di quelli a cui Moretti ha chiesto una partecipazione,
tra le vecchie e le nuove generazioni del cinema, nessuno
ha detto di no sapendo che il film se lo produceva da
solo, che stava facendo uno sforzo, che voleva fare
un certo tipo di cinema. C’è stato anche
da parte della troupe un impegno a non raccontare nulla,
proprio per creare quella suspense che è stata
poi la chiave di volta anche della curiosità,
della corsa a vedere. Rispettando queste regole anche
io non ho chiesto niente agli altri. Ho lavorato insieme
ad un vecchio amico come Michele Placido, ma non gli
ho chiesto nulla e lui non ha chiesto nulla a me. Ognuno
ha fatto il suo ruolo e siamo andati avanti.
Un coro silenzioso...
Sì, un coro silenzioso, a bocca chiusa, ma sapendo
che dopo, quando avrebbe parlato lo schermo, qualcosa
sarebbe successo. Gli esiti, l’interesse, le pagine
dei giornali, gli incassi, danno le dimensioni di un
cinema che fa anche discutere.
Cinema civile?
Cinema che fa pensare, che apre delle discussioni.
Vedo le persone che escono dalle sale e si fermano a
parlare ancora. Se ne parla tutti i giorni. Oggi sono
stato al Centro Sperimentale e gli studenti volevano
parlare ancora un po’ di questo. Il cinema può
essere avventura, divertimento, o quel meraviglioso
periodo della commedia italiana dove c’erano anche
momenti graffianti, in cui si parlava di costume e di
società ridendo amaramente: Alberto Sordi, Ugo
Tognazzi, Vittorio Gassman... Che fossero I soliti
ignoti o i soldati di La Grande Guerra
certo facevano sorridere, ma anche pensare.
Più di una volta nel film si parla di
Gian Maria Volonté, e con lui si evoca tutta
una stagione passata.
Non c’è dubbio, lui secondo me sarebbe
stato presente, a un film così non avrebbe detto
no neanche per una piccola partecipazione. Insomma è
un attore che manca non solo sulla scena, ma come uomo
di grandi battaglie del cinema italiano. Gian Maria
per molti ha rappresentato un punto di riferimento di
impegno, di onestà intellettuale, di ricerca
di nuovi valori, nuovi personaggi, di ruoli mai ripetitivi,
uno stimolo e anche un esempio. Moretti lo celebra.
Una battuta del film: “E’ sempre
il momento di fare una commedia”.
E’ quello in cui ci si rifugia un po’.
La dice lunga l’atteggiamento di Marco Pulici/Michele
Placido, che prima sembra entusiasta del ruolo e poi,
quando si rende conto che questo solleverà un
polverone che potrebbe portargli dei problemi, scappa
via.
Moretti riesce a raccontare una storia in un
modo che gli è caratteristico: coniuga una commedia
anche sentimentale con l’impegno. Ma in che modo
è cambiata la possibilità di raccontare?
Mi pare che lui ci sia riuscito coinvolgendo tante
persone, ma soprattutto rischiando in proprio, producendosi
da solo. Non ha chiesto nulla a nessuno e non è
andato da nessuna parte a chiedere interventi, né
al Ministero né alle società di distribuzione.
Avrebbe dovuto far leggere la storia, discuterla. Voleva
fare una cosa in assoluta libertà e l’ha
fatta. Le polemiche intorno al film mi fanno ridere.
E’ un film. Voglio dire: uno va al cinema paga
il biglietto, entra e lo vede. Non è obbligato,
non è come per la televisione che irrompe in
casa invasiva. Lo spettatore qui sa di che cosa si tratta,
ha tutti gli elementi in mano ormai, e se decide di
andarlo a vedere è una libera scelta. E’
una scelta e nessuno lo obbliga a fare questa scelta.
Credo che non ci siano dubbi a proposito.
Ironia e verità come si muovono nel
film?
Si muovono bene anche quando si sposano con il grottesco.
In questo film, dicevo, ci sono tre piani: il dramma
intimo di una famiglia allo sfascio, il discorso sul
cinema e il problema politico. Tre livelli attraverso
cui Nanni è passato in uno slalom fantastico,
cucendo insieme tre racconti, tre racconti che sono
esemplari. Da una parte la crisi di una cultura in generale
e dall’altra quella dell’azienda cinema.
Poi racconta con grande passione gli eventi di una famiglia:
violenze, ritorsioni, malinconie e dolori. Poi c’è
la rinuncia di un’attrice nel personaggio di Paola,
Margherita Buy, che preferisce fare la corista. E’
ricco di annotazioni, ogni momento può essere
un nuovo film. Ma i momenti più importanti senza
dubbio sono nelle ultime sequenze.
Gli ultimi trenta anni di una cultura: abbiamo
perso per strada qualcosa?
Si è perso un po’ di ottimismo e di speranza.
E poi di ideologia; di voglia di lottare ne vedo poca.
Vedo tante zattere più che una corazzata.
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