Alice
Miller,
Il dramma del bambino dotato
e la ricerca del vero Sé,
Bollati Boringhieri, pp.130, € 18,00
A leggere il bel libro di Alice Miller (psicoterapeuta,
nonché psicoanalista alquanto eterodossa), fin
dalle prime pagine appare evidente come il dramma
del bambino dotato non sia problema di appartenenza
esclusiva ai bambini dotati, bensì interessi
un po’ tutti quanti gli ex fanciulli troppo desiderosi
di soddisfare le aspettative genitoriali; ma tant’è:
il titolo è suggestivo, sia nella puntuale traduzione
italiana che nell’originale tedesco: Das Drama
des begabten Kindes (Il dramma del bambino dotato
e la ricerca del vero Sé). Veniamo però
alla tesi del saggio.
Secondo la ricerca della Miller, va innanzitutto ribaltato
il luogo comune per cui i figli considerati l’orgoglio
dei loro genitori avrebbero, da adulti, una salda consapevolezza
del loro valore e una chance in più per realizzarsi.
Al contrario, secondo l’autrice, spesso da grandi
essi rivelano una scarsa autostima, soffrono di sensi
di colpa o depressione e vengono colti con frequenza
dal timore di aver tradito l’immagine ideale che
di se stessi si erano costruiti o, meglio, mamma e papà
avevano finito col fabbricare per quei loro figli così
ubbidienti e in gamba. Riassunto in parole povere: gli
ex bravi ragazzi non necessariamente diverranno uomini
(o donne) felici e realizzati. Anzi.
Prima di illustrare la sua tesi, la Miller pone all’attenzione
del lettore alcune premesse, secondo le quali in
primis bisogno essenziale di ogni bambino è
il venir considerato (amato) per quello che realmente
è e per ciò che egli emotivamente prova
o esprime in ogni fase del suo sviluppo infantile. Solo
se sia presente un siffatto clima di accettazione/comprensione,
infatti, sarebbe possibile un “sano sviluppo”,
atto a favorire successivamente la separazione dalla
figura materna e l’autonomia. Ma se i padri e
le madri di tali bambini sono un tempo cresciuti in
uno “stato di carenza affettiva” e senza
la comprensione partecipe dei loro genitori; se sono
rimasti essi stessi degli insicuri, non permetteranno
una crescita armonica ai propri figli che perpetueranno
fatalmente il loro disagio.
Stanti tali premesse, ne consegue che il cosiddetto
“bravo bambino” altri non si rivela che
un piccolo essere il quale, per paura di perdere l’amore
di mamma e papà, evita di manifestare sentimenti
(soprattutto negativi: quali rabbia, invidia o paura)
che vede non tollerati dalla coppia genitoriale e finisce
per adattarsi invece con docilità a quei modelli
di comportamento e condotta che i due membri più
presenti e autorevoli della famiglia finiscono più
o meno consciamente per imporre al bimbo. Ma ciò
fa sì vengano compressi e soffocati i tratti
maggiormente autentici della personalità, con
tutto il corollario di insicurezza, impoverimento ed
alienazione psichica che ne deriva. Per non parlare
dei casi, cui si tratta nel saggio, nei quali il falso
Sé – come lo chiama la Miller – si
maschera dietro a una fragile grandiosità e supponenza
maniacale: schermo inautentico che presto o tardi tende
ad incrinarsi, facendo magari scivolare il soggetto
nei gorghi di un micidiale stato depressivo.
La domanda da porci, allora, credo sia una sola: può
giovare la psicoterapia in casi siffatti? L’autrice,
ovviamente, ne è convinta, insistendo sull’opportunità
di rielaborare il lutto del disamore patito durante
l’infanzia dai bambini dotati o troppo buoni
che dir si voglia. Unita alla necessità di far
comprendere loro come l’ammirazione, il plauso
e l’accettazione dei grandi non era davvero rivolta
ai piccoli adulti ma giusto all’ubbidienza o alle
prestazioni brillanti loro. “A questo punto”
scrive ottimista la Miller “succede che il vero
Sé, dopo decenni di silenzio, può risvegliarsi
alla vita con una rinnovata capacità di sentire”;
sostenendo altresì come per tali persone, solo
la capacità di rivivere i sentimenti infantili
rimossi ? con tutta l’impotenza ad essi collegata
? consente di rinforzare sicurezza, autonomia ed autostima.
Si magnifica insomma qui il ruolo dello psicoterapeuta
(psicoanalista o meno) cui vengono richiesti in primo
luogo disponibilità all’ascolto, capacità
empatica e assoluto rispetto per il vissuto emozionale
– quale che sia ? del paziente. Ma, dice bene
la Miller, attenti alle illusioni, perché il
significato profondo della psicoterapia non sta nel
“correggere il destino del paziente” o,
peggio ancora, nel prospettargli esaustive soluzioni/razionalizzazioni
sanatrici, “bensì nel consentirgli l’incontro
col proprio destino”. E ciò non mi sembra
davvero cosa di poco conto.
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