Armando
Gnisci
Biblioteca interculturale.
Via della decolonizzazione europea n. 2,
Odradek, Roma, 2005, 155 pagg., 14 euro.
Vine Deloria Jr., difensore dei diritti dei nativi
americani, scriveva nel 1969 che “la cosa migliore
per un indiano è che la gente si interessi sempre
a lui e alla sua ‘condizione’[…] Mediante
una semplice occhiata la gente è in grado di
dire ciò che vogliamo, ciò che dovrebbe
essere fatto per aiutarci, ciò che sentiamo e
ciò che realmente è adatto per un indiano
reale”. Questa è la maledizione che grava
da sempre sui popoli colonizzati: quella di non poter
esprimere se stessi, di essere destinati pertanto ad
essere inconsapevoli della propria forma e quindi, come
spiegava Ralph Ellison in Invisible man, a
“vivere nella morte“. Anche qualora avvenga
in buona fede, la negazione del riconoscimento è
probabilmente la forma più terribile di discriminazione
e forse anche l’unica vera forma di razzismo che
sopravviva nell’Occidente che conosciamo. Si può
condividere quanto scrive Rémi Brague, quando
sostiene che “l’Europa si distingue dagli
altri mondi culturali per la modalità particolare
del rapporto con ciò che le è proprio:
l’appropriazione di ciò che è percepito
come estraneo”. Questa appropriazione si manifesta
non solo sotto forma di cleptocrazia, ma anche di furto
dell’identità dell’altro. Lo si dipinge
come lo si immagina, non gli si dà la possibilità
di esprimersi, di essere pienamente sé stesso,
di raccontarsi come avrebbe necessità di fare.
Paradossalmente, un esempio molto calzante di questo
processo è la vicenda dell’America, un
continente privato del proprio nome. Se “nel romanzo
americano la consapevolezza della propria forma ha inizio
con la consapevolezza del proprio nome”, che pensare
di una terra a cui il nome è stato imposto attraverso
un battesimo frettoloso da parte di un navigatore italiano,
Amerigo Vespucci? Diventa allora determinante la possibilità
di raccontare se stessi, anche battezzandosi di nuovo,
rinascendo a nuova vita, non più come colonizzati,
ma come appartenenti a un popolo, a una nazione, a una
cultura autonoma e indipendente. Forse potremmo leggere
in questo desiderio quella spinta all’autoconservazione,
alla preservazione della propria identità culturale,
derivante da una qualche forma di “natura umana”,
propria del differenzialismo di Levi Strauss. Di certo
la riflessione, contemporanea e non, sul razzismo ci
ha insegnato prima di tutto a fare attenzione alla dimensione
del riconoscimento. Ma riconoscere qualcuno significa
primariamente concedergli la possibilità di esprimersi
nel modo a lui più consono. “Quando ho
deciso di scrivere canzoni rap – spiegava il leader
dei Public Enemy Chuck D – non potevo che ispirarmi
a ciò che era fissato dentro di me”. A
quella sorta di “voce interiore”, di “autenticità”
che gli studiosi del riconoscimento da sempre esaminano.
Riconoscere qualcuno significa, prima di tutto, mettersi
in ascolto. Sentire quello che ha da dirci. Anche lasciargli
la possibilità di utilizzare la propria lingua.
Il poeta Linton Kwesi Johnson, e prima di lui James
Berry in News for Babylon, dopo aver rilevato
che “l’inglese non contiene quelle idiosincrasie
che permettono a un testo caraibico di esprimere perfettamente
i propri contenuti”, scelsero di esprimersi con
una lingua diversa. Tanti intellettuali hanno deciso
di cambiare il proprio nome, assumendone uno più
vicino alle proprie tradizioni, alla propria storia.
Perché negando l’identità di un
popolo, gli si nega anche la possibilità di avere
una storia, di avere un’anima, quasi. Preso atto
della necessità dell’ascolto, dobbiamo
ricominciare da capo. Imparare nuovamente a capire le
popolazioni dell’Africa, dei Caraibi, dell’America
Latina. E dobbiamo farlo attraverso le loro opere, non
più solamente i resoconti di altri “occidentali”
che hanno visto, raccontato e fissato per sempre un
immagine. Si può dire che sia questo il nucleo
centrale del libro di Armando Gnisci, “Biblioteca
interculturale”. Un volume che si pone come obiettivo
proprio quello di fornire al lettore una scelta di testi,
album musicali, film e altro utili per costruire un
approccio interculturale positivo. Anzi, per vivere
in senso pieno l’interculturalità. Perché
Gnisci non elenca, non antologizza. Racconta. Esprime
se stesso, scrive la propria esperienza nel sentire,
capire e osservare gli altri e la metta a disposizione
del lettore. Non si fa paradigma, semplicemente prende
la briga di dirsi nella maniera che ritiene più
consona al suo modo di essere. Spiegano i musicologi
che “la personalizzazione del timbro vocale è
un elemento peculiare della musica africana”,
come se anche si volesse modellare a propria immagine
innanzitutto la propria voce prima di raccontare se
stessi. Quello che fa Gnisci è proprio questo:
personalizza il timbro e invita il lettore ad ascoltare
il timbro personalizzato degli altri. Anche per rendersi
conto che anche il “loro” di timbro, avrebbe
tanto da offrire anche al “nostro”.
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