“Piacere,
il mio nome è Europa, sono un’antica principessa.
La meretrice di Tiro, come mi chiamò
Hera in uno dei suoi accessi di gelosia. Ma è
lì dunque che sono nata: a Tiro, una città
portuale sul Mediterraneo, adesso in territorio libanese,
ma che all’epoca si trovava nella prosperosa Fenicia
dedita ai commerci. E lì, mentre passeggiavo
con un paio di amiche sulla spiaggia, una mandria di
tori fu spinta verso di noi. Avevamo paura, naturalmente,
ma gli animali non avevano un’espressione minacciosa
e si fecero avvicinare. Ce n’era uno tra loro
di un bianco abbagliante, mansueto come un agnellino.
Mi leccò la mano, lasciò che gli ponessi
una ghirlanda di fiori sulle sue piccole corna lucenti
e poi si rovesciò sulla calda sabbia con la sua
massiccia mole taurina. Fu così che conquistò
la mia fiducia. Quando gli salii in groppa prese a correre,
prima a capofitto nella risacca e poi in mare aperto,
verso Occidente. Su un percorso che fendeva le onde
in senso biblico mi rapì, portandomi su un’isola
invisibile, che si rivelò essere Creta.
Così mi immortalò Rubens, e così
potete vedermi al Prado, adagiata su una groppa taurina
con le mie forme bianche e generose. Un’unica,
grande scenografia amorosa, in cui Zeus dopo si sarebbe
deliziato in un boschetto di salici. Ma il mio ratto,
in sé, era poco importante, ben più rilevante
fu ciò che avvenne in seguito. Mi limitai a dare
il la a una serie di eventi. Non avendo più notizie,
mio padre incaricò i miei tre fratelli di cercarmi.
Ubbidienti quelli presero il largo. Fu il più
giovane, Cadmo, a giungermi più vicino. Sbarcò
sul suolo greco e apprese da un oracolo che sarebbe
stato più saggio sospendere le ricerche per dedicarsi
a imprese più grandi. E, di nuovo, mio fratello
eseguì il compito affidatogli. Fondò Tebe,
sposò Armonia e regalò ai greci qualcosa
di davvero notevole, una delle tante invenzioni dei
suoi compatrioti fenici. Un dono lieve come una piuma.
Era una sorta di macchina del tempo.
Mio fratello donò ai beoti l’alfabeto,
il suo contributo al mondo. Gli uomini, in tal modo,
impararono a domare i loro pensieri. Non vorrei apparire
civettuola, ma fu grazie a me che le lettere attraversarono
il Mediterraneo, tramite mio fratello che smise di cercarmi
strada facendo. Difficile valutare quali vertiginose
conseguenze avrebbe avuto l’introduzione della
scrittura. A un tratto qualcuno si era reso conto di
poter tramandare un codice su pietra o su argilla: una
serie limitata di scarabocchi che non solo erano in
grado di racchiudere un’idea ma sapevano anche
trasmetterla, ai contemporanei e persino ai posteri.
Perché gli scritti, naturalmente, viaggiano.
Affondano le loro radici nel passato e fanno un salto
nel futuro. Sono poi meno fugaci delle persone e ciò
avrebbe inevitabilmente cambiato l’immagine che
queste avevano di sé. Dato che erano in grado
di custodire un pensiero proprio e, per di più,
di rifarsi a quelli dei loro predecessori, compresero
finalmente a pieno la propria relatività. Gli
esseri umani si umanizzarono, per così dire:
gravati di un passato e consapevoli che, tutto sommato,
non c’era molto di nuovo sotto il sole. Ma, d’ora
in avanti, avrebbero potuto fare affidamento sulla conoscenza
già acquisita e comunicare certe cose, e questo
era sbalorditivo.
L’origine e la paternità dell’attribuzione
del mio nome a un continente sono avvolte nel mistero.
L’ho consentito. Così mi piace vedermi.
Come uno spazio aperto, compreso da segni, che mi è
toccato in sorte dal Medio Oriente. Idealmente, io formo
una comunità matura e colta che si estende dal
punto più occidentale del Portogallo fino ai
confini della Federazione Russa e dell’Azerbaigian,
che conta al momento 46 stati membri del Consiglio d’Europa
con la Bielorussia in lista d’attesa. Questa è
la definizione più generosa e platonica che possa
immaginare per me stessa come continente. O meglio:
come pezzo di continente, perché che altro sono
se non una bizzarra appendice? Sono, siamo sinceri,
una modesta penisola dell’Asia. Però nel
mio fertile bacino intorno al Mediterraneo è
nato il pensiero più antico: sulle sponde di
un continente senza luoghi selvaggi degni di nota. Densamente
popolato, fertile e ben presto carico di un passato
che si spingeva fino a Gerusalemme e Atene e che si
sarebbe legato a migliaia e migliaia di luoghi.
In primo luogo sono composta quindi di lingua.
Una serie di onde sonore ripartite in sei caratteri.
È così che mi stampano sui manifesti,
sono il vostro richiamo. Il nome di una ragazza dalla
larga faccia lunare, perché questo è il
mio significato originario: ampia, larga, vasta. Europos.
Ho il pallido sorriso della dea della luna. In seguito
sono stata cristianizzata. Gli armeni furono i primi
a farsi convertire alla nuova fede giunta da Gerusalemme,
i lituani furono gli ultimi a passare dalle loro credenze
pagane al cristianesimo. Oltre al continente della scrittura
divenni il continente della Scrittura. Ma poiché
la mia fede fu propagata mettendo a ferro e fuoco altre
regioni, non ne parlo volentieri. Di quell’epoca
mi sono cari soprattutto i viandanti. Come quel fanciullo
che, intorno agli anni Trenta del XIII secolo, entrò
nell’ordine dei frati minori, da poco introdotto
nelle Fiandre con l’affabile sostegno di una contessa.
Il suo nome era Guillaume de Rubrouck, anche se in una
lettera al sovrano francese si presentò come
frater Willelmus de Rubruc, in Ordine fratrum minorum
minimus. Mi piace quest’uomo, fu uno dei
primi a percorrermi in lungo e in largo e a scriverci
sopra un resoconto, con maggiore realismo di Marco Polo,
a quanto si dice.
Ma nel frattempo la stragrande maggioranza della superficie
che aveva preso il mio nome si trovava sotto la campana
del cristianesimo. La contessa che aveva fatto venire
i frati minori dall’Italia si chiamava Giovanna
di Costantinopoli perché il padre, durante una
delle crociate, aveva saputo impadronirsi della corona
di Costantinopoli facendosi chiamare da allora imperatore
dell’Impero Romano. Non molto tempo dopo perì
nella battaglia di Adrianopoli, combattendo contro i
bulgari.
Anche a Tiro, la mia città natale, all’epoca
dominavano i crociati. Il viandante arabo Ibn Jubayr
lanciò una maledizione contro la città:
“Possa l’Altissimo distruggerla”.
Tuttavia spese una buona parola per gli occupanti franchi:
“Gli abitanti sono meno ostinati nella loro fede
e più portati ad assumere un atteggiamento conciliante
verso gli stranieri maomettani”. E che cosa pensavano
i sudditi dell’epoca a proposito del “loro”
Impero Romano? A mio avviso non si scervellavano più
di tanto, la maggior parte della gente era priva di
istruzione e profondamente religiosa, aveva a malapena
il tempo di soffermarsi sulla propria, capricciosa sorte.
Sperava al massimo che le decime non aumentassero troppo
e che nessuna terribile malattia attaccasse le coltivazioni,
il bestiame o la stessa popolazione.
Nel frattempo avevo quasi cessato di esistere come
figlia di re, ero diventata un’antichità.
Solamente poche persone colte rammentavano che il mio
nome era appartenuto in origine a una principessa fenicia.
Ma quando degli studiosi arabi cominciarono a tradurre
testi greci e latini, a poco a poco crebbe di nuovo
l’interesse verso di me. Una situazione destinata
a migliorare. Nel 1215, non molto lontano dal luogo
dove era nato Guillaume de Rubrouck, fu redatto un documento
che, con una certa elasticità, potremmo chiamare
il primo documento europeo che prendeva a cuore gli
interessi dei suoi abitanti: la Magna Charta.
Il testo del documento, scritto in Francia da alcuni
emigranti inglesi che si erano ribellati all’arbitrio
del loro sovrano, Giovanni Senzaterra, vincolava quest’ultimo
a non imporre tasse senza l’esplicito consenso
della nobiltà e del clero, concedendo inoltre
a tutti gli stranieri il diritto di esercitare i loro
commerci. Una pergamena generosa, non c’è
che dire, il primo documento ufficiale con cui un gruppo
di persone si proteggeva, di diritto, dall’arbitrio
dei potenti. Potenti casuali, stavo per dire, ma sarebbe
pleonastico. Il governo che ti accoglie, come la famiglia
in cui nasci, non te lo puoi scegliere.
Ma così, a poco a poco, si fece strada la modernità.
Con documenti che la nobiltà, la borghesia e,
infine, anche il popolo comune seppero imporre ai loro
sovrani. In tal modo la storia del mio continente costituisce
soprattutto la storia dell’emancipazione dei miei
abitanti, per i quali la misura di tutte le cose era
sempre meno Dio e sempre più l’uomo e i
suoi alfabeti. Divenni il continente delle molte scritture.
In una lingua fu scritta la Bill of Rights,
in un’altra la Déclaration des Droits
de l‘Homme et du Citoyen. Nell’ambito
di questo spirito ottimistico si sviluppò l’idea
di Europa: un concetto umanistico, ma impetuoso e propagandato
con zelo napoleonico. La convinzione che avremmo dovuto
fare affidamento sulle nostre forze. Più di un
secolo dopo ero già il continente delle molte
scritture bruciate. Ho appena affermato di essere l’unico
continente senza luoghi selvaggi, ma naturalmente non
ho fatto i conti con l’essere umano e l’inferno
verde dentro di sé, comunemente chiamato il male,
o la sua crudeltà unica. Quante persone sono
dovute fuggire dalle mie coste, quante volte il mio
territorio era in fiamme durante il secolo scorso! Si
stima in circa cento milioni di anime il numero di uomini,
donne e bambini rimasti vittime delle due grandi guerre
tribali sul mio suolo. Da allora posso parlare solo
a bassa voce.
Degli ultimi cinquant’anni non posso lamentarmi.
È sorta un’Unione, di cui sono entrate
a far parte diverse nazioni fino a poco tempo prima
schiacciate da un tallone dogmatico. Io stessa, nel
frattempo, sembro essere diventata una gigantesca ape
regina, la madre invisibile e ideale per cui l’intero
alveare si dà da fare in maniera molto liberale
e pluralistica. Sento ronzarmi intorno ottocento milioni
di voci, la quantità di parole che si rovescia
sul mio continente è oceanica. Sono, dunque,
una signora di una certa età dai contorni indefiniti.
(traduzione di Franco Paris)
Qesto scritto è un estratto dall’intervento
che l’autore ha tenuto a “Transeuropaespress
2006 – L’Europa alla prova del consenso”
organizzato a Roma dalla Fondazione Ratti e dalla Casa
delle Letterature di Roma.
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