296 - 24.03.06


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Autoritratto con adipe

Kamiel Vanhole



“Piacere, il mio nome è Europa, sono un’antica principessa. La meretrice di Tiro, come mi chiamò Hera in uno dei suoi accessi di gelosia. Ma è lì dunque che sono nata: a Tiro, una città portuale sul Mediterraneo, adesso in territorio libanese, ma che all’epoca si trovava nella prosperosa Fenicia dedita ai commerci. E lì, mentre passeggiavo con un paio di amiche sulla spiaggia, una mandria di tori fu spinta verso di noi. Avevamo paura, naturalmente, ma gli animali non avevano un’espressione minacciosa e si fecero avvicinare. Ce n’era uno tra loro di un bianco abbagliante, mansueto come un agnellino. Mi leccò la mano, lasciò che gli ponessi una ghirlanda di fiori sulle sue piccole corna lucenti e poi si rovesciò sulla calda sabbia con la sua massiccia mole taurina. Fu così che conquistò la mia fiducia. Quando gli salii in groppa prese a correre, prima a capofitto nella risacca e poi in mare aperto, verso Occidente. Su un percorso che fendeva le onde in senso biblico mi rapì, portandomi su un’isola invisibile, che si rivelò essere Creta.

Così mi immortalò Rubens, e così potete vedermi al Prado, adagiata su una groppa taurina con le mie forme bianche e generose. Un’unica, grande scenografia amorosa, in cui Zeus dopo si sarebbe deliziato in un boschetto di salici. Ma il mio ratto, in sé, era poco importante, ben più rilevante fu ciò che avvenne in seguito. Mi limitai a dare il la a una serie di eventi. Non avendo più notizie, mio padre incaricò i miei tre fratelli di cercarmi. Ubbidienti quelli presero il largo. Fu il più giovane, Cadmo, a giungermi più vicino. Sbarcò sul suolo greco e apprese da un oracolo che sarebbe stato più saggio sospendere le ricerche per dedicarsi a imprese più grandi. E, di nuovo, mio fratello eseguì il compito affidatogli. Fondò Tebe, sposò Armonia e regalò ai greci qualcosa di davvero notevole, una delle tante invenzioni dei suoi compatrioti fenici. Un dono lieve come una piuma. Era una sorta di macchina del tempo.

Mio fratello donò ai beoti l’alfabeto, il suo contributo al mondo. Gli uomini, in tal modo, impararono a domare i loro pensieri. Non vorrei apparire civettuola, ma fu grazie a me che le lettere attraversarono il Mediterraneo, tramite mio fratello che smise di cercarmi strada facendo. Difficile valutare quali vertiginose conseguenze avrebbe avuto l’introduzione della scrittura. A un tratto qualcuno si era reso conto di poter tramandare un codice su pietra o su argilla: una serie limitata di scarabocchi che non solo erano in grado di racchiudere un’idea ma sapevano anche trasmetterla, ai contemporanei e persino ai posteri. Perché gli scritti, naturalmente, viaggiano. Affondano le loro radici nel passato e fanno un salto nel futuro. Sono poi meno fugaci delle persone e ciò avrebbe inevitabilmente cambiato l’immagine che queste avevano di sé. Dato che erano in grado di custodire un pensiero proprio e, per di più, di rifarsi a quelli dei loro predecessori, compresero finalmente a pieno la propria relatività. Gli esseri umani si umanizzarono, per così dire: gravati di un passato e consapevoli che, tutto sommato, non c’era molto di nuovo sotto il sole. Ma, d’ora in avanti, avrebbero potuto fare affidamento sulla conoscenza già acquisita e comunicare certe cose, e questo era sbalorditivo.

L’origine e la paternità dell’attribuzione del mio nome a un continente sono avvolte nel mistero. L’ho consentito. Così mi piace vedermi. Come uno spazio aperto, compreso da segni, che mi è toccato in sorte dal Medio Oriente. Idealmente, io formo una comunità matura e colta che si estende dal punto più occidentale del Portogallo fino ai confini della Federazione Russa e dell’Azerbaigian, che conta al momento 46 stati membri del Consiglio d’Europa con la Bielorussia in lista d’attesa. Questa è la definizione più generosa e platonica che possa immaginare per me stessa come continente. O meglio: come pezzo di continente, perché che altro sono se non una bizzarra appendice? Sono, siamo sinceri, una modesta penisola dell’Asia. Però nel mio fertile bacino intorno al Mediterraneo è nato il pensiero più antico: sulle sponde di un continente senza luoghi selvaggi degni di nota. Densamente popolato, fertile e ben presto carico di un passato che si spingeva fino a Gerusalemme e Atene e che si sarebbe legato a migliaia e migliaia di luoghi.

In primo luogo sono composta quindi di lingua.
Una serie di onde sonore ripartite in sei caratteri. È così che mi stampano sui manifesti, sono il vostro richiamo. Il nome di una ragazza dalla larga faccia lunare, perché questo è il mio significato originario: ampia, larga, vasta. Europos. Ho il pallido sorriso della dea della luna. In seguito sono stata cristianizzata. Gli armeni furono i primi a farsi convertire alla nuova fede giunta da Gerusalemme, i lituani furono gli ultimi a passare dalle loro credenze pagane al cristianesimo. Oltre al continente della scrittura divenni il continente della Scrittura. Ma poiché la mia fede fu propagata mettendo a ferro e fuoco altre regioni, non ne parlo volentieri. Di quell’epoca mi sono cari soprattutto i viandanti. Come quel fanciullo che, intorno agli anni Trenta del XIII secolo, entrò nell’ordine dei frati minori, da poco introdotto nelle Fiandre con l’affabile sostegno di una contessa. Il suo nome era Guillaume de Rubrouck, anche se in una lettera al sovrano francese si presentò come frater Willelmus de Rubruc, in Ordine fratrum minorum minimus. Mi piace quest’uomo, fu uno dei primi a percorrermi in lungo e in largo e a scriverci sopra un resoconto, con maggiore realismo di Marco Polo, a quanto si dice.

Ma nel frattempo la stragrande maggioranza della superficie che aveva preso il mio nome si trovava sotto la campana del cristianesimo. La contessa che aveva fatto venire i frati minori dall’Italia si chiamava Giovanna di Costantinopoli perché il padre, durante una delle crociate, aveva saputo impadronirsi della corona di Costantinopoli facendosi chiamare da allora imperatore dell’Impero Romano. Non molto tempo dopo perì nella battaglia di Adrianopoli, combattendo contro i bulgari.
Anche a Tiro, la mia città natale, all’epoca dominavano i crociati. Il viandante arabo Ibn Jubayr lanciò una maledizione contro la città: “Possa l’Altissimo distruggerla”. Tuttavia spese una buona parola per gli occupanti franchi: “Gli abitanti sono meno ostinati nella loro fede e più portati ad assumere un atteggiamento conciliante verso gli stranieri maomettani”. E che cosa pensavano i sudditi dell’epoca a proposito del “loro” Impero Romano? A mio avviso non si scervellavano più di tanto, la maggior parte della gente era priva di istruzione e profondamente religiosa, aveva a malapena il tempo di soffermarsi sulla propria, capricciosa sorte. Sperava al massimo che le decime non aumentassero troppo e che nessuna terribile malattia attaccasse le coltivazioni, il bestiame o la stessa popolazione.

Nel frattempo avevo quasi cessato di esistere come figlia di re, ero diventata un’antichità. Solamente poche persone colte rammentavano che il mio nome era appartenuto in origine a una principessa fenicia. Ma quando degli studiosi arabi cominciarono a tradurre testi greci e latini, a poco a poco crebbe di nuovo l’interesse verso di me. Una situazione destinata a migliorare. Nel 1215, non molto lontano dal luogo dove era nato Guillaume de Rubrouck, fu redatto un documento che, con una certa elasticità, potremmo chiamare il primo documento europeo che prendeva a cuore gli interessi dei suoi abitanti: la Magna Charta. Il testo del documento, scritto in Francia da alcuni emigranti inglesi che si erano ribellati all’arbitrio del loro sovrano, Giovanni Senzaterra, vincolava quest’ultimo a non imporre tasse senza l’esplicito consenso della nobiltà e del clero, concedendo inoltre a tutti gli stranieri il diritto di esercitare i loro commerci. Una pergamena generosa, non c’è che dire, il primo documento ufficiale con cui un gruppo di persone si proteggeva, di diritto, dall’arbitrio dei potenti. Potenti casuali, stavo per dire, ma sarebbe pleonastico. Il governo che ti accoglie, come la famiglia in cui nasci, non te lo puoi scegliere.

Ma così, a poco a poco, si fece strada la modernità. Con documenti che la nobiltà, la borghesia e, infine, anche il popolo comune seppero imporre ai loro sovrani. In tal modo la storia del mio continente costituisce soprattutto la storia dell’emancipazione dei miei abitanti, per i quali la misura di tutte le cose era sempre meno Dio e sempre più l’uomo e i suoi alfabeti. Divenni il continente delle molte scritture. In una lingua fu scritta la Bill of Rights, in un’altra la Déclaration des Droits de l‘Homme et du Citoyen. Nell’ambito di questo spirito ottimistico si sviluppò l’idea di Europa: un concetto umanistico, ma impetuoso e propagandato con zelo napoleonico. La convinzione che avremmo dovuto fare affidamento sulle nostre forze. Più di un secolo dopo ero già il continente delle molte scritture bruciate. Ho appena affermato di essere l’unico continente senza luoghi selvaggi, ma naturalmente non ho fatto i conti con l’essere umano e l’inferno verde dentro di sé, comunemente chiamato il male, o la sua crudeltà unica. Quante persone sono dovute fuggire dalle mie coste, quante volte il mio territorio era in fiamme durante il secolo scorso! Si stima in circa cento milioni di anime il numero di uomini, donne e bambini rimasti vittime delle due grandi guerre tribali sul mio suolo. Da allora posso parlare solo a bassa voce.

Degli ultimi cinquant’anni non posso lamentarmi. È sorta un’Unione, di cui sono entrate a far parte diverse nazioni fino a poco tempo prima schiacciate da un tallone dogmatico. Io stessa, nel frattempo, sembro essere diventata una gigantesca ape regina, la madre invisibile e ideale per cui l’intero alveare si dà da fare in maniera molto liberale e pluralistica. Sento ronzarmi intorno ottocento milioni di voci, la quantità di parole che si rovescia sul mio continente è oceanica. Sono, dunque, una signora di una certa età dai contorni indefiniti.
(traduzione di Franco Paris)

Qesto scritto è un estratto dall’intervento che l’autore ha tenuto a “Transeuropaespress 2006 – L’Europa alla prova del consenso” organizzato a Roma dalla Fondazione Ratti e dalla Casa delle Letterature di Roma.


 

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