Pasolini
passione,
di Italo Moscati
Pag. 197, Euro 12
Ediesse 2005
Pasolini passione, il saggio di Italo Moscati
sul regista e scrittore scomparso ormai più di
35 anni fa, è azzeccato fin dal titolo: un’allitterazione
poetica, un tentativo di ricerca semantica come quelle
che faceva lo stesso Pasolini, interessato più
alla verità immediata dei sentimenti che a quella
filologica e lessicale. “Vita senza fine di un
artista trasparente”, dice il sottotitolo del
saggio. E l’ambizione di questo libriccino di
meno di duecento pagine, edito da Ediesse, è
proprio quella di raccontare tutta l’esistenza
di un uomo - prima ancora che un di artista - che pur
flirtando incessantemente con la morte amava la vita
in modo incondizionato, e si riteneva in qualche modo
immortale, infinito, appunto.
Per
questo Pasolini ha rimpinzato la sua storia di vicende estreme e
contraddittorie, cercando di essere tutto e il contrario di tutto,
proclamando sfacciatamente ogni ideologia e il suo esatto opposto. E
Moscati si sforza dunque di raccontare tutto PPP proprio nelle sue
contraddizioni, inserendo la sua storia nella Storia più
grande di un Paese che attraversava i cambiamenti più
repentini - cambiamenti dei quali in gran parte Moscati è
stato testimone diretto, e nelle sue testimonianze si sente il
desiderio di non abbandonarsi ai facili revisionismi colorati del
senno di poi.
Moscati,
dimostrando ampia cultura generale e spirito cosmopolita, cita
personaggi della intellighenzia e della politica mondiali, in modo da
incastonare il “fenomeno Pasolini” nel vasto quadro di
cui il poeta e cineasta fu cartina di tornasole, specchio,
precursore. Dal politico al religioso, dall’omosessuale
tormentato al regista rigoroso, dall’intellettuale raffinato al
proletario fiero delle proprie radici contadine, nel saggio di
Moscati ci sono tutti, in ordine sparso, anzi, nello stesso disordine
senza soluzione di continuità con il quale le varie
personalità dell’uomo e dell’artista si sono
manifestate, secondo quella gioiosa incoerenza (ma con profonda
coerenza umana) che l’hanno fatto amare e odiare in ugual
misura. Un uomo contemporaneamente mascherato e trasparente, come lo
descrive Moscati.
Un
credente che passò la vita a tendere “una corda, anzi,
un cordone ombelicale tra il sacro e il profano”, e che fu
crocifisso, come il Cristo popolano de La ricotta,
dall’opinione comune quando quell’episodio del film
collettivo Ro.go.pa.g. fu accusato di “vilipendio della
religione di Stato”. Un ideologo scomodo, che, pur affiliato al
partito comunista, durante i tafferugli sessantottini simpatizzò
con i poliziotti perché “figli di poveri” e provò
invece “immediata antipatia” per i capelloni figli di
borghesi, anzi, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”.
Un “individualista convinto”, come scrive Moscati,
“pronto a correggersi, ma sempre in modo relativo”; un
animo inquieto, come scriveva lo stesso Pasolini, “vissuto
dentro una lirica, come un ossesso”.
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