Questo
articolo è tratto da Reset
n. 93.
Sul mio portatile ho un route-planner. Per
comprendere che ne è stato dell’Europa
negli ultimi cinquant’anni, non devo fare altro
che digitare “Capo Nord” e poi “Tarifa”,
la città più a sud della Spagna. Dopo
15-20 secondi il portatile annuncia il risultato con
delle bandierine: a Capo Nord guido per 700 metri su
una strada locale, procedo due volte a sinistra e dopo
280 metri sono sulla E 69. Dopo altri 5930,20 chilometri,
dalla N5 spagnola svolto a sinistra sulla CN 340, che
dopo 400 metri diventa la Avenida Mirador de los Ríos.
Seicento metri ed entro a Tarifa. Il mio portatile calcola
che la durata del viaggio sarà di 7 giorni, 3
ore e 57 minuti. Non annota controlli alla frontiera.
Seguo il percorso in modo preciso, 5931 chilometri:
cinque passaggi di frontiera, ma nessuna sosta per i
controlli. Potrei passare per Stoccolma, Copenaghen,
Amburgo, Bruxelles, Parigi, Madrid – e nessun
passaporto. Cinquant’anni fa nessuno avrebbe ritenuto
possibile quello che oggi è diventato naturale
per noi tutti: un’Europa senza frontiere.
Una
volta Heinrich Mann ha sostenuto che il sentimento comunitario degli
europei è un’invenzione dei poeti. Può aver
esagerato, ma è evidente la determinazione con cui, negli
scorsi duecento anni, proprio i letterati si siano pronunciati a
favore dell’Europa. Erano decenni avanti rispetto ai politici.
Quando nel 1851 Victor Hugo, davanti all’Assemblea nazionale
francese, propose un’Unione dei paesi europei democratici, non
si trovò neanche un deputato che lo avesse preso sul serio. Il
discorso di Hugo affondò nelle proteste e nelle risate di
scherno dei suoi colleghi.
Ancora, nel 1932, Stefan Zweig scrisse che l’Europa aveva raggiunto “di
nuovo, finalmente, uno degli apici dell’umanità
europea”. Zweig non ignorava affatto la potenza
delle forze nazionalistiche, “la forza dei piccoli
interessi dai pensieri brevi che combattono le grandi
idee necessarie, la violenza dell’egoismo contro
lo spirito della fraternizzazione”, come la chiamò.
Che mai “l’isolamento tra Stato e Stato,
in Europa” era stato “più forte,
più veemente, più consapevole, più
organizzato di oggi”. Eppure Zweig avvertiva che
l’Europa, dopo una lunga epoca di brutalità
e alienazione, per la prima volta tornava ad essere
“una comunità”: “Credo che
sentiamo oggi, tutti e ovunque, l’elettricità
che si sviluppa dall’attrito degli opposti. Sentiamo
tutti, fin dentro i nostri nervi, che nei prossimi anni
una delle due tendenze dovrà avere definitivamente
il sopravvento. Quale vincerà? L’Europa
continuerà la propria autodistruzione o saprà
unirsi?».
Zweig non si faceva illusioni su quale fosse, nel 1932,
il rapporto di forze tra i particolarismi nazionali
e l’idea sopranazionale europea, tra il rancore
e la visione di una varietà culturale e linguistica
all’interno di una struttura politica comune.
La fede di Zweig nell’Europa non nasceva dall’analisi
dell’attualità politica, ma dalla disperazione
causata da essa. La sua perorazione europeista non era
realistica, per il 1932, ma messianica. Zweig, come
scrisse egli stesso, credeva “nell’Europa
come in un Vangelo”. Metteva in conto che si sarebbero
dovuti aspettare decenni prima di vedere l’Europa
unita, tanto che la sua generazione ne sarebbe rimasta
esclusa. Un’autentica convinzione, per riconoscersi
vera e giusta, non aveva però bisogno della conferma
della realtà: «E così anche oggi
a nessuno può essere impedito di scrivere una
lettera come se la propria patria fosse l’Europa,
di definirsi cittadino di questo ancora inesistente
Stato europeo, e, malgrado ci siano ancora le frontiere,
di sentire come una cosa sola, fraternamente, il nostro
molteplice mondo”.
Una libertà non scontata
Nel 1934 Stefan Zweig dovette fuggire dall’Austria,
e il 23 febbraio 1942 si uccise in Brasile. Oggi l’Europa
è una realtà. Zweig si riteneva così
utopico, e invece ha avuto ragione su quanti lo costrinsero
alla morte. Stefan Zweig ha vinto, e con lui Heine,
Nietzsche, Benjamin, i fratelli Mann, Hesse, Hoffmansthal,
Tucholsky, Döblin, per citare solo alcuni degli
scrittori di lingua tedesca che, per la loro dedizione
all’Europa, nel migliore dei casi sono stati derisi
dal proprio tempo, quasi sempre sono stati scacciati
e sono stati perfino ammazzati.
La libertà e la libertà di movimento di
cui oggi godiamo non è naturale, né dal
punto di vista della storia europea né da quello
del nostro mondo contemporaneo. Io mi arrabbio se oggi
l’Europa viene ridotta alle sovvenzioni agricole,
alle zone di libero scambio e a una straripante burocrazia.
Mi fa paura se sempre più spesso si parla del
progetto europeo in modo sprezzante o annoiato, e se
sempre più partiti di centro conducono campagne
elettorali con toni euroscettici. Non riesco a capacitarmi
del fatto che la Costituzione europea sia stata fatta
fallire in Francia e Olanda in modo così sconsiderato.
Viaggiamo senza passaporto tra paesi che si sono combattuti
fino alla morte appena pochi decenni fa, e da sessant’anni
regna la pace in Europa centrale e occidentale. Mi è
noto quanto fragile sia questa pace in alcuni luoghi:
l’anno 2005 ha in calendario i dieci anni del
massacro di Srebrenica.
Come per tanti intellettuali ebrei del suo tempo, per
Zweig l’Europa era più di un progetto o
di una idea grandiosa. Era una necessità vitale.
Come ebreo non trovava spazio nei nazionalismi europei.
Poteva germogliare solo in un’umanità transnazionale,
che fosse unita dai valori, dal processo della secolarizzazione,
e non da un’etnia, una lingua o una religione.
Anche oggi l’entusiasmo per l’Europa cresce
«fuori» dall’Europa: nell’Est
Europa, nei Balcani o in Turchia, tra ebrei o musulmani.
Chi vuole sapere quanto valga questa creatura iperburocratizzata,
apatica, sazia, immobile e indecisa chiamata Unione
Europea, deve andare lì dove essa finisce.
Io, per scrivere questo discorso sull’Europa,
l’ho fatto. Tre settimane fa, quindi prima che
lì gli eventi precipitassero, sono andato a trovare
quanti hanno rinunciato a tutto soltanto per arrivare
in Europa: i profughi che stanno alle porte dell’Unione
Europea. Questa mattina sono tornato dal Marocco. Vorrei
raccontarvi di questo viaggio e anche dei libri che
porto in valigia. C’è un libro giovanile
di Roth che descrive l’Europa tra le due guerre
mondiali, un mondo sconvolto, tanto che i suoi abitanti
si trovano all’improvviso in luoghi sempre nuovi,
fuggono in continuazione, si ritrovano in situazioni
sempre nuove. Mi riferisco al suo romanzo Hotel Savoy,
del 1929. La sfarzosa facciata dell’hotel, da
cui prende il nome il romanzo, testimonia ancora l’epoca
prima della guerra. All’interno ospita una varia
schiera di esistenze turbate, che si sono adattate alla
precarietà: milionari, bancarottieri, contrabbandieri
di denaro e ballerine.
Cadaveri senza nome
L’Hotel Savoy non appartiene a un’epoca
lontana. Oggi si trova a Tangeri, 30 chilometri a sud
di Tarifa. Non si chiama Hotel Savoy, ma Pensione de
la Paix, Pensione Andalus, Pensione Fuentes, Pensione
Speranza. Davanti all’Hotel Sevilla ho attaccato
discorso con sei ospiti, il più giovane dei quali
aveva appena vent’anni e il più vecchio
forse quaranta. Ho chiesto in giro cosa cercassero in
Europa. Lavoro, naturalmente, una vita normale, e niente
più. Avere un po’ di sicurezza, non dover
combattere ogni giorno da capo per sopravvivere, avere
una chance, poter metter su una famiglia o almeno portare
con sé la ragazza. Auto e vacanze non appartengono
alla vita normale di cui sognano; per loro è
più importante che i soldi bastino per poter
mandare, di tanto in tanto, qualcosa alla famiglia.
Uno di loro tira fuori un foglietto dalla tasca posteriore
dei pantaloni: un certificato di lavoro francese. Lo
ha pagato 700 euro, 700 euro, ma quando con quel foglietto
si è rivolto al consolato francese, i funzionari
avrebbero impiegato pochi minuti per capire che si trattava
di un falso. Ora racimola i soldi per un viaggio in
gommone. Basta con questi compromessi, dice.
Chiedo se qualcuno di loro abbia già provato
a venire in Europa in gommone. Io ci sono salito già
due volte, dice il primo guardandosi intorno. Tre volte,
dice il successivo. Una volta, quattro volte, e così
via. Attraversano lo stretto di notte, vengono acciuffati
dalla polizia spagnola in mare aperto o sulla spiaggia,
e riportati in Marocco.
Molti di voi si ricorderanno le immagini di quel cargo
di profughi sfiniti, di quei 911 passeggeri che il 17
febbraio 2001 approdarono sulla spiaggia di Boulouris
nel Sud della Francia, oppure si ricorderanno della
nave della morte, che nell’ottobre 2003 venne
trainata sulle coste di Lampedusa dalle autorità
italiane: tutti i passeggeri stavano morendo di sete.
È poco noto che oltre l’80% dei profughi
arriva in Europa con piccoli gommoni. Quando i loro
cadaveri vengono trascinati sulle coste europee, tutt’al
più è una notizia per la stampa locale
dei luoghi costieri. Si ritiene che solo un cadavere
su tre venga trovato e registrato, e solo nella zona
dello stretto di Gibilterra sono morti negli ultimi
quindici anni dai tredici ai quindicimila profughi.
Lo stretto è la più grande fossa comune
d’Europa.
I marocchini conoscono bene i pericoli della traversata,
eppure si sono già seduti su quelle barche. E
se muoiono?
«E così sia», dice uno. «Noi
non siamo dei suicidi», aggiunge l’altro.
«Ci sono persone che fanno la traversata in autunno
o in inverno. Questo è un suicidio. Noi cerchiamo
di vedere la cosa realisticamente. Conosciamo bene il
rischio. Se saliamo sulla barca, la possibilità
di farcela deve essere sufficientemente grande, rispetto
al rischio».
«Ma non mettete in conto anche la morte?»,
chiedo.
«È vero, la morte la mettiamo in conto,
ma non è peggio che vivere qui».
Gli altri annuiscono. Stiamo un po’ in silenzio.
Dalla finestra aperta della reception sento che c’è
stato un goal. Champions League, Real Madrid contro
Olympic Pireo. Tutti guardano attraverso la finestra
o la porta, per vedere il replay. Quando si girano di
nuovo verso di me, uno di loro ghigna: «Ecco i
nostri amaliyyât istischhâdiya,
gli attentati suicidi di cui ci macchiamo. Gli europei
pensano che tutti gli arabi siano kamikaze. Sì,
hanno ragione, qui siamo tutti kamikaze. Il paradiso
per cui perdiamo la vita si chiama Schengen».
Uno scambio di ruoli
In Hotel Savoy, nel 1929, Josef Roth ha previsto
il suo futuro, anche se non finì proprio come
Gabriel Dan, l’io narrante del romanzo. Roth,
che nei suoi libri era ricorso continuamente alle storie
bibliche di fuga e cacciata, nel 1933 dovette egli stesso
emigrare in Francia. A Parigi visse in una camera d’albergo,
collaborò con alcune riviste dell’esilio
e divenne un alcolizzato. Il 27 maggio del 1939 morì
per le conseguenze dell’alcolismo al Necker, l’ospedale
parigino per i poveri. Anche alcuni ospiti dell’Hotel
Sevilla non riescono a vivere senza droghe. La loro
vita scorre proprio come il denaro che hanno risparmiato
e preso in prestito per la fuga in Europa. Molti di
loro finiranno per strada. Molti ci sono già.
Alcuni bambini non sono mai stati altrove. Ovunque,
nelle vicinanze del porto, li si vede lungo il mare.
Chiedono l’elemosina, giocano a pallone, osservano
le navi. Ogni notte provano di nuovo a trascinarsi nella
zona portuale, a saltare sopra il recinto, a scavarsi
un buco o a nuotare intorno a un molo. Se ce la fanno
a entrare nel porto si nascondono per lo più
sotto a un camion, e sperano che il giorno dopo riusciranno
a viaggiare, inosservati, su un traghetto. Per l’Europa
sono solo 35 minuti.
Nel mio hotel, che s’affaccia sul porto, ho sentito
ogni notte i cani della polizia di frontiera marocchina,
mentre aspettavano al varco i bambini. E comunque pare
che ci siano bambini che, in continuazione, riescono
a salire sulle navi. Alcuni si attaccano alle navi da
fuori, facilmente, dall’acqua. Non ho idea di
come facciano, ma è una cosa credibile. L’Unione
Europea fornisce al Marocco dei sensori che registrano
il battito cardiaco o il calore corporeo, e così
i bambini non dovranno fare altro che smettere di respirare,
per riuscire a arrivare in Europa. Probabilmente accetterebbero
anche questo. Nelle giornate più limpide dal
mio hotel riuscivo a distinguere l’Europa. Non
capivo. Quante delle sue migliori menti ha perso l’Europa,
perché rimanevano davanti alle frontiere chiuse,
perché non avevano da esibire documenti di riconoscimento
validi, nessun visto, nessuna valuta. Quanti europei
sono sopravvissuti solo perché, sessant’anni
fa, sono potuti passare da Tarifa a Tangeri. Ogni giorno
si svolgono alle frontiere d’Europa e sulle opposte
sponde le stesse drammatiche scene di allora: barche
sgangherate che s’infilano nel mare da un luogo
isolato, cariche di giovani uomini, famiglie, donne
incinte, bambini. Barche che si ribaltano, profughi
che dal mare alto galleggiano fino a che non muoiono
di sete. Ogni giorno degli uomini muoiono alle porte
dell’Europa, perché quanti li assistevano
nella fuga li hanno piantati in asso, perché
sono stati trovati senza documenti di riconoscimento
o con visti falsi. Sono storie che conosciamo. La letteratura
europea ha descritto più volte certe scene. Quasi
tutti i motivi dell’Hotel Savoy di Josef Roth
si trovano oggi nelle pensioni di Tangeri: la ricerca
di lavori occasionali, l’attesa di un trasferimento,
la speranza per dei documenti di riconoscimento, la
vergogna di diventare poveri, l’impegno degli
ultimi beni, il tentativo di vendere la propria anima
o il proprio corpo, la morte in un letto d’albergo
perché i farmaci costano troppo. Grazie alla
letteratura, all’arte, al cinema, abbiamo preso
parte agli innumerevoli destini dei profughi europei.
Perché allora, se oggi ci siamo scambiati i ruoli,
automaticamente gridiamo loro degli insulti: illegale,
criminale, trafficante di uomini, asilo economico, fiumi
di droga, terrorismo, la barca è piena?
“Ritorneranno”
So già che mi si dirà che non si dovrebbero
fare paragoni. Ma io non paragono le cause, io paragono
le conseguenze. Un profugo che annega è un profugo
che annega. Non deve essere perseguitato a causa della
sua razza o delle sue convinzioni politiche, visto che
deve aver avuto ragioni sufficienti per rischiare la
vita solo per trovare scampo in Europa. Chi è
affamato e vuole un pezzo di pane non è un parassita,
e nemmeno un criminale. Rivendica il suo diritto umano
alla vita. Cede al più semplice e spontaneo impulso
proprio di ogni essere umano. Noi impediamo ogni giorno
che degli esseri umani sopravvivano. Noi non cediamo
al più semplice e spontaneo impulso umano di
offrire la mano a chi lotta per la propria vita, ma
a quello di dover pensare a proteggere noi stessi da
chi cerca protezione da noi.
Due settimane fa centinaia di abitanti dell’Africa
nera hanno provato a superare, con scale da loro stessi
fabbricate, i blocchi di frontiera dell’enclave
spagnola Ceuta, sulla costa marocchina. Un paio di profughi
ce l’ha fatta, cinque sono morti, tra cui un lattante.
Dozzine di profughi sono rimasti a terra seriamente
feriti su uno o sull’altro lato della frontiera.
Gli africani affermano concordi che uno dei morti è
stato ammazzato di proposito dai militari di frontiera
spagnoli. Ho raggiunto Ceuta la mattina dopo i fatti.
Duecento metri prima della recinzione della frontiera
ho visto soldati marocchini sul ciglio della strada,
e tra di loro un gruppo di forse 20-25 neri sedevano
per terra tutti ammassati. Gelavano. C’era una
nebbia densa, e la maggior parte non indossava che calzoni
corti e una t-shirt. Il comandante dei soldati è
amichevole, ma dice che non può dare nessuna
informazione e che non potrei nemmeno parlare con gli
arrestati. Tuttavia mi permette di offrire loro delle
sigarette, e intanto riesco a parlarci un po’.
Ma quello che hanno da dire è poco più
di «grazie». Quello che riesco a dire io
è solo che prometto di scrivere della loro sorte.
Cosa dovrei dire? Tutti i presenti sanno cosa succede
ora. I neri vengono internati per un paio di giorni
e poi abbandonati alla frontiera con l’Algeria,
in mezzo al deserto, a 30 chilometri dalla località
più vicina. Ritorneranno. I neri lo sanno, i
soldati lo sanno, lo sa perfino il tassista con cui,
proseguendo il viaggio, parlo dei “poveri cani”.
Ritorneranno. Anche l’Europa dovrebbe saperlo:
ritorneranno. Anche se il filo spinato verrà
tirato su ancora di più: ritorneranno. Anche
se l’Europa sparerà loro: ritorneranno.
Le strutture di frontiera, a Ceuta, ricordano la frontiera
interna tedesca di un tempo: due recinzioni di filo
spinato, alte tre e sei metri, con in mezzo una strada
pattugliata dalle jeep della Guardia Civil. Ovviamente
torre di vedetta, videocamere, strumenti per l’avvistamento
notturno. I neri sanno bene che non arrivano inosservati
oltre la frontiera. Provano ad assaltare contemporaneamente
le recinzioni, e sono così tanti da impegnare
tutte le polizie di frontiera. Quando 500 persone si
avventano sulle recinzioni con le loro scale, in 50
ce la fanno – questo è il calcolo. Ogni
volta ne muoiono un paio, ad ogni assalto gli altri
vengono deportati nel deserto tra il Marocco e l’Algeria,
per ricominciare ancora da capo e bussare di nuovo alle
porte d’Europa, o per meglio dire: per provare
a sfondare le porte. Chi ha visto il sangue sulle recinzioni
di filo spinato non vorrà mai più usare
l’espressione “asilo economico”.
A Tangeri ho parlato con molti neri. Non li si incontra
più negli alberghi, pochissimo per strada. Da
quando l’Unione Europea ha intensificato la collaborazione
con il Marocco, è la polizia marocchina a procedere
contro gli immigrati illegali. Chi è preso senza
documenti viene deportato nel deserto. Per fortuna le
autorità non sono ancora particolarmente coerenti.
Per lo più fanno finta di non vedere.
Aspettando Godot, all’inferno
Adesso i neri vivono soprattutto in campi fuori dalla
città e davanti all’enclave spagnola, nel
bosco, senza nessuna assistenza, senza servizi sanitari,
sotto tende di plastica o sotto il cielo aperto. Per
paura dei bianchi, spesso non fanno entrare nel campo
nemmeno “Medici senza frontiere”. Molti
altri neri si sono immersi nelle periferie di Tangeri
o nelle case private della città vecchia, in
stanze in cui stanno rannicchiati in quattro, otto,
venti, per quanto ho potuto vedere senza corrente e
con delle buche al posto delle toilette. Ogni volta
che è possibile provano a raggiungere la strada,
di solito non alla luce del giorno, per non incontrare
poliziotti. Mi sono seduto vicino insieme a Osman, Stephen,
Osahan e Caesar. Osman ha acceso una candela e mi ha
mostrato il quaderno in cui si era segnato le tappe
della sua odissea, soprattutto le settimane nel deserto,
dopo che i marocchini lo avevano deportato. Ognuno di
loro era stato deportato nel deserto almeno una volta.
Non riesco a immaginare come si possa essere abbandonati
lì, anche se i miei ospiti ne parlano a lungo.
Suona quasi come se facesse parte del loro lavoro, andare
di tanto in tanto con un camion nel deserto e venire
cacciati nel mezzo di un nessun luogo. La maggior parte
ha vissuto già due-tre anni in Marocco. Quando
abitavano ancora nelle pensioni non andava tanto male,
dicono. Adesso tutti i giorni aspettano tra le coperte,
se hanno le batterie ascoltano musica africana da un
mangianastri, e hanno gli occhi persi nel buio. Talvolta
accendono una candela.
Nessuno, tra i turisti europei che ogni giorno passano
da soli o in gruppo per la casa di Osman, Stephan, Osahan
e Caesar, ha potuto sospettare che dietro il muro d’argilla
al primo piano venga recitato Beckett, una rappresentazione
però senza pausa, senza fine e senza luce: Aspettando Godot. Nessuno può aver sospettato: Godot, lo
siamo noi stessi.
Ci sono rappresentazioni occasionali di Aspettando Godot
che vengono recitate in scenografie realistiche. Per
quanto abbia visto messe in scena simili, non mi hanno
mai soddisfatto. Per me i drammi di Beckett sono sempre
appartenuti a un interregno, a un regno tra cielo e
terra. A Tangeri ho scoperto che Aspettando Godot può
essere allestito molto bene anche all’inferno.
Ma purtroppo solo noi non sappiamo vederlo. La scena
non ha luce.
Un ex ministro degli interni olandese, davanti a dei
pastori che hanno offerto asilo in chiesa ai profughi,
ha parlato letteralmente di un “eccesso di amore
verso il prossimo”. Vorrei raccontare un’ultima
storia, quella dei cananei che pregano Gesù di
aiutare un loro figlio (Mt. 15,21-28). Gesù si
rifiuta, perché la sua missione si limita a quanti
appartengono alla casa d’Israele. Sa che la donna
cananea resterà a mani vuote, ma non può
farci niente. Dice che non può aiutare suo figlio.
La donna non smette di implorare l’aiuto di Gesù,
ma Gesù risponde invece con il riferimento “anzitutto
al proprio popolo”. Alla fine però la donna
s’impone, perché non vuole l’intero
pane, ma solo le briciole. Gesù è profondamente
impressionato dalla sua fede: «Ti accada ciò
che vuoi». E accadde una seconda moltiplicazione
dei pani, e questa volta non per Israele, ma per tutti
i popoli.
L’Europa è una terra favolosa per gli europei.
Per quanto siano gravosi i suoi problemi sociali e politici,
mai nella storia di questo continente si è vissuto
in modo più pacifico e tollerante. È molto,
e lo dimentichiamo troppo spesso. Ma non è abbastanza.
Solo se l’Europa è umana con quelli che
non appartengono all’Europa essa è “il
regno sopranazionale dell’umanesimo”, in
cui Stefan Zweig credeva come in un Vangelo.
(traduzione
di Daniele Castellani Perelli)
©
Navid Kermani. L’articolo è uscito sulla «Süddeutsche
Zeitung» il 15-16 ottobre 2005.
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