Parlerò
di una celebre coppia del cinema francese. Il film è
La signora della porta accanto, il regista François
Truffaut. Devo dire che ci sono film che mi piacciono
di più, come Adele H. o Jules et Jim.
Se l’ho scelto, è perché mi ha incuriosita
il modo in cui Truffaut ne ha parlato. Il film si apre
e si chiude con la stessa scena: la macchina della polizia
attraversa le strade della campagna francese. Il finale
è lì sin dall’inizio. Con questo
espediente, la scrittura filmica suggerisce che abbiamo
a che fare con un mistero in piena luce: non
con un mistero alla Hitchcock, o alla Chabrol per intenderci,
ma con quel mistero che è tanto più enigmatico
quanto più è quotidiano. Il mistero del
desiderio – in particolare femminile, con le coloriture
a volte terribili, o poco comprensibili che esso può
assumere – e il mistero della coppia. “È
una storia – dirà Truffaut – vista
soprattutto dalla parte della donna. Il problema di
fondo però è questo: non esiste un punto
di vista esterno per raccontare quello che succede in
una coppia di innamorati. L’amore è folle
solo negli occhi di chi guarda la passione senza viverla.
Chi la vive non si crede folle, anzi non lo è”.
Il
film racconta dell’incontro tra due coppie: quella formata da
Bernard ed Arlette e da Mathilde e Philippe. Queste coppie sono sorte
sulle scia della passione che aveva unito Bernard a Mathilde e che si
era interrotta in modo violento (un aborto mai chiarito, dolorosi
malintesi che fanno ritorno in poche battute. Lui: “Dicevi di
non volere questo figlio”. Lei: “Solo perché tu mi
dimostrassi di volerlo davvero”. Cioè senza la marca del
desiderio dell’uomo quel figlio perdeva per lei ogni senso). A
distanza di otto anni, i due si ritrovano vicini di casa in una
tranquilla cittadina di provincia dove le giornate sono movimentate
solo da qualche festa e dalle attività del circolo del tennis.
Ma questi momenti sociali sono attraversati da un crescente disagio,
da un senso di pericolo che rivela come, per Bernard e Mathilde, sia
difficile condividere una logica “normale” (non per caso,
sarà dopo uno di questi incontri che Mathilde è
ricoverata in clinica).
In
questo film dunque la passione si configura come un ritorno. Un
passato che torna a bussare alla porta, torna inquadrato nelle
cornici di quelle finestre attraverso cui, anni prima, Bernard ha
visto Mathilde e se ne è innamorato. Le tracce di quell’unione
si presentano, ora, nelle cornici di alcune fotografie. La prima foto
che Truffaut ci passa è una foto non scattata: quasi
all’inizio del film, un ipotetico fotografo chiama i coniugi
per una foto di famiglia, ma ci avverte: la foto non può
essere scattata, cioè, quella della famiglia ideale è
una storia che qui non sarà scritta, che non farà
sintomo. La seconda foto, trovata da Philippe Bauchard – il
marito di Mathilde – svela all’uomo su quale passato
continui a scriversi il presente. L’uomo è preso
da smania di sapere ed imprime alla storia un’accelerazione. La
terza fotografia, scattata durante la festa, ritrae Mathilde
bellissima e Bernard con una faccia da funerale a dirci quale
direzione ha preso la storia. Infine, proprio da una fotografia,
Mathilde ritaglierà le loro due immagini gettandole nel fuoco.
Pensavo
da molto tempo – ha detto Truffaut – ad un film come
questo che rispondesse alla domanda ‘È possibile vivere
due volte una passione d’amore?’ Non saprei dirlo di
preciso, ma in questo caso ho deciso di sì, fino alle
conseguenze estreme”. Spiega: “Per me un lieto fine non è
una coppia che si ritrova, che si riunisce, ma una coppia che va fino
in fondo”. Ho trovato nel film almeno due momenti in cui
questo andare fino in fondo configura un modo specifico del
godimento femminile: il primo di questi momenti è ambientato
in un parcheggio sotterraneo. Dopo una serie d’incontri
mancati, Bernard è finalmente accanto a Mathilde, la chiama
per nome e la bacia. Mathilde sviene e quando si riprende è
spaventata dall’accaduto, come se la congiunzione tra la voce
dell’uomo che la chiama per nome – perché è
questo che qui mi sembra posto in risalto – e le sensazioni del
suo corpo portasse in sé la forma di un vuoto, favorisse
un’apertura: un venir meno. Il secondo momento è
costituito dall’ultima scena, quella in cui la donna, al
momento dell’orgasmo, uccide l’uomo e poi si dà la
morte.
Mi
sembra di rintracciare in queste due scene attimi di congiunzione
dell’amore con il godimento. Ma: cos’è che
chiamiamo amore? Che strade sono quelle, spesso devastate, in cui si
arriva a perdersi (alienarsi) nelle parole di un altro? E perché
quello spazio intimo che tanto desideriamo creare è invece il
luogo in cui si fa invece esperienza, attraverso l’altro, di
qualcosa d’irriducibile? C’è sempre un margine di
sconosciuto tra due persone. Così può succedere che una
donna dica che quello sconosciuto è proprio suo marito. Di
solito, usiamo la parola amore – storia d’amore –
per indicare la vicenda complessa tra un uomo e una donna che mette
in azione il desiderio e quell’impossibile che sembra così
intimo alla sua struttura. Lacan era solito dire che l’amore
viene in luogo di quest’impossibile, anzi, che all’amore
“è necessaria questa radice d’impossibile”
alla quale lui ha dato un nome.
L’amore
è forse amore di un nome? Se Mathilde sviene quando Bernard le
sussurra il suo nell’orecchio, Philippe è disperato
perché il nome che Mathilde pronuncia in sogno non è il
suo. È possibile dar nome alla verità di certi
desideri? A detta di Lacan, la verità può dirsi solo a
metà (mi-dire). E una divisione è anche quella
che attraversa la donna – facendo di lei un essere a metà,
pas-toute. Quando Mathilde è distesa in un letto della
clinica, Bernard le chiede: “Devo restare o andarmene?”.
Mathilde si limita a guardare suo marito attraverso il riquadro della
finestra. Bernard traduce “né l’uno né
l’altro”. Potremmo definire questa posizione della donna
entre-deux, tra Bernard e Philippe come tra due tipi di
godimento. Certo, già il luogo in cui si trova, la clinica, è
una sorta di entre-deux, uno di quei luoghi in cui la vita
appare in una prospettiva diversa: tra dentro e fuori, tra normalità
e segregazione, tra stati d’incoscienza (la cura del sonno) e
stati di sospensione del farmaco, tra visite e momenti solitari.
Tutto accade – ci ha avvertiti da subito Truffaut – tra
due case.
Usciamo
dalla clinica e torniamo per un attimo al circolo del tennis, luogo
nevralgico dove ci si incontra, si gioca, si stabiliscono relazioni,
anche d’amore, dove il passato fa ritorno via lettera e
dove la menzogna serve alla verità. Ne è proprietaria
Odile Jouve – l’alter ego di Mathilde – e non
perché sia un’abile tennista. Ci dice ironica: cambiate
posizione ed è altro che vedrete. La telecamera si abbassa e
scopriamo che Odile ha una protesi alla gamba, segno fisico di un
amore non abbastanza fatale, che le ha fatto preferire un salto nel
vuoto ad un abbandono che l’ha ridotta ad essere, come dice,
solo “un pacco di biancheria sporca”. Non diversamente,
Mathilde dirà: “Non valgo niente: c’è
qualcosa di me che respinge la gente”. Non di rado,
l’espressione del desiderio femminile s’intreccia con un
acuto senso, meglio, con la paura di un abbandono, di rigetto –
paura che va riconosciuta anche nella tendenza opposta a rifiutare,
rigettare, o anche a rovinare tutto, a mandare tutto all’aria
come si dice.
Soffermiamoci
dunque sulla coppia formata da Mathilde ed Odile perché le
loro storie presentano una serie di tratti affini che Truffaut annoda
attorno ad una macchia di sangue. Non dimentichiamo che anche
Mathilde è una sopravvissuta, lei porta sui polsi i segni del
tentato suicidio. Entrambe le donne affidano il loro messaggio a
quelle canzoni che tanto più stupide sono tanto più
sono vere. Le parole che si addicono ad Odile sono: “Ora mi
ritrovo come Edith Piaf, ricorda? Niente di niente e non rimpiango
niente”. Le canzoni scelte da Mathilde mettono ancora in
circolazione questo niente, ma lo complicano: Non devi lasciarmi;
Lascia che io diventi l’ombra della tua ombra; Senza
di te sono una casa vuota; Senza amore non siamo niente.
Quel rien che Lacan ha considerato, per un periodo, l’oggetto
che causa il desiderio puro, quello che può sconfinare sulla
morte e che permette di vedere la vita solo da quella prospettiva
(entre-deux): “L’amore è realmente
l’intermediario – diceva – attraverso cui la morte
si unisce con il godimento, l’uomo con la donna, l’essere
con il sapere – perciò non può definirsi che come
fallimento”. Mathilde dice al medico: “Se quel che dicono
i libri fosse vero, io dovrei innamorarvi di voi, invece niente. È
chiaro che c’è qualcosa che non funziona”,
ponendogli così una questione solo in apparenza negativa e che
tanto spesso affiora – come un nodo essenziale – sul
lettino dello psicanalista. Forse per questo Lacan sosteneva che il
transfert introduce all’essenza dell’amore. Ma sosteneva
anche che l’amore è l’amor cortese, quello che ha
dettato all’Occidente la grammatica del suo linguaggio e che
tanto deve ad Ovidio.
E
proprio da Ovidio viene l’epigrafe ideale suggerita da Odile:
Nec sine te nec tecum, vivere possum o Né con te né
senza di te. Essa descrive l’impossibile che circola nella
relazione tra un uomo e una donna. Non c’è rapporto
sessuale: è questo il modo in cui Lacan ha dato nome a
tale impossibilità. Infatti, nonostante tutto ciò che
possiamo inventare, qualcosa resta irriducibile ad una scrittura: non
fa traccia. E se per Lacan la scrittura è “ciò
che il linguaggio lascia come traccia”, allora è proprio
nell’illusione di un incontro di tracce che –
a suo dire – si realizza la supplenza a quanto d’impossibile
c’è nel rapporto tra uomo e donna. Tracce, specifica
Lacan, di tutto ciò (sintomi, affetti) che segna l’esilio
dal rapporto sessuale, l’esilio non del soggetto, ma del
parlante. Vale a dire che nel campo del sessuale c’è un
vuoto, un tassello bianco, un trou rispetto al quale c’è
il “modo maschio di girare intorno” e l’altro
che Lacan designa come il “modo femmina”. C’è
una dissimmetria tra uomo e donna - dipende da una diversa iscrizione
nel linguaggio e causa l’eterogeneità delle due
posizioni riguardo il godimento, il desiderio, il rapporto con la
parola e il modo di vivere l’amore – che rende
disarmonica la congiunzione tra uomo e donna. All’inizio i
protagonisti non arrivavano mai a toccarsi a guardarsi a trovarsi
nello stesso momento. Nei dialoghi tra i personaggi c’è
una sfasatura che filtra in frasi come: “Stona con l’ambiente.
Che è venuta a fare qui questa donna?”, “Non
eravamo fatti per stare assieme. C’è qualcosa di lei che
mi ha sempre irritato”, “È il genere di uomo
facile da avere, impossibile da tenere”. Lui: “Non trovi
che ora c’intendiamo meglio?”, e Lei: “No, no: io
non trovo niente e non cerco niente”.
In
questo spazio sorgono le illusioni dell’amore: “Qualcosa
s’incontra, che può variare infinitamente quanto al
livello del sapere, ma che per un istante dà l’illusione
che il rapporto sessuale cessi di non scriversi? Illusione che
qualcosa non soltanto si articoli, ma si iscriva, si iscriva nel
destino di ognuno, per cui, per un momento, un momento di
sospensione, ciò che sarebbe il rapporto sessuale trovi
nell’essere che parla la propria traccia e la propria via di
miraggio”. Lacan consigliava di chiarire la faccenda del
rapporto sessuale “dal lato donna” perché, diceva,
è partendo dall’elaborazione del pas-toute che si
tratta di aprire la via. Per un fatto di struttura, il desiderio di
una donna non è tutto regolato dalla funzione fallica. Quindi,
il desiderio femminile non si riassorbe tutto nella scena del
fantasma.
Per
questa via arriviamo agli ultimi fotogrammi ambientati in una casa
vuota. Qui un fantasma si porta oltre la propria cornice e conflagra
nel reale: in questa conflagrazione sta forse quel fino in fondo
che Truffaut chiama lieto fine. Travalicare questi limiti, è
travalicare quelli istituiti dalla funzione del padre. Ma se è
vero che il padre, attraverso la funzione fallica simbolizzata dal
patronimico, è colui che separa dall’incesto, allora a
cosa risponde questa potente aspirazione ad andare oltre che
irrompe al momento del godimento sessuale? È possibile dar
nome ad un godimento che si porta oltre i limiti che il Nome
istituisce? Più spesso, in vero, possiamo solo denominare
alcuni effetti di questo sconfinamento: una tristezza imprecisata;
uno stato beante che rasenta il dolore, o il senso di un’inquietante
prossimità alla morte – tratti che caratterizzano
infatti la vicenda di Mathilde. Ma possiamo situare qui anche quello
stato definito da Lacan “di oblio di sé” che
conferisce alla condotta di chi è “preso” da
passione qualcosa di spietato, d’inumano: “L’uomo
aspira ad annientarsi per iscriversi lì come essere. La
contraddizione nascosta è che l’uomo aspira a
distruggersi nel momento stesso in cui si eternizza”. “Data
la posizione dei corpi - recita laconico il referto - c’è
da supporre che quell’uomo e quella donna abbiano avuto un
rapporto sessuale prima di morire”. Ma, aggiunge, i due non
saranno sepolti nello stesso luogo.
Questo testo rappresenta l’intervento dell’autrice al convegno
“Coppie” (svolto a Roma dal 17-18 febbraio
2006).
Altre informazioni sul sito www.lacanlab.it
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