Charles
Dickens
Impressioni italiane
Robin Edizioni
Pag. 352
Euro 14,00
A Charles Dickens l’Italia non è mai
piaciuta. Le sue “Impressioni italiane”,
finora inedite in Italia – ci fu una traduzione
parziale negli anni venti – aprono, nell’animo
di chi legge, un ampio spazio di perplessità
ed anche di tristezza. Il disgusto che Dickens esprime
liberamente nel descrivere i luoghi popolari, poveri,
degradati del nostro Paese nella prima metà dell’Ottocento,
priva la bellezza d’ogni possibilità di
riscatto. Spesso le sue descrizioni sono colme di ironia
che però sfocia nel disgusto. “Dickens
vedeva l’Italia con gli occhi dell’epoca
– spiega Claudio Maria Messina, curatore ed editore
delle Impressioni – la vedeva frantumata perché
il suo viaggio è avvenuto prima dell’unificazione.
Ma ci sono dei luoghi che lo fanno sentire molto partecipe,
come le cave di marmo di Massa Carrara. Quello è
un pezzo di letteratura straordinaria”.
Nell’osservazione della fatica umana e dell’immenso
rischio che si subisce nel portare alla luce il marmo
nelle miniere delle alte colline a strapiombo, lo scrittore
inglese percepisce passione e stupore, tanto da rimembrare
il viaggio di Simbad il Marinaio ne le “Mille
e una notte”. Qui, a Carrara, le parole si ripetono
in un’enfasi crescente, le associazioni mentali
si moltiplicano, l’ironia muore per far nascere
momenti di lieve poesia. Una poesia che diventa delirio
nella narrazione di Venezia, la città che Dickens
percepisce oniricamente, un sogno italiano, come
è scritto nelle “Italian Pictures”.
Un luogo così in bilico tra Oriente ed Occidente,
così imponente nel suo patrimonio monumentale
eppure così decadente, stordisce i sensi dello
scrittore. Ma il delirio è cosciente. Venezia
soffoca Dickens con la sua distesa d’acqua: “tutt’intorno
alle banchine ed alle chiese, ai palazzi ed alle prigioni,
imbevendone i muri e sgorgando dai segreti luoghi della
città, s’insinuava sempre; silenziosa e
guardinga si avvolgeva tutt’intorno ad essa, con
le sue molteplici spire, come un vecchio serpente”
.
Forse è il fascino viscerale di questa Italia
ottocentesca, che colpisce e ferisce aldilà delle
opere d’arte, a sconvolgere il turista inglese,
il cui viaggio italiano parte da Genova. La Liguria
lo folgora per la bellezza della sua riviera di levante,
verso La Spezia, dove osserva il mare in burrasca, schiumoso,
che va a morire sugli immensi scogli bruni. Ma: “Molto
dell’aspetto romantico delle belle cittadine e
dei villaggi su questa magnifica strada scompare quando
vi si entra, perché parecchi sono veramente miserabili.
Le strade sono strette, buie e sporche, gli abitanti
sparuti e squallidi e le vecchie grinzose”. Insomma,
la natura e Palazzo Peschiere dove Dickens alloggia
nel periodo ligure straripano di bellezza, ma la gente,
i vicoli, il linguaggio, tutto questo pare irritarlo.
Invece, città come Mantova, Ferrara, Pisa,
Milano e Verona gli piaceranno moltissimo. Ne descrive
con ironia sincera gli spazi popolari, e con delizia
il percorso per Mantova e l’anfiteatro veronese.
Ferrara è fantastica e spettrale, qui la rovina
della peste evidenzia la bellezza dei castelli e dell’arte
tutta, scevra da ogni contaminazione carnale: “Una
città di morte, senza un solo sopravvissuto”.
Bologna è tenebrosa, per i suoi portici, la sua
antichità, per gli edifici sacri: “C’è
un che di serio e di dotto in città”, scrive
Dickens. A Milano ironizza sulla nebbia (“Era
così fitta che la guglia del famoso Duomo poteva
anche essere a Bombay”), ma ne ammira i luoghi
d’arte, alcuni pieni di mistero e morte, altri
magnifici come il refettorio del cadente convento di
Santa Maria delle Grazie che ospita l’Ultima Cena
di Leonardo, un dipinto che definisce perfetto ma danneggiato
dall’incuria, dall’umidità, dal tempo.
Questa dialettica d’osservazione rimane pressoché
costante per tutto il viaggio, almeno sino a Roma. Da
lì in poi ci sarà una preponderanza del
rigetto verso tutto ciò che è troppo vivo,
carnale, sanguinante, sporco, viscerale. Il sud genera
nello scrittore delle reazioni molto forti. Roma è
sì maestosa ma subisce la sua storia violenta.
Il Colosseo “si erge tra le altre rovine come
una montagna tra le tombe (…) una rovina, Dio
sia ringraziato!”. La città eterna è
bella ma spaventosa. Dickens si immobilizza sull’intenso
contrasto, non riuscendo a cogliere in esso l’armonia
e l’incanto. Ma anche in questo fu uno scrittore
sensibile, perché percepì con forza la
dolorosa dicotomia tra vita e morte, tra bellezza e
degrado, tra passato e presente, non riuscendo però
a fonderle e quindi a rilevare l’armonia nella
dissonanza.
“ Dickens non è Goethe – dice Claudio
Messina – non è neanche Hesse che vedeva
l’Italia con gli occhi di un giovane tedesco innamorato
della bellezza straordinaria. Dickens trova l’Italia
buffa e il suo è sempre l’occhio di un
inglese che ha una visione coloniale”. E così
il viaggio nel sud italiano ed in particolare a Napoli,
diviene un “rapido diorama”, una veduta
pittoresca ma intensamente drammatica, a tratti aggressiva.
Dickens scrive all’amico Forster: “ Che
cosa non darei perché solo tu potessi vedere
i lazzaroni come sono in realtà: meri animali,
squallidi, abietti, miserabili, per l’ingrasso
dei pidocchi; goffi, viscidi, brutti, cenciosi, avanzi
di spaventapasseri!”. Leggendo queste parole viene
spontaneo ricercare le generose tendenze umanitarie
del narratore inglese dall’infanzia povera e dolorosa. L’atteggiamento di Dickens è controverso,
“forse – scrive Messina – Dickens
rimane chiuso entro i limiti di quella piccola borghesia
alla quale apparteneva la sua famiglia d’origine,
per cui l’infimo proletariato, e a maggior ragione
quello napoletano, gli ispira forse pietà ma
anche ribrezzo; e non a caso la descrizione di questi
quartieri bassi come di quelli londinesi è piena
di uno smascherato disgusto”. Insomma, lo sguardo
di Dickens rimane imprigionato in questa sorta di “non
visione” che nasce, probabilmente, dal profondo
delle sue fragilità, dall’ancestralità
dei suoi timori. Timori che solo in parte si dissolvono
nel racconto delle suggestive gite agli scavi di Pompei
ed Ercolano, al monte Vesuvio. Tant’è che
lo scrittore decide di non proseguire il suo viaggio
verso il sud e la Sicilia.
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