Cinema e
solidarietà s’intrecciano nell’opera
All the invisibile children, film già
in programmazione nelle sale italiane. “Il Programma
Alimentare Mondiale assiste sedici milioni di bambini
nel Sud del mondo con i programmi di alimentazione scolastica.
Dar da mangiare a un bambino a scuola costa solo circa
30 euro all’anno - spiega Vichi De Marchi, Portavoce
italiana del World Food Programme - Mandare i bambini
a scuola significa anche creare generazioni più
istruite, una molla potente per poter uscire dalla povertà.
Cercheremo di replicare questo in modo più mirato
e complesso, abbracciando vari settori, proprio con
il fondo All the invisibile children. Il primo
paese in cui abbiamo scelto di intervenire è
il Niger, che vive una situazione drammatica da un punto
di vista sia dell’alimentazione che della salute”.
Questa la missione di un progetto, in collaborazione
con la Cooperazione Italiana per lo Sviluppo, che punta
a intensificare l’azione internazionale e a sensibilizzare
il mondo tramite un racconto cinematografico.
Silenziosi e invisibili, ridotti a numeri vertiginosamente pericolosi. Vichi
De Marchi dà le proporzioni della crisi. “Trecento milioni di bambini
in forme diverse non hanno i diritti fondamentali, quello del cibo, dell’istruzione,
della salute. Cento milioni di bambini non sono mai entrati in un’aula
scolastica. Si tratta di numeri imponenti. Sia nel mondo occidentale che nel
mondo dello sviluppo ci sono bambini che non hanno diritti. Parliamo fondamentalmente
di questo”. E a far parlare le storie di tutti i bambini invisibili si
sono impegnati sette registi provenienti dal panorama internazionale. All
the invisibile children è un film a sette episodi, in cui i protagonisti
sono proprio loro. Un’idea nata quattro anni fa a cui hanno partecipato
Mehdi Charef, Emir Kusturica, Spike Lee, Katia Lund, Jordan e Ridley Scott,
Stefano Veneruso e John Woo.
Poliedriche rappresentazioni in cui emergono diversi sentimenti e la differenza
nel disagio comune. “Il film è a sostegno di questo progetto, ma
i registi hanno avuto la libertà di raccontare l’infanzia invisibile,
quella priva di diritti che non vediamo”, aggiunge Vichi De Marchi. E’
inutile nasconderlo, il risultato è commuovente e centra perfettamente
l’obiettivo di muovere le coscienze attraverso un viaggio, a tratti ironico,
in altri consapevole, in altri ancora drammaticamente realistico, in un evidente
disagio che appare, ai giovani protagonisti di queste storie, fin troppo naturale.
Si parte dal cuore dell’Africa, con Tanza di Mehdi Charef, e sulla
poesia del paesaggio e dei colori del deserto in controtempo corrono i bambini
soldato. Non è un gioco, né una guerra di bottoni, ma la guerriglia
per la liberazione nazionale.
Il regista traspone nel film i ricordi della propria infanzia in Algeria e
così per conoscere Tanza, il giovane protagonista, seguiamo un elmetto
che galleggia spinto dalla corrente di un fiume. Due i nuclei fondamentali del
racconto: un’infanzia serena dimenticata, che ritorna alla memoria nel
momento più drammatico del film, e la guerra che distrugge la differenza
tra adulto e bambino, portandosi via prima la paura di morire e poi la vita
stessa.
L’ironia e l’apparente ambiguità
del giudizio sono invece il velo che Emir Kusturica strappa in questo suo Blue
Gypsy. Il preludio alla condizione del protagonista è nella spassosa
scena iniziale: lo scontro chiassoso tra un funerale e un matrimonio. Nel corto
si ritrovano i suoi motivi poetici principali, quasi si riscoprono, incarnati
dal piccolo Uroš che, appena uscito da una casa di correzione per giovani
criminali, viene costretto dal padre sornione e violento a un altro furto. L’unica
alternativa è quella di tuffarsi nuovamente, senza alcuna metafora, nel
penitenziario che, nel disperato paradosso della vita di strada, da luogo di
detenzione diventa porto sicuro per tutti quei ragazzi in balia di un futuro
senza speranze. Una forte verve comica corre nel ritmo delle immagini: la chiassosa
corte dei miracoli del penitenziario e la famiglia del protagonista, banda musicale
organizzata per la piccola truffa, portano alla luce una realtà di sole
sfumature, tra il bene e il male, l’onestà e corruzione. Uroš
è, come un equilibrista, in bilico nel circo della sopravvivenza.
Il dolore
dell’infanzia non riguarda solo quei territori segnati dalla fame e dalla
guerra, ma anche le pieghe di povertà dell’industrializzazione,
delle metropoli del benessere. Spike Lee in Jesus children of America racconta
un nuovo ghetto di Brooklyn , quello di una bambina, Blanca, che inconsapevolmente
ha contratto il virus Hiv dai genitori tossicodipendenti. E’ una storia
pregna di riconoscimento, di autocoscienza, di violenza nella violenza, di grande
impatto e commozione. “E’ una realtà drammatica che c’è
nel mondo occidentale come nel Sud del mondo, dove le proporzioni sono ancora
maggiori. Ha raccontato questa storia per mostrare uno spaccato dell’infanzia,
di un’infanzia di una comunità di immigrati”, commenta Vichi
de Marchi. E di capitale in capitale, di ghetto in ghetto, si scende con Katia
Lund nel cuore delle favelas di San Paolo dove Bilu e João corrono
nella loro giornata senza fine, raccattando i residui della civiltà,
dalle lattine al cartone. La coregista dell’indimenticabile City of
God, non perde il ritmo e segue il tempo irrefrenabile del lavoro minorile.
Compone un film sensibilissimo e divertente nelle ambientazioni, nelle interpretazioni
vivaci dei due piccoli attori protagonisti, seguiti dalla camera e da una musica
incessanti e frenetiche, approfondisce e amplifica la folle corsa dell’infanzia,
motivo comune a tutti i racconti di questo film.
La
chiave di All the invisibile children, lo spirito che ha
accomunato il lavoro di questi sette autori nell’impegno,
sembra invece essere racchiusa in Jonathan di Ridley e Jordan
Scott, cortometraggio diretto a quattro mani dal regista inglese e da
sua figlia. Un fotografo di guerra, attraverso gli incubi generati
dal lavoro, si riconosce bambino davanti al terribile dovere di
raccontare attraverso le immagini la brutalità del mondo. Ne
esce un racconto onirico che spiega chiaramente le motivazioni
profonde di chi ha scelto per lavoro la ricerca della testimonianza.
Un film sensibile e profondo. E poi c’è Napoli e le sue
mille periferie attraversate in lunga corsa da Ciro. Una
storia in flashback di Stefano Veneruso, con la partecipazione alla
fotografia di Vittorio Storaro, in cui compare, tra i luoghi comuni
di Piazza del Plebiscito, anche Maria Grazia Cucinotta, coproduttrice
di tutto il progetto insieme al regista.
Una piccola opera di denuncia che punta il dito sui diritti negati anche nel
nostro paese: “Racconta la difficoltà di crescere per un ragazzino
napoletano che vive una condizione familiare anche di grande disagio. Chiaramente
il Programma Alimentare Mondiale non interviene in quelle situazioni perché
il suo ambito è quello del Sud del mondo, ma sicuramente anche in Occidente
ci sono molti bambini invisibili e sono molti gli interventi che vanno fatti”
spiega la Portavoce del World Food Programme. A chiudere John Woo che in Song
Song and Little Cat aggiorna i temi della favolistica per comporre un cortometraggio
dalle tinte melò. Due bambine, una ricca e una povera, le cui tristi
storie si intrecciano legate da due disagi differenti eppure comuni. Sullo sfondo
la nuova Cina e lo sfruttamento del lavoro minorile in Oriente.
All the Invisibile Children
Regia: Mehdi Charef, Emir Kusturica, Spike Lee, Katia Lund, Jordan e Ridley
Scott, Stefano Veneruso e John Woo.
Con: (Tanza) Adama Bila, Elisée Rouamba, Rodrigue Ouattara,
Ahmed Ouedraogo, Harouna Ouedraogo, (Blue Gypsy) Uroš Milovanovic,
Dragan Zurovac, Vladan Milojevic, Advokat Goran R. Vracar, (Jesus children
of America) Hanna Hodson, Andre Royo, Coati Mundi, Hazelle Goodman, Damaris
Edwards, (Bilu e João) Vera Fernandes, Francisco Anawake De
Freitas, (Jonathan) David Thewlis, Kelly macDonald, Jordan Clarke,
(Ciro) Daniele Vicorito, Emanuele Vicorito, Maria Grazia Cucinotta,
Peppe Lanzetta, Ernesto Mahieux, (Song Song and Little Cat) Zhao Zicun,
Qi Ruyi, Wang Bin, Jiang Wen Li.
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