Monaco 1972,
la delegazione olimpica israeliana dopo un sequestro
durato ventuno ore è massacrata da un gruppo
terroristico palestinese. Si tratta di un nucleo armato
che si è dato il nome di Settembre nero, nato
dopo l’espulsione dell’Olp dalla Giordania
nel settembre del 1970.
Con le immagini di questa tragedia, trasmesse in diretta
dalle tv di tutto il mondo ha inizio quest’ultima
fatica del prolifico Spielberg. Un film nato quasi in
segretezza, discusso ancor prima che fosse proiettato
e ora nella rosa degli Oscar con cinque nomination.
Frammenti di memoria che ritornano in immagini interrotte
che con evidenza hanno ossessionato il regista ora diventano,
sulla pellicola, l’ossessione del protagonista,
in ripetuti flash back, e leit motif della
violenza. Avner, giovane ufficiale dell’esercito
è incaricato dal Mossad, i servizi segreti israeliani,
di giustiziare i presunti responsabili del massacro
insieme a un gruppo scelto di uomini provenienti da
esperienze e paesi diversi.
Lo scenario è quello di una fitta trama di violenza,
una guerriglia che esplode continuamente nel mondo.
La sceneggiatura del premio Pulitzer Tony Kushner è
ispirata a Vengeance, libro inchiesta del giornalista
canadese George Jonas sull’operazione denominata
“Ira di Dio”, condotta dai servizi segreti
israeliani all’indomani delle esecuzioni di Monaco.
Spielberg ha girato in quattordici paesi differenti
per ricostruire le strategie della guerra solitaria
di questo gruppo di uomini. L’effetto è
destabilizzante: Ginevra, Francoforte, Roma, Parigi,
Londra. Il tour del massacro viaggia per l’Europa
soprattutto, ma anche per il Medio Oriente. E poi gli
Stati Uniti, dove Avner rifugia con la famiglia, uomo
del nulla, senza documenti né più cittadinanza.
Spielberg affonda nelle radici del terrorismo e della
guerra globale, tentando di rintracciare un anello della
catena dell’odio. Mostra come quelle trame, segrete
da più di trent’anni (c’è
chi parla di fantapolitica), non siano altro che una
linea di sangue che costantemente minaccia la sicurezza
anche di questi. Descrive gli equilibri, le ingerenze
politiche e soprattutto, nella fiction come nella realtà,
la cancellazione del territorio, ridotto a luogo dell’azione.
Più che un’eccellente prova di regia quella
di Munich sembra essere la prova di un regista
che si fa scoprire nuovamente, un’opera in cui
oltre all’intelligenza si è versata l’anima
di Spielberg. L’intreccio di spy story
e action movie ha pochi precedenti nell’intensità,
dovuta all’evidente partecipazione emotiva.
Spielberg emerge dall’esperienza come un esule
della terra dalle certezze. Esule come i personaggi
del racconto, provenienti da diversi continenti, che
si ritrovano l’uno a fianco dell’altro per
la terra di Israele. Molti gli argomenti che il soggetto
introduce: la discriminazione tra gli ebrei che sono
in Israele e quelli che vivono altrove, il dovere cieco
e indiscusso, la devozione a uno Stato che sacrifica
l’umanità dei cittadini per garantirsi
un’esistenza. Motivi che nella sceneggiatura tornano,
in una doppia rappresentazione delle dinamiche emotive
del personaggio, nei genitori di Avner: una madre che
parla con le parole di un generale, e la memoria di
un sacrificio paterno. Il fatto che il cast conti tra
interpreti e tecnici un buon numero di attori di origini
semite non pare una coincidenza, sembra piuttosto una
volontà, quasi che il regista abbia voluto fare
della sua voce un coro. C’è da chiedersi
cosa rimanga del magnifico ed eroico pietismo di Schindler,
del coraggio o dell’ingenuità di chi in
un campo di carne riesce a scorgere una speranza, perché
in Munich speranze non ce ne sono. Deporre
le armi. Unica risposta, quella che mai viene data,
al climax di domande che il protagonista si pone nel
suo cieco cammino. A Eric Bana si addice questo ruolo
in ombra, e convince soprattutto nella capacità
di esasperare il personaggio e la sua missione da kamikaze
dell’umano.
E’ una posizione che appare forte quella di Spielberg,
soprattutto nella rinuncia a delineare l’eroe
di questa storia. Qualche indizio della caduta del mito
del protagonista vincitore si poteva già rintracciare
in La guerra dei mondi, successo dello scorso
anno per cui ha guadagnato altre tre nomination,
quando Tom Cruise era schiacciato più che dall’extraterrestre,
dall’incubo dell’impossibilità di
agire contro una forza indomabile, sovraumana. E’
una frana simbolica, pari al montaggio parallelo della
scena in cui Avner e la moglie sono a letto insieme,
giudicata da una buona parte della critica farraginosa,
ma che rivela, nella sua brutale ingenuità, la
difficoltà dello stesso Steven Spielberg rispetto
alla messa in scena di sentimenti complessi e poco definibili.
Ma non è questa l’unica frana in Munich,
un film che segna una frattura e pare volontariamente
irrisolto, che rompe il destino dell’appartenenza
a una religione o a un popolo come la prassi che vuole
incatenare un’opera a un genere cinematografico
o un regista a un solo modo di fare cinema. Se Spielberg
trema non si può rimanere indifferenti.
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