Avere memoria,
riconoscere la propria storia e il proprio dolore, vuol
dire riconoscere il dolore degli altri. E fare questo
significa poter guardare con fiducia al futuro, costruirlo
insieme. Solo guardando al passato in modo aperto, solidale,
con un approccio di ricerca storica che non permetta
di dimenticare nulla, nemmeno i momenti oscuri, è
possibile celebrare il ricordo. La storia deve essere
questa capacità di dare voce alla vera storia,
quella degli uomini che soffrirono, operarono e persero
la vita o furono costretti all’esilio; non può
essere quella che fissa nel tempo il ricordo, che si
ferma al semplice dato storico accettato per legge,
ma è quella che riconosce alla storia degli uomini
il suo carattere indefinito, dove “tutto è
sempre messo in discussione e dove non esistono punti
ideologici d’arrivo”, come sottolinea lo
storico Giuseppe Parlato, Preside della facoltà
di Lingue e Letterature Straniere all’Università
S. Pio V di Roma, presente alla cerimonia in Campidoglio
per il Giorno del ricordo delle vittime delle foibe.
Nella ricerca e nella ricostruzione storica risiede
oggi la chiave per la comprensione profonda di quanto
è accaduto, ma anche il motivo del successo di
una giornata che ha trovato d’accordo tutte le
forze politiche. Secondo il pensiero dello storico,
la storia di quegli anni non deve più essere
condizionata dalla politica, strumentalizzare significherebbe
inesorabilmente passare sopra le vite e il sacrificio
di molti uomini. Deve invece riscattare la sua funzione
pedagogica, utile oggi a costruire delle solide basi
di civiltà tra i popoli. Una vera e propria “pedagogia
civile”, come l’ha chiamata il Sindaco Veltroni.
Il modo migliore per non tradire la storia, per sapere
e per distinguere, è fare in modo che nessun
luogo, nessun evento venga dimenticato o sottaciuto.
Per decenni questo drammatico pezzo di storia si è
tradotto in silenzio. E se da una parte è visibile
l’azione svolta da chi è a capo delle istituzioni,
pensiamo alla recentissima approvazione in sede legislativa
delle norme per l’acquisizione della cittadinanza
italiana da parte dei connazionali residenti nelle Repubbliche
di Croazia e di Slovenia e dei loro discendenti, portata
a segno lo scorso 9 febbraio, dall’altra, come
dice il Presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo,
“il virus della tolleranza è difficile
da trasmettere, e far girare”. Allora occorre
vigilare. Occorre non cadere nella facile liturgia,
soprattutto per uno Stato come l’Italia, la patria
delle ricorrenze e delle celebrazioni. La memoria viva,
modificabile nel tempo perché capace di ingrandirsi
di nuove scoperte e testimonianze, può forse
immunizzare dal virus dell’intolleranza. Comunque
sembra essere il vaccino più potente, ad oggi.
La conoscenza e la celebrazione del ricordo se non altro
mantiene lontano quel odio ideologico che si manifesta
come il più grande pericolo per la civile convivenza
di popoli tanto lontani ideologicamente e culturalmente,
ma spesso molto vicini sulle carte.
Le Foibe hanno aiutato una vecchia paura dell’uomo
a venire allo scoperto, alla luce chiara della coscienza
collettiva dei giorni nostri, ed è la paura dell’altro
da sé. Una paura da sempre avvertita dagli
uomini, secondo la quale nell’altro da sé
dimora il pericolo da eliminare, il nemico da sconfiggere
e annientare. E non è una prerogativa di tempi
passati questa.
L’integrazione europea dei valori culturali e
sociali è una strada imprescindibile per Guido
Brazzoduro, Presidente dell’Associazione degli
Esuli, se si vogliono davvero far valere “i principi
di giustizia, verità, cultura e tradizione come
vero fondamento del vivere civile e della convivenza
tra i popoli”. L’obiettivo deve essere quello
di allontanare gli interessi di parte, che siano economici
o meno, per creare delle solide basi per una civile
convivenza dei differenti popoli. E’ importante
innanzitutto mettere in guardia da accesi nazionalismi.
Le foibe ce lo ricorderanno sempre.
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