Il 27 gennaio
del 1945 l’armata russa apriva i cancelli di Auschwitz,
le porte di una delle città invisibili del nazismo.
Città invisibile come i milioni di morti che
l’avevano appena popolata e come i brandelli di
umanità sopravvissuta che ancora raccoglieva.
Abitanti di cui rimangono immagini, per la maggior parte
documenti fotografici e filmati delle truppe di liberazione.
Auschwitz è ancora invisibile perché,
come Mathausen, Birkenau, Dachau, ugualmente note, è
ora soprattutto un vuoto, piuttosto che un luogo geografico
e storico. Le immagini della Soluzione finale sono tutte
ugualmente connotate, si confondono nella loro comune
barbarie, come non si distinguono, nell’inespressivo
e comune orrore, i corpi privati di identità.
Dal 2001 l’Italia celebra ufficialmente la Giornata
della memoria per “ricordare la Shoah,
le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini
ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione,
la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche
in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al
progetto di sterminio, e a rischio della propria vita
hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
In modo da conservare nel futuro dell’Italia la
memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia
nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili
eventi non possano mai più accadere”.
Nasce quest’anno il libro I giusti d’Italia
per documentare l’impegno di quattrocento italiani
che dal ‘43 al ‘45 intervennero per salvare
parte della popolazione ebraica dal viaggio verso la
morte dei campi di concentramento e sterminio.
Nascerà nel 2008 il Museo della Shoah a Roma,
di cui Veltroni ha appena presentato il progetto, proprio
a Villa Torlonia, là dove le leggi razziali furono
scritte. E intanto sulle pagine del Corriere della Sera
dal 21 gennaio è polemica per un articolo dello
scrittore Alessandro Piperno.
Piperno è contrario alla manifestazione. Lancia
provocatoriamente un commento sulla letteratura della
Shoah, sulla cultura ebraica, forse più attento
a rivendicare l’originalità della narrativa
israeliana contemporanea a dispetto dell’irriducibile
memoria della “letteratura da piagnistei”,
citando Amos Oz. Ma è la risposta dello storico
Sergio Luzzatto, anche lui contrario alla ricorrenza,
a spiegare i termini dell’opposizione. “La
Shoah non è stata il ‘male assoluto’,
di cui tanto parlano i retori del 27 gennaio. Sia il
sostantivo che l’aggettivo sono scelti senza cura.
Il sostantivo, in quanto evoca una dimensione etica
piuttosto che storica; l’aggettivo, in quanto
suggerisce che la persecuzione razziale sia stata legibus
soluta, sciolta da ogni legge, quando corrispose
invece a una legislazione politicamente voluta e operosamente
perseguita. Risultato? L’intera dinamica della
Shoah viene consegnata a una dimensione astorica o addirittura
trascendente: con un vantaggio netto per gli eredi dei
carnefici e anche – in un qualche dolorosissimo
modo – per gli eredi delle vittime”.
Eppure c’è necessità di costruire
un ricordo nell’inconciliabile ansia del vuoto
di quella memoria. Ed è nell’ansia di questo
vuoto che ha trovato posto il racconto della Shoah,
tra tutte le stragi compiute in nome della coerenza
a un idea la più irriducibile al silenzio. E’
il racconto di chi è sopravvissuto e della propria
memoria ha fatto un immaginario, non solo per se stesso,
ma per gli altri. Soprattutto l’arte della visione,
falsa perché cinema, medium privilegiato del
fantasma, ha assunto un suo posto specifico nella ricostruzione
di questa fragile e latente memoria della strage. Si
è data il gravoso compito di dare immagini più
o meno verosimili a una realtà già mediata
dal racconto, dalla testimonianza e dalla letteratura.
Un tentativo di rappresentare l’orrore.
Su questa scia le esperienze ultime di Spielberg, Benigni
e Polanski ad esempio.
Nel 1975 Imrek Kertész nell’Ungheria comunista
pubblicava Fateless (da noi edito da Feltrinelli), traducendo
in letteratura l’esperienza dei lager. Ora, a
trenta anni di distanza e con un premio Nobel per la
letteratura alle spalle, questo racconto diventa Senza
destino, film presentato in concorso al 55°
Festival di Berlino da Lajos Koltai e candidato all’Oscar.
Un debutto tardivo alla regia per Koltai, già
direttore della fotografia per Istvan Szabo e Giuseppe
Tornatore. Kertész ha scritto la sceneggiatura,
Koltai ha diretto il film seguendo le visioni che quel
libro gli evocava.
E’ un’opera asciutta di lacrime e cruda
che non indugia in sentimentalismi e non cede alla possibile
retorica sulla strage. La ricostruzione scenografica
è accurata come la fotografia; le immagini e
la vicenda storica, che pure sono parte fondamentale
del racconto, non toccano l’originalità
della vicenda umana del protagonista. E’ il racconto
di un’esperienza unica e personale non uno sguardo
sulla storia. Le prime sequenze a Budapest introducono
lo spettatore in un universo della memoria. E’
il tempo che è protagonista, ma non il tempo
storico. Il tempo della vicenda umana di Gyuri Koves,
il tempo della sua voce narrante, scandito dalle campane,
dalle lancette e dal suono di un pendolo che segnano
il progressivo allontanarsi del padre, tra tutti internato
per primo nei campi di lavoro. Sono le parole di un
vecchio in preghiera a dichiarare il punto su cui ruota
la frattura del film “Adesso partecipi anche tu
al destino comune degli ebrei”. Un destino che
non è davvero comune, come con evidenza dimostra
la storia narrata, e che pare in parte scelto dal popolo
stesso nell’orribile consuetudine alla sottomissione.
Così la preghiera per le colpe verso Dio è
per Gyuri solo una fila di parole incomprensibili. La
sua giovinezza invece parla, nel suo sguardo verso la
giovane vicina di casa che passa di lì distraendolo.
Senza destino non è il racconto della
Shoah degli ebrei ungheresi, ma un romanzo di formazione.
Il cinema da sempre attinge a questa letteratura per
dare vita alle sue storie. Nelle immagini è raccontata
una terribile e progressiva perdita di innocenza del
protagonista e di questo inesorabile processo sono pregni
i primi piani del bravissimo Marcell Nagy. Nella generale
distrazione, nell’incredulità che fa dire
“tieni giù la testa e fa passare la tempesta”,
nelle parole di ebrei filotedeschi e nei futuri collaborazionisti,
anche ai gendarmi che eseguono gli ordini di sequestro
è ancora data una qualche umanità. Emerge,
in un abile gioco di campo e controcampo, nel sorriso
dell’uomo che sta consegnando Gyuri e altri ragazzi
al lager. Nelle intenzioni del regista, nei tempi del
montaggio, è chiara la possibilità che
in quel sorriso ci siano non una, ma mille crudeltà
sepolte dall’ignoranza, ma anche la progressiva
scoperta del protagonista. Per Gyuri forse i gendarmi
possono ancora essere buffi personaggi, ci può
forse essere ancora un ultimo gioco. Senza destino,
ossia senza la scelta di poter vivere altrimenti. Un’esperienza
che non ha possibilità di esprimersi se non nell’odio,
nella disperata affermazione che forse potrebbe essere
meglio morire in una camera a gas piuttosto che sopportare
il terrore, nell’umanità residua che trova
la felicità nel lager “in quell’ora
particolare, prima della cena”. Un film che provocatoriamente
rivendica la continuità della vita e l’impossibilità
della negazione del lager, parallele alla difficoltà
del raccontarlo. Un’opera senza colpi di scena,
narrata, secondo le intenzioni degli autori, che parla
al presente senza tentare di risolvere il passato. Qui
la sua differenza e originalità. Una regia attenta
più a cogliere il continuo tentativo di rimuovere
l’orrore che a ricercare un’originalità
estetica, conscia dell’impossibilità della
rappresentazione verosimile, della commemorazione e
della ricostruzione storica. E’ la metafora del
viaggio attraverso gli inferi che si è inesorabilmente
spezzata in questo eroe che torna dalle viscere dell’umano
con l’estrema pena di essere sopravvissuto al
suo destino.
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