Paul
Collins,
Né giusto né sbagliato,
Adelphi, pp.268, € 18,00
Morgan - due anni - pare decisamente un bimbo dotato:
sa ormai leggere e contare fino a venti persino alla
rovescia, ripete canzoncine o filastrocche a memoria,
è già in grado di fare i primi approcci
col computer. Ma al di là di tutto questo c’è
un ma pesante come un macigno: il bimbo non reagisce
alle parole dei genitori, anzi praticamente non comunica.
È isolato, chiuso in se stesso, talvolta sembra
impermeabile agli stimoli esterni. Ai suoi genitori
Morgan sembra appena un bambino diverso dai coetanei,
però i medici la pensano altrimenti e sfoderano
una diagnosi da far tremar le vene e i polsi: autismo.
Inizia così, descrivendo questo cucciolo di
umano che è poi suo figlio, l’eccentrico
libro di Paul Collins Né giusto né
sbagliato. Un mix tra un racconto diaristico-biografico,
un romanzo e un saggio per i non addetti ai lavori intorno
al mondo alieno in cui vivono isolati i bambini autistici.
E anche rivolto ai genitori e a tutte le persone coinvolte
nella difficile gestione di questi soggetti davvero
così diversi da altri portatori di handicap legati
alla sfera cognitivo-relazionale. Gli affetti da autismo,
infatti, appaiono spesso particolarmente intelligenti
se non in taluni casi persino geniali. Eppure comunicano
solo quando vogliono loro e soprattutto come pare loro,
venendo giudicati – specialmente nel passato –
idioti o peggio ancora folli.
Non a caso il testo di Collins, dopo la presentazione
di Morgan e famiglia, tratta di Peter, il Ragazzo Selvaggio
trovato nel ‘700 ignudo in una foresta e vissuto
a lungo presso la corte inglese, il quale ebbe la ventura
di conoscere Swift e Defoe. Re Giorgio I, infatti, si
appassionò al caso di questo fanciullo che si
cibava di noci e si comportava come una scimmia, tentando
in vari modi di civilizzarlo o forse di umanizzarlo,
giacché nel secolo dei Lumi non era chiaro a
chi studiava Peter (il primo caso celebre di autismo)
se egli fosse davvero un uomo o si trovasse in uno stadio
a metà fra le bestie e gli esseri dotati di un’anima
dal creatore. Aneddoti a parte, e mutatis mutandis,
alla fin fine un interrogativo analogo si è sempre
posto anche nei confronti degli altri autistici: chi
sono questi individui (maschi, per lo più) “diversi
dagli altri in maniera radicale e permanente”
soprattutto per la loro tendenza ad un isolamento che
li chiude in un mutismo alienante?
Collins - ricordando ai lettori come solo nel 1943
l’autismo venne identificato quale patologia specifica
- ripercorre le tappe dell’analisi di questa condizione
(deprivazione?) esistenziale, il cui paradosso consiste
per un verso nell’incapacità (al limite
del ritardo mentale) da parte dei soggetti autistici
di rispondere alle più banali domande, per un
altro nella capacità di “calcolare le radici
cubiche prima ancora di andare all’asilo, o memorizzare
quantità incredibili di informazioni”.
Così, provoca l’autore, il bambino (ma
pure l’adulto) autistico risulta al contempo disabile
e “più abile”; anzi in taluni casi
abilissimo. Ci si chiede ancora spesso sui media se
Newton o Einstein, Glenn Gould o Andy Warhol, dato il
loro carattere stravagante e chiuso, fossero autistici
e probabilmente non è una domanda peregrina.
Di certo le riflessioni sull’autismo hanno conosciuto
una pagina davvero dolorosa. Parlo del testo di Bettelheim
La fortezza vuota e della sua strampalata teoria
che dava a genitori “indifferenti” la colpa
di sospingere i figli all’isolamento e al rifiuto
della parola. Oggi, sottolinea Collins, nessuno crede
più alle ipotesi del dottor Bettelheim
(che peraltro non era nemmeno laureato), ma permangono
alle soglie del nuovo millennio degli stereotipi intorno
a questa malattia, come pure riguardo al concetto di
normalità e integrazione. Per questi bambini
chiusi in se stessi, polemizza Collins, la loro vita
isolata e silenziosa non costituisce un problema o un’anomalia,
bensì un altro modo di porsi nei confronti
della realtà. Per suo figlio Morgan, se vediamo
le cose con una prospettiva differente, “il problema
è il mondo esterno…le persone che lo circondano.
Fai questo, fai quello. Per lui non ha senso, e allora
piange, si agita”.
L’autore non intende comunque eludere o mascherare
quelli che sono gli aspetti più dolenti della
condizione esistenziale autistica. Il suo bambino non
sa mangiare, vestirsi, muoversi fuori casa da solo.
Non ha la percezione dei pericoli, è dipendente
in tutto e per tutto dai genitori. Eppure, al di là
di ogni aspetto svantaggioso, è bello l’approccio
positivo da parte di Collins ad una patologia tanto
invalidante; come pure il considerare suo figlio quale
parte vitale e inscindibile di un tutto integro, la
propria famiglia. Un insieme non malato, non
diverso come appare agli occhi degli altri.
E c’è da credergli. Quella di Morgan e
dei Collins, “non è una tragedia, non è
una triste storia, e neppure il film della settimana.
È la mia famiglia”.
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