|  Isaiah 
                          BerlinLa libertà e i suoi traditori,
 Adelphi, pp. 275, euro 15.
 Isaiah Berlin (nato a Riga nel 1909 e morto nell’87), 
                          il grande filosofo politico inglese di origine lettone 
                          (anzi, “russo, inglese, ebreo”, come gli 
                          piaceva descriversi), è uno dei maestri del liberalismo 
                          contemporaneo – uno di quei grandi di cui Reset 
                          e Caffeeuropa hanno scritto sempre volentieri.
 Uno studioso che ha visto coi propri occhi (e con quelli 
                          della famiglia) l’irrompere della Rivoluzione 
                          bolscevica nella storia del Novecento, in tutta la sua 
                          drammaticità. E che di quel “legno storto” 
                          che è l’essere umano si è occupato 
                          sempre, con un mix di chiaroveggenza, lungimiranza, 
                          lucidità e, anche, necessariamente, comprensione, 
                          che lo rende l’antitesi del pensatore astratto, 
                          avulso dalla realtà e innamorato di un qualche 
                          “freddo sistema” (propensione che a Berlin, 
                          giustappunto, suscitò sempre una diffidenza istintiva 
                          e un’avversità “epidermica”).
 Di questo intellettuale cosmopolita – vera sintesi 
                          vissuta del “Secolo breve” – professore 
                          di Teoria sociale e politica a Oxford e presidente della 
                          British Academy troviamo in libreria La libertà 
                          e i suoi traditori.I sei ritratti proposti da Berlin coincidono con altrettante 
                          conferenze radiofoniche trasmesse nel 1952 dalla BBC, 
                          salutate da uno straordinario successo di pubblico, 
                          soprattutto se consideriamo l’argomento (esempio 
                          di un servizio pubblico che faceva alla grande il proprio 
                          mestiere anziché produrre le “isole dei 
                          famosi”…), sulle quali il curatore del volume 
                          Henry Hardy ha steso un saggetto di grande efficacia 
                          (dove si menzionano anche le peculiarità vocali 
                          del grande storico delle idee e l’autentica “ispirazione”da 
                          cui veniva trasfigurato quando le tenne).
 Le sei “lezioni” vertono su una serie di 
                          pensatori “nemici della libertà” 
                          vissuti durante il periodo della Rivoluzione francese, 
                          accomunati dalla caratteristica di essere divenuti di 
                          straordinaria attualità, “profetica”, 
                          nell’Ottocento e, ancor più se possibile, 
                          nel Novecento, i secoli delle ideologie e degli orrori 
                          dei totalitarismi. La conferma, dunque, dell’attività 
                          di vero e proprio – se possiamo definirlo così 
                          – “psicologo e antropologo delle idee” 
                          dello studioso di origini russe, e della sua fatale 
                          e irresistibile attrazione nei confronti del risvolto 
                          concreto e delle implicazioni collettive del pensiero 
                          politico e sociale che, altrimenti, rimarrebbe pura 
                          accademia. Il XX secolo, a giudizio di Berlin, ha visto 
                          – purtroppo – dare carne a molte delle inaccettabili 
                          idee di questi “cattivi maestri” di fine 
                          Settecento e primo Ottocento, con le tristemente ben 
                          note conseguenze. Ad avvicinarli è quell’hard 
                          core fortemente illiberale e autoritario che Berlin 
                          ravvisa nei loro scritti. Nemici e traditori della libertà, 
                          in forme diverse, ma che rivelano tutti una radicale 
                          allergia nei confronti della scelta e della libera determinazione 
                          degli individui, così care a John Stuart Mill 
                          (autore di quella che viene considerata la più 
                          alta e straordinaria perorazione mai scritta a favore 
                          della libertà individuale). Ad esse i sei pensatori 
                          effigiati da Berlin contrappongono società gerarchiche 
                          e bene ordinate, una profonda sfiducia psicologica nella 
                          possibilità degli uomini di decidere e autogovernarsi, 
                          una violenta ingegneria politico-sociale che si arroga 
                          la facoltà arbitraria di “correggere” 
                          le storture del carattere umano, impossibili e irrealizzabili 
                          arcadie; con l’idea, sempre, che i pochi possano 
                          insegnare ai tanti come comportarsi, in genere per il 
                          loro stesso “bene”, oppure per quello collettivo 
                          e comunitario. E sempre partendo da risposte autoritarie 
                          a quello che è il concetto in qualche modo centrale 
                          della filosofia politica (considerata come branca dell’etica): 
                          l’obbedienza. Ecco, allora, Berlin “inchiodare” alle 
                          loro responsabilità e al loro rigetto dell’individualismo 
                          liberal-democratico l’”innamorato del bene” 
                          Hélvetius (dal cui orizzonte scompare la possibilità 
                          di compiere il male e, dunque, la stessa possibilità 
                          di scelta individuale), il “maestro dell’antiliberalismo” 
                          Jean-Jacques Rousseau, Fichte (con la sua metafisica 
                          così terribilmente nazionalista e germanica, 
                          alla base della successiva funesta storia tedesca), 
                          Hegel (la cui coincidenza di razionalità e realtà 
                          diviene il fondamento col quale legittimare ogni nefandezza 
                          e sopruso), il conte di Saint-Simon (il cui mix di “neofeudalesimo” 
                          e pianificazione ossessiva appare premonitore del socialismo 
                          reale) e Joseph de Maistre, il gran reazionario e controrivoluzionario, 
                          portatore di una visione disincantata e ferocemente 
                          negativa dell’animo umano (che Berlin comprende 
                          appieno e, in parte, condivide), che finisce, però, 
                          per aspirare a una “folle e surreale” legittimazione 
                          e fondazione divina del potere.  Queste lezioni sono altrettanti antidoti al raffreddore 
                          antiliberale (che, in alcune fasi della storia, si è 
                          tradotto in malanni ben più gravi), somministrati 
                          a nostro beneficio da un Berlin in gran forma, e con 
                          uno stile di scrittura come al solito molto godibile.
    
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