294 - 17.02.06


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Sei nemici della libertà

Massimiliano Panarari



Isaiah Berlin
La libertà e i suoi traditori,
Adelphi, pp. 275, euro 15.


Isaiah Berlin (nato a Riga nel 1909 e morto nell’87), il grande filosofo politico inglese di origine lettone (anzi, “russo, inglese, ebreo”, come gli piaceva descriversi), è uno dei maestri del liberalismo contemporaneo – uno di quei grandi di cui Reset e Caffeeuropa hanno scritto sempre volentieri.
Uno studioso che ha visto coi propri occhi (e con quelli della famiglia) l’irrompere della Rivoluzione bolscevica nella storia del Novecento, in tutta la sua drammaticità. E che di quel “legno storto” che è l’essere umano si è occupato sempre, con un mix di chiaroveggenza, lungimiranza, lucidità e, anche, necessariamente, comprensione, che lo rende l’antitesi del pensatore astratto, avulso dalla realtà e innamorato di un qualche “freddo sistema” (propensione che a Berlin, giustappunto, suscitò sempre una diffidenza istintiva e un’avversità “epidermica”).

Di questo intellettuale cosmopolita – vera sintesi vissuta del “Secolo breve” – professore di Teoria sociale e politica a Oxford e presidente della British Academy troviamo in libreria La libertà e i suoi traditori.
I sei ritratti proposti da Berlin coincidono con altrettante conferenze radiofoniche trasmesse nel 1952 dalla BBC, salutate da uno straordinario successo di pubblico, soprattutto se consideriamo l’argomento (esempio di un servizio pubblico che faceva alla grande il proprio mestiere anziché produrre le “isole dei famosi”…), sulle quali il curatore del volume Henry Hardy ha steso un saggetto di grande efficacia (dove si menzionano anche le peculiarità vocali del grande storico delle idee e l’autentica “ispirazione”da cui veniva trasfigurato quando le tenne).

Le sei “lezioni” vertono su una serie di pensatori “nemici della libertà” vissuti durante il periodo della Rivoluzione francese, accomunati dalla caratteristica di essere divenuti di straordinaria attualità, “profetica”, nell’Ottocento e, ancor più se possibile, nel Novecento, i secoli delle ideologie e degli orrori dei totalitarismi. La conferma, dunque, dell’attività di vero e proprio – se possiamo definirlo così – “psicologo e antropologo delle idee” dello studioso di origini russe, e della sua fatale e irresistibile attrazione nei confronti del risvolto concreto e delle implicazioni collettive del pensiero politico e sociale che, altrimenti, rimarrebbe pura accademia. Il XX secolo, a giudizio di Berlin, ha visto – purtroppo – dare carne a molte delle inaccettabili idee di questi “cattivi maestri” di fine Settecento e primo Ottocento, con le tristemente ben note conseguenze. Ad avvicinarli è quell’hard core fortemente illiberale e autoritario che Berlin ravvisa nei loro scritti. Nemici e traditori della libertà, in forme diverse, ma che rivelano tutti una radicale allergia nei confronti della scelta e della libera determinazione degli individui, così care a John Stuart Mill (autore di quella che viene considerata la più alta e straordinaria perorazione mai scritta a favore della libertà individuale). Ad esse i sei pensatori effigiati da Berlin contrappongono società gerarchiche e bene ordinate, una profonda sfiducia psicologica nella possibilità degli uomini di decidere e autogovernarsi, una violenta ingegneria politico-sociale che si arroga la facoltà arbitraria di “correggere” le storture del carattere umano, impossibili e irrealizzabili arcadie; con l’idea, sempre, che i pochi possano insegnare ai tanti come comportarsi, in genere per il loro stesso “bene”, oppure per quello collettivo e comunitario. E sempre partendo da risposte autoritarie a quello che è il concetto in qualche modo centrale della filosofia politica (considerata come branca dell’etica): l’obbedienza.

Ecco, allora, Berlin “inchiodare” alle loro responsabilità e al loro rigetto dell’individualismo liberal-democratico l’”innamorato del bene” Hélvetius (dal cui orizzonte scompare la possibilità di compiere il male e, dunque, la stessa possibilità di scelta individuale), il “maestro dell’antiliberalismo” Jean-Jacques Rousseau, Fichte (con la sua metafisica così terribilmente nazionalista e germanica, alla base della successiva funesta storia tedesca), Hegel (la cui coincidenza di razionalità e realtà diviene il fondamento col quale legittimare ogni nefandezza e sopruso), il conte di Saint-Simon (il cui mix di “neofeudalesimo” e pianificazione ossessiva appare premonitore del socialismo reale) e Joseph de Maistre, il gran reazionario e controrivoluzionario, portatore di una visione disincantata e ferocemente negativa dell’animo umano (che Berlin comprende appieno e, in parte, condivide), che finisce, però, per aspirare a una “folle e surreale” legittimazione e fondazione divina del potere.

Queste lezioni sono altrettanti antidoti al raffreddore antiliberale (che, in alcune fasi della storia, si è tradotto in malanni ben più gravi), somministrati a nostro beneficio da un Berlin in gran forma, e con uno stile di scrittura come al solito molto godibile.

 


 

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