L’autore
del libro “Benedetto Croce: liberalismo come concezione
della vita” (Rubbettino) risponde alla recensione
di Sebastiano Maffettone apparsa sull’inserto
domenicale del Il
Sole 24Ore del 18 dicembre 2005.
Un libro da me appena pubblicato, per i tipi di Rubbettino
(Benedetto Croce. Il liberalismo come concezione
della vita), ha riproposto un’antica e un
po’ vetusta questione: è Croce un pensatore
liberale o no? (hanno detto la loro, fra l’altro,
anche filosofi noti come Gianni Vattimo e Sebastiano
Maffettone).
È, nonostante tutto, una questione importante,
che conviene continuare porsi. Non tanto in sé:
ogni autore è quello che è e vale per
quanto ci dà. Lo è perché ci permette
di definire il liberalismo, di capire ciò che
intendiamo per essere liberali.
Croce si riteneva e definiva liberale, ma vari autori,
ad esempio Bobbio e Bedeschi, hanno messo in discussione
il suo liberalismo perché, come ha scritto Maffettone,
egli ha “trascurato di partire dal classico problema
liberale dei limiti dello Stato”. Giusto. La domanda
ulteriore che però bisogna porsi è questa:
“limiti dello Stato rispetto a chi?”. Il
liberale classico risponde: “rispetto all’individuo”.
Ed è qui, infatti, il centro della questione
liberale: l’individuo. Ma è qui anche il
problema enorme che si apre: l’individuo, così
come lo concepivano i liberali classici, è stato
messo in crisi, o meglio in scacco, dalla filosofia
contemporanea. Esso non può più essere
concepito infatti come il Soggetto ontologicamente forte,
il Soggetto-Sostanza della Modernità; non può
più essere concepito come un in-dividuum,
un ente indivisibile e compatto. Remo Bodei ha pubblicato
per Feltrinelli, non molto tempo fa, Destini personali,
un bellissimo e dotto libro in cui mostra come l’individuo
sia stato decostruito e destrutturato e poi ricomposto
in molteplici forme dalla filosofia degli ultimi due
secoli. E non mi riferisco solo e esclusivamente all’opera
imponente dei tre grandi Maestri del Sospetto (Marx,
Nietzsche e Freud) individuati da Ricoeur. Oggi l’individuo
può essere concepito al massimo come un precario
punto di equilibrio fra forze di varia natura che lo
percorrono. Come un progetto, una conquista da ripetere
ogni giorno, piuttosto che come un dato di fatto o peggio
“naturale”. Eppure, nonostante questa consapevolezza
acquisita, ci rendiamo anche conto che, se il liberalismo
perde questo centro di gravità, perde se stesso.
Questo è il punto. Che fare?
Il compito che ci attende, io ritengo, è quello
di riconciliare il liberalismo con la filosofia. Nata
come dottrina moderna (nel senso letterale del termine,
cioè nel senso di appartenente alla modernità),
oggi che la modernità è alle nostre spalle,
la concezione liberale esige di essere reinterpretata
e ridefinita. Detto altrimenti: occorre cambiarla nella
sostanza, per conservarne lo spirito. Dobbiamo ridefinirla
per adeguarla ai nostri tempi, diciamo pure così:
riscriverla dei nuovi bisogni dei nuovi problemi di
libertà (era questa, fra l’altro, l’esigenza
avvertita da Matteucci nel suo classico libro sul liberalismo,
che Il Mulino ha appena ripubblicato).
Il fatto, tuttavia, è che io sono convinto che
i liberali non siano rimasti in questi ultimi due secoli
con le mani in mano, come suol dirsi. Almeno a partire
da Tocqueville, che è un vero punto di discrimine
(l’incipit di una nuova storia), essi
hanno elaborato, in maniera non del tutto o niente affatto
predeterminata (come accade in questi casi), un liberalismo
coerentemente non fondazionista (che a me piace chiamare
“liberalismo senza teoria”). Un liberalismo
che non ha pertanto l’esigenza di poggiare su
basi sostanzialistiche il concetto di individuo. Croce
si inserisce, a mio avviso, in questo filone: lungi
dall’essere una posizione minoritaria, dalla mia
prospettiva (che spero non sia un errore prospettico),
la sua dottrina si inserisce nella matrice principale
del liberalismo contemporaneo. “Liberali senza
teoria” sono stati, oltre a lui, faccio solo degli
esempi, Berlin, Aron, Dewey, Popper, Ortega y Gasset,
Hannah Arendt, solo in parte von Hayek.
Lungo questa direttrice troviamo poi buona parte della
Tradizione Italiana, a cominciare da Gobetti (il cui
pensiero è un vero idealtipo da questo punto
di vista) e Rosselli. Una frattura epistemologica è
rappresentata invece da Bobbio, o meglio dal Bobbio
autore, negli anni Cinquanta, di Politica e cultura
(1955). Il discorso sul grande pensatore torinese è
però molto complesso. E io ritengo che negli
ultimi anni di attività, fecondi e originali,
egli sia andato rivedendo in profondità molte
sue posizioni teoriche precedenti. Posizioni e concezioni
a cui hanno invece attinto a piene mani e si sono ispirati
Bedeschi e tutti i neoliberali che hanno occupato la
scena del dibattito culturale italiano degli ultimi
anni (indipendentemente dalla loro connotazione politica
di destra e sinistra, in questo discorso di secondaria
importanza).
Croce è, fra l’altro, il teorico della
vitalità: un concetto che svolge un’importante
ruolo nell’ottica del progressivo depotenziamento
crociano delle categorie epistemiche. Un processo cominciato,
in verità, molto presto, che ci fa leggere le
stesse quattro categorie come “potenze del fare”
o addirittura “potenze retoriche” (del discorso).
Maffettone individua molto bene questo punto. E, inoltre,
scrive: “Croce appartiene a una tradizione minoritaria,
aristotelica, individualista e storicista di liberalismo”.
In virtù di quanto ho detto, concordo perciò
solo in parte con questa tassonomia. Non ritengo infatti
che quella liberale di Croce sia una tradizione minoritaria,
né che sia individualista. Concordo invece sul
fatto che sia una tradizione storicista e, in vari sensi,
aristotelica.
Rimane in piedi la necessità, non posso non
ammettere, di offrire ulteriori elementi per costruire
una teoria, mi si scusi il bisticcio di parole, del
“liberalismo senza teoria”. È un
discorso complesso che, secondo me, deve portarci ad
accettare un evidente paradosso: che per costruire la
teoria del liberalismo (che anche perciò è
una dottrina diversa dalle altre) è forse più
importante il contributo dei non o addirittura degli
antiliberali che non quello dei liberali veri e propri.
Non è un caso, a mio avviso, non solamente che
Croce abbia preferito Hegel e Machiavelli a Locke e
Kant, come opportunamente sottolinea sempre Maffettone,
ma che, ad esempio, ci sia stato nel Novecento un grandissimo
autore liberale, Isahiah Berlin, che ha costruito un
suo particolare Pantheon includendovi Machiavelli, Vico,
Herder e addirittura il “mago del Nord”
Hamann?
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