Tratto
dal quotidiano Il
Foglio
Uno scrittore dell’Ottocento, che non poteva
immaginare la tv, internet e Google, ne aveva anticipato
tutta la sostanza. Era riuscito a profetizzarne in nuce
grandezza e miserie, fascino e disgusto, interesse e
noia, sublime e ridicolo. Il romanzo incompiuto di Gustave
Flaubert, Bouvard et Pécuchet, pubblicato
postumo nel 1881, si presenta come un talk show infinito.
Con due conduttori (aveva intuito la povertà
del conduttore unico, come già altri prima di
lui, a cominciare dall’inventore di Don Chisciotte
e Sancio Panza), che parlano di tutto e di più:
di attualità, biologia, storia, economia, politica,
medicina, cronache parlamentari, processi, religione,
di angeli come di letame, dei massimi sistemi come di
ogni minuta bazzecola o fesseria. E al tempo stesso
si presenta come un reality show infinito, con la telecamera
costantemente incollata alla banalità quotidiane
dei protagonisti. Li segue sino al cesso. “Noi
dobbiamo entrare nella vita reale fino all'ombelico”,
avrebbe teorizzato Flaubert. Certo non poteva prevedere
il telecomando. Ma tra tutti i grandi romanzi dell’Ottocento,
questo è quello che forse meglio si presta, anzi
invita allo zapping.
C’è chi l’ha descritto come la più
grande ed esilarante “enciclopedia della stupidità”
in tutta la storia della letteratura (ovviamente prima
che imperasse la tv, “deficiente” per antonomasia).
Ma questa definizione non basta a spiegare, neppure
a dare un’idea dell’altro aspetto del mistero:
del perché la “stupidità”
esercita un fascino così irresistibile, travolgente,
anche quando viene additata ad irrisione. Sia pure con
l’avvertenza, da parte di Flaubert, che “Per
vivere in pace, non bisogna mettersi né dalla
parte di quelli di cui si ride né dalla parte
di coloro che ridono”. E se fosse che questa stupidità
non è poi così “stupida” come
sembra a prima vista? E comunque la stupidità
non è in coloro che la praticano, ma nelle cose.
Bouvard et Pécuchet è, nella
definizione dello stesso autore, “la storia di
due bravuomini che copiano una specie di enciclopedia
critica in forma di farsa”. Farsa è un
termine teatrale. I due sono ridicoli, sembrano due
imbecilli. Ma la loro è l’imbecillità
del buffone, che riesce a dire cose che gli altri non
sanno o non possono dire. Sanno fare spettacolo, e per
fare spettacolo ci vuole grandissimo talento. Danno
spettacolo occupandosi di tutto, parlando di tutto,
in particolare di tutto quello che passa per “serio”.
“Bouvard e Pécuchet è una rassegna
di tutte le scienze, quali appaiono a due spiriti abbastanza
lucidi, mediocri e semplici”, è la definizione
che ne dà Maupassant, che con Flaubert aveva
confidenza. Ma la loro è una “stupidità”
che poggia sulle spalle di quella degli “intelligenti”,
anzi dei geni. C’è in Flaubert una continua
ambivalenza tra imbecillità e genialità.
“IMBECILES (sic): coloro che non la pensano come
noi”, suona la voce relativa nel Dizionario delle
idee comuni (Dictionnaire des idées reçues,
sottotitolo: Le catalogue des opinions chic),
l’altra opera incompiuta cui Flaubert aveva lavorato
per tutta la vita. Per quest’opera che “potrebbe
anche avere riuscita, perché sarebbe tutta di
attualità” (un’attualità di
lungo respiro, che si dilata nell’arco di diversi
decenni), si riprometteva di “arrangiare la materia
in modo che il lettore non sappia se ci si prende gioco
di lui o no”. Anche per il Bouvard et Pécuchet
la forza sta nel fatto che il lettore non ha mai la
certezza assoluta sul se e in che misura lo show dei
cretini si stia prendendo gioco di lui. Si sono scritti
fiumi d’inchiostro sul fatto che Flaubert ce l’ha
con la “stupidità del borghese”,
dei conservatori, dei preti, degli oscurantisti. A dire
il vero ce l’ha anche con la stupidità
dei proletari, dei progressisti, dei socialisti, dei
riformisti. Si potrebbe dire che ce l’ha con la
stupidità di tutti i fanatici, compresi quelli
che danno addosso alla stupidità altrui. La bêtise,
la “stupidità” per lui è soprattutto
quella di chi vuole per forza arrivare a delle conclusioni.
“Sì, la stupidità consiste nel voler
concludere. Siamo un filo, e vogliamo conoscere la trama…”.
Non per niente, una delle caratteristiche del Bouvard
et Pécuchet è la mancanza di trama,
la circolarità, il continuo ritorno a punti già
trattati. Si può interrompere e riprendere la
lettura a qualsiasi punto. Come facendo in continuazione
zapping tra un talk show e un reality e l’altro.
Certo ci si può anche ribellare. Spegnere il
televisore. Alzarsi e andare a far altro durante le
interruzioni pubblicitarie. È una tentazione
che viene anche ai nostri personaggi. Ogni tanto Bouvard
e Pécuchet si stufano. Soffrono: “Attraverso
la loro curiosità la loro intelligenza si sviluppò.
Avendo più idee, ebbero anche maggiori sofferenze”.
Sbuffano soverchiati: “Li rattristano cose insignificanti:
le pubblicità dei giornali (i loro precursori,
i due cancellieri di un racconto di B. Maurice apparso
sulla Gazette des Tribunaux molti anni prima fanno anche
meglio: leggono e copiano tutto, anche i ‘piccoli
annunci’… una riflessione scema sentita
per caso… e sentono pesare su di sé tutta
la pesantezza della terra”. Arrivano ad un certo
punto persino a ribellarsi: “Allora si sviluppò
nel loro spirito una facoltà penosa: quella di
vedere la stupidità e non più tollerarla”.
Arrivano addirittura a prendere in considerazione la
soluzione definitiva al “più vasto dei
problemi, quello che contiene tutti gli altri”,
e che “si può risolvere in un minuto”:
“… ed esaminarono la questione del suicidio”.
Ma poi tornano a fare zapping, esattamente come prima.
Sono due idioti. Ma non al punto di voler per forza
concludere.
L’idea della pretesa di voler concludere come
colmo di stupidità torna ripetutamente nei suoi
scritti: “Le persone leggere, limitate, gli spiriti
presuntuosi ed entusiasti vogliono trovare in ogni cosa
una conclusione; cercano lo scopo della vita e la dimensione
dell'infinito. Prendono nella loro piccola mano un pugno
di sabbia e dicono all'Oceano: "Conterò
i granelli delle tue spiagge". Ma non appena i
granelli gli scivolano tra le dita e il calcolo è
lungo, pestano i piedi e piagnucolano. Sapete cosa bisogna
fare sulla spiaggia. Bisogna inginocchiarsi o passeggiare”.
Il suo consiglio è: “Passeggiate”.
E ancora: “Nessun grande genio ha concluso e neanche
i grandi libri concludono, perché l'umanità
è sempre in marcia ed essa stessa non conclude.
Così questa parola così alla moda, il
problema sociale, mi rivolta profondamente. Il giorno
che sarà risolto sarà l'ultimo del pianeta.
La vita è un eterno problema, ed anche la storia.
Si aggiungono senza fine delle cifre all'addizione”.
Alla voce “Dizionario”, il Catalogo delle
opinioni chic riporta: “Dirne: è fatto
solo per gli ignoranti”. Alla voce “Enciclopedia”:
“Riderne per pietà, come se si trattasse
di opera rococò, anzi tuonarci contro…”.
Flaubert si prende gioco delle enciclopedie e dei dizionari.
A cominciare dall’Enciclopedia per eccellenza,
quella degli illuministi. E ancor più del progetto
enciclopedico di classificazioni del positivismo di
fine Ottocento, insomma di una scienza al massimo della
sicurezza di sé, che pretendeva di essere alle
soglie di una risposta positiva e completa a tutto.
“Difficile a dirsi in poche parole. Il sottotitolo
dovrebbe essere: del difetto del metodo nelle scienze.
In breve, ho la pretesa di fare una rassegna di tutte
le idee moderne…”, è il modo in cui
Flaubert aveva anticipato il suo programma di lavoro.
Lo fa con puntiglio da enciclopedista, schedando e citando
tutto quello che trova, su ogni “scienza”
e ramo della conoscenza. Flaubert gioca. Ma il gioco
è lungo e complicato, quanto è complicata
la vita. Questo suo romanzo lo prendeva molto sul serio,
quanto forse più degli altri, compresi quelli
per cui è famoso. “È la sintesi
delle mie esperienze e del mio giudizio sull’uomo
e sulle opere dell’uomo”, avrebbe annotato
poco prima di morire. Si fonda su un lavoro enorme,
una quantità formidabile di letture, e ancor
più monumentali liste di lettura da fare. Solo
gli appunti per il secondo volume mai scritto, conservati
alla Biblioteca di Rouen, e ancora non pubblicati, constano
di 2300 cartelle. Cita e copia tutto, con metodo maniacale,
e al tempo stesso alla rinfusa. Alla pretesa di un’epoca
di essere alla soglia della conoscenza di tutto, risponde
con un’esilarante – ma estremamente dettagliata
– parodia dell’infarinatura di tutto. Il
più grande, ed inarrivabile dei suoi predecessori,
nella presa in giro della “Biblioteca di Babele”
della sua epoca era stato Rabelais. Ma Flaubert va in
un cero senso oltre: anticipa la scienza e la cultura
alla maniera della ricerca su Goggle, il paradiso dell’
enciclopedismo raggiungibile con i motori di ricerca
via rete web.
C’è chi ha notato che non si tratta di
un “processo” alla scienza, e neppure di
una proposta di verità superiori, religiose,
metafisiche, ai limiti della scienza (sarebbe stato
strano per un miscredente dichiarato: “No, io
non credo a nulla. Dubito di tutto. Cosa importa?...”).
Semmai di un processo feroce a tutte le sicurezze malriposte
in nome della “scienza”, ma anche dell’economia
e della politica. La sua è una scienza ovviamente
datata. Non cita mai, ad esempio, Darwin. Ma lo zapping
del testo riserva sorprese. Discutono di geologia, chimica
e biologia e Bouvard “scaldandosi, arriva al punto
di dire che l’uomo discende dalla scimmia!”.
Anzi, prosegue sostenendo che “comparando il feto
di una donna, di una cagna, di un uccello e di una rana”
si può concludere che “l’uomo discende
dai pesci!”. Scoppiano tutti a ridere, e lui,
“senza turbarsi”, tira in ballo: “Il
Telliamed! Un libro arabo!....”. C’è
persino un’anticipazione delle polemiche sul “disegno
intelligente”. Parlano di “coscienza, tradizione
dei popoli, bisogno di un creatore”. “Lo
spettacolo dell’universo denota un’intenzione,
un piano!”, dice uno dei due cretini. “E
perché mai? Il Male è organizzato altrettanto
perfettamente del Bene… Le mostruosità
sorpassano le funzioni normali….”, gli ribatte
l’altro. Per poi, visto che non se ne viene a
capo, come in tutte le loro discussioni, su qualunque
argomento, lasciar perdere, visto che “la creazione
è fatta di una materia ondeggiante e fugace;
meglio occuparsi d’altro”. Non c’è
la procreazione assistita, ma se è per quello
i due sono disastrosi anche dal punto di vista di quella
naturale. Sperimentano quello che oggi diremmo ingegneria
genetica, cercando di incrociare specie diverse, con
risultati non meno ridicoli: “Rinnovarono i loro
tentativi su delle galline e su un’anatra, su
un molosso e una troia, nella speranza che ne risultassero
dei mostri, e non avevano capito nulla della questione
della specie”.
Si addentrano nella medicina e nella chirurgia. Si
appassionano alla dissezione dei cadaveri. E sembra
una scena preparatoria al successo strepitoso che, 125
anni dopo avrebbero avuto le mostre dei cadaveri plastinati
del dottor Gunther Von Hagen e successori (17 milioni
di visitatori in tutto il mondo, l’ultima in corso
in questi giorni a New York). Loro però si devono
accontentare di un manichino, un cadavere artificiale
fabbricato “ad uso dei paesi caldi”: “Era
di color mattone, senza capigliatura, senza pelle, con
innumerevoli venature blu, rosse e bianche… Non
somigliava ad un cadavere, ma ad una specie di giocattolo,
molto brutto, molto pulito, che sentiva di vernice.
Tolsero il torace, e videro i due polmoni, il cuore
quale un grosso uovo, un po’ di lato… il
diaframma, i reni, tutto il pacchetto dei visceri…”.
Neanche la fantasia di Flaubert è riuscita ad
immaginare i progressi cui saremmo arrivati ai giorni
nostri circa l’uso e la spettacolarizzazione dei
cadaveri, quelli dei giustiziati in Cina.
C’è, durante una loro perlustrazione geologica,
la satira definitiva di ogni catastrofismo. “Il
fuoco centrale aveva rotto la crosta del globo, sollevato
le terre, formato i crepacci. Come se un mare interno
avesse i suoi flussi e riflussi… Non riusciremmo
più a dormire se pensassimo a tutto quello che
c’è sotto in nostri piedi. Eppure il fuoco
centrale diminuisce, il sole si affievolisce, per cui
la terra perirà un giorno per raffreddamento.
Diverrà sterile; tutto si trasformerà
in anidride carbonica, e nessun essere potrà
sopravvivere”. Al che Bouvard: “Non ci siamo
ancora”. E la sua spalla Pécuchet: “Speriamo”.
“A meno che la Terra non sia annientata da un
cataclisma! Ignoriamo la lunghezza del nostro periodo”,
riprende l’altro. Ne parlano con le sicurezze
contrapposte con cui oggigiorno si discute di effetti
serra. Poi passano a parlare di terremoti. L’uno
sostiene che per fortuna “certi sconvolgimenti
in Europa non si verificano”. L’altro gli
ribatte citando il terremoto di Lisbona. Si verifica
un piccolo smottamento sulla scogliera sotto la quale
si trovano, e uno dei due scappa terrorizzato “dall’idea
di una cataclisma”. “Fermo! Fermo! Il periodo
non si è compiuto! Il periodo non si è
compiuto!”, cerca di calmarlo l’altro.
La chimica applicata all’agricoltura li lascia,
letteralmente, nella merda, che si erano tanto adoperati
per produrre anche con impegno personale (“È
dell’oro ti dico, dell’oro!!). Non si salva
la matematica, e nemmeno la grammatica: “Conclusero
che la sintassi è una fantasia, e la grammatica
un’illusione”. Non toglieremo al lettore
il gusto di scoprire cosa combinano quando passano a
discutere di teologia.
E in politica? Bouvard e Pécuchet, si fanno
da spalla, ma non si capisce mai bene in che cosa differiscano.
En passant, veniamo a sapere che, in politica,
“le loro opinioni erano le stesse, benché
Bouvard fosse forse un poco più liberale”.
Insomma l’uno appena più a sinistra (o
a destra) dell’altro. In un altro passo, apprendiamo
che “Bouvard propendeva verso il nettunismo; Pécuchet,
al contrario, era plutoniano”. Insomma come americani
ed europei, gli uni da Marte, gli altri da Venere. Entrambi
concordano nell’apprezzare, della politica, soprattutto
la teatralità: “Ciò che gli piaceva
della tragedia, era l’enfasi, il discorso sulla
politica, le massime della perversità”.
Ad un certo punto Pécuchet ce l’ha coi
proprietari di case. Qualcuno gli dà del comunista.
“Del comunista! A me!”, reagisce indignato.
E decide di fondare “un club”, cioè
un partito. Nel Dizionario: “Club: Argomento di
esasperazione per i conservatori – Imbarazzo e
discussione su come si pronuncia la parola”; Cerchia:
Bisogna sempre farne parte, almeno di una”. Discutono
del centrosinistra e vi trovano un po’ di confusione:
“Dopo Saint-Simon e Fourier, il problema si riduce
alla questione del salario. Luois Blanc, nell’interesse
degli operai, vuole che si abolisca il commercio estero;
Lafarelle, che si impongano le macchine; un altro che
si detassino gli acolici, o che si distribuisca minestra
gratis, Proudhon immagina un dazio unico, e reclama
il monopolio dello zucchero per lo Stato”. Al
che Bouvard se ne esce con un quanto mai profetico:
“Questi socialisti vogliono sempre la tirannia”,
e la discussione si trasforma in rissa. Finché
convengono che “negli utopisti ci sono cose ridicole;
tuttavia meritano il nostro amore”, perché
la bruttura del mondo li desolava, e per renderlo più
bello hanno tanto sofferto”. Non fanno una piega
quando il colpo di Stato scioglie le Camere: “Grazie
al cielo avremo ormai una politica d’affari”.
E le elezioni? Sotto la voce relativa nel Dictionnaire
des idées reçues c’è
solo: Elezioni: “…..”. Sì proprio
così: puntini, puntini….
I due impiegati – per la precisione “copisti”,
nel settore del commercio l’uno, alla marina mercantile
l’altro – che un giorno d’estate si
incontrano per caso in una via di Parigi e poi si ritirano
in campagna a continuare esperimenti e conversazioni,
sono macchiette. Il loro creatore non si limita però
a ridicolizzarli. Si immedesima in loro, finisce per
prenderne le parti. Come Cervantes si era immedesimato
in Don Chisciotte e Sancio e aveva finito col prendere
le parti di entrambi (Flaubert adorava il Don Chisciotte:
“Rileggo in questi giorni il Don Chisciotte…
prodigioso… gigantesco… che nani siamo noi
a paragone!”). È noto che Flaubert si immedesimava
nei suoi personaggi. “Madame Bovary sono io”,
scrisse. Ma nel caso di Bouvard e Pécuchet si
potrebbe anche andare oltre: “siamo noi tutti”,
verrebbe da dire.
Un lettore d’eccezione, Leonardo Sciascia, nel
suo “Appunto su Bouvard e Pécuchet”,
ripubblicato nei Cruciverba, cita una lettera che Flaubert
aveva scritto quando aveva appena nove anni al suo compagno
d’infanzia Ernest Chevallier, in cui gli propone
di scrivere “fantasticherie”, mentre lui
invece scriverà delle “sciocchezze”
che dice “una signora che viene a trovare sempre
papà”. Ne conclude che “tiene per
sé… quella parte della realtà che
gli appare aduggiata, invasa e dominata dalla stupidità”
e che “negli anni sarà sempre meno una
parte: e anzi… diventerà, nella visione
flaubertiana della vita, una parte maggiore del tutto:
qualcosa di simile insomma alla ‘volontà
generale’ di Rousseau”. Nota che Flaubert
si proponeva di scrivere un libro che producesse “una
tale impressione di stanchezza e di noia che leggendo
questo libro si potrà credere che è stato
scritto da un cretino”. “L’Idiot
de la famille”, l’idiota della famiglia,
è il suggestivo titolo del saggio sterminato
e incompiuto – e pressoché illeggibile
- che Jean-Paul Sartre avrebbe dedicato ai primi anni
di Flaubert. Sciascia si pone invece l’interrogativo:
“Ma può un uomo non stupido concludere,
imprigionandovisi dentro, un’opera sulla stupidità?”.
Poi però trova una risposta suggestiva: “Il
fascino che la stupidità esercitava su Flaubert
può essere benissimo definito da questo passo
di Savinio: ‘La stupidità, questo inconfessabile
amore, esercita su di noi un potere ipnotico, una invincibile
attiranza. Più volte l’ho sperimentato
nel tram, nei luoghi pubblici, al caffè. Sto
seduto al caffè, e accanto a me che vado errando
nei più inesplorati continenti dell’intelligenza,
seggono alcuni sconosciuti. Come avviene di solito,
esalano di discorsi di costoro una stupidità
ineffabile, ispirata, incantatrice. A poco a poco la
mia avventura si offusca, perdo la traccia del mio viaggio
solitario, cedo al richiamo primordiale della stupidità…
non penso più, non cerco più, non voglio
più… vi domando: per noi figli dell’Intelligenza,
per noi figli del Peccato, questo richiamo non è
forse quello lontanissimo, nostalgico, del Paradiso
perduto?’”. È vero: ricordo che una
sola conversazione orecchiata in uno scompartimento
di treno, molti anni fa, alla vigilia di un’importante
elezione, mi aveva insegnato sulla politica italiana
molto più di quanto avrei appreso in decenni
di editoriali sui giornali. Non vorrei passare per nostalgico
di forse inesistenti paradisi perduti. Anziché
nei caffè passo le sere a consolarmi con Flaubert
o a fare zapping in tv. Ma con la sensazione che, strada
facendo, sia andato perduto qualcosa.
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