Mondializzazione
o no, la cultura ha sempre circolato aldilà delle
barriere linguistiche, portata da testi scritti e orali
oltre i confini degli stati, dando forma a una semiosfera
transnazionale molto prima si iniziasse a parlare di
globalizzazione, come ad esempio quando Goethe parlava
di weltliterature già ai tempi della nascita
delle moderne letterature nazionali.
Viaggiano dunque i testi, viaggiano i significati, viaggiano
le culture in un territorio senza confini stabiliti,
in cui uno dei mezzi di trasporto più importanti
è la traduzione, la conversione di parole, frasi,
sintassi, da una lingua ad un’altra.
Ma cosa leggiamo quando leggiamo un testo tradotto?
Una copia dell’originale o qualcos’altro?
La traduzione è un’attività pratica,
ermeneutica, un dominio riservato ai soli poeti?
Ne abbiamo parlato con Lorenzo Flabbi, che, oltre ad
essere traduttore in proprio dall’inglese e dal
francese ed esperto di poesia e narrativa contemporanea,
insegna Linguistica e Traduttologia e Letteratura italiana
dell’Otto-Novecento a Paris III –Sorbonne
Nouvelle, e anima un gruppo di giovani ricercatori e
traduttori intorno al sito www.sguardomobile.it.
Tradizione, trasmissione, traduzione. Stesso
campo semantico. Consegnare la verità di un testo
lungo un asse verticale-temporale e uno spaziale-orizzontale.
Diffusione e trasmissione, sincronia e diacronia. Quale
ruolo ha giocato il traduttore nella costruzione-distruzione
della Verità?
La verità di un testo naturalmente non è
mai univoca. Non lo è il più delle volte
per l’autore stesso, non potrebbe esserlo a maggior
ragione per il lettore. La tensione verso la ricostruzione
di una verità testuale appartiene al mondo della
filologia, quando gli studiosi cercano di riproporre
un’opera nella forma originaria in cui era stata
concepita e che si è poi via via corrotta nel
tempo. Il traduttore, come il critico, sa che è
invece chiamato a dare un’interpretazione personale
all’interno di una molteplicità di interpretazione
possibili. Tradurre da testi che sono distanti al nostro
mondo non soltanto dal punto di vista linguistico ma
anche da quello culturale o temporale implica necessariamente
una doppia torsione interpretativa. È celebre
in questo senso la proposta di un biblista e importante
teorico della traduzione americano, Eugène Nida,
che suggeriva di tradurre per “equivalenze dinamiche”,
ovverosia in modo tale che il testo d’approdo
possa riprodurre nei suoi lettori lo stesso effetto
prodotto nei lettori che erano contemporanei all’originale.
In questo senso il “santo bacio” che san
Paolo invita a scambiarsi nelle scritture diventa, in
un contesto culturale in cui gli uomini non si baciano
quasi mai, una più moderna e prosaica “calorosa
stretta di mano”. Ovviamente c’è
il rischio di incorrere in forzature paradossali, come
per chi decidesse di tradurre “samovar”,
un oggetto così caro ai lettori di romanzi russi,
con “teiera”. La comprensione è più
immediata, ma senza dubbio meno precisa.
Le lingue, diceva Mallarmé, sono tutte
imperfette, ombre di una lingua perfetta. Cosa vuol
dire assumere l’imperfezione di una lingua in
una traduzione?
Quella di una lingua perfetta è una meravigliosa
chimera che attraversa i secoli. In molti sensi la ricerca
di una lingua unica e prebabelica, originaria di tutte
le lingue storiche, partecipa proprio di questa metafora:
il filologo Giacomo Leopardi, affascinato e rigoroso,
vi faceva riferimento chiamandola “frivolo sogno”.
La vexata questio dell’esistenza di un
antico indoeuropeo ripropone su scala minore, ma più
affidabile storicamente, le stesse caratteristiche.
Walter Benjamin, come si sa, ha scritto un saggio breve
e vertiginoso dal titolo Il compito del traduttore,
in cui si ipotizza l’esistenza di una lingua pura
che presupponga tutte le lingue del mondo, una lingua
appartenente all’Oltrestoria, e di cui tutte le
lingue storiche non sono che frammenti. Quella ventina
di pagine hanno ispirato più riflessioni che
centinaia di tomi ponderosi. Penso che in un certo senso
la letteratura nel suo complesso e in ogni sua sfaccettata
manifestazione rappresenti il tentativo dell’uomo
di parlare in quella lingua perfetta in cui tutto è
dicibile e in cui il tutto diventa comprensibile. In
nessun singolo testo può esistere la perfezione.
Naturale che questo si rifletta nella sua traduzione.
Il traduttore lo sa, e vive la sua attività nella
dimensione del frammento, sempre consapevole delle scelte
non prese, delle strade non battute. Davanti a più
possibilità che gli paiono egualmente convincenti
si danna, ma è chiamato ad operare delle scelte.
A volte può scegliere di lasciare intuire che
un altro percorso era possibile, riprodurre ambiguità
che fanno eco alle ambiguità dell’originale.
Tra il testo di partenza e quello di arrivo,
scriveva Benjamin, si pone la verità. Vuol dire
che la traduzione è sempre un’interpretazione?
Fino a dove può arrivare l’autonomia di
un traduttore in un’attività ermeneutica
come quella del tradurre?
Ogni traduzione implica un avviso metalinguistico che
solitamente esprimiamo così: “L’autore
tale dice nella sua lingua quanto segue”. Ma questa
formulazione può essere sufficiente forse in
contesti molto semplici, e solo sul piano meramente
comunicativo. Saremo tutti d’accordo che gridare
Help equivalga a gridare Aiuto se
un leone ci sta inseguendo nella savana, ma nel caso
di testi complessi dove la cosiddetta funzione estetica
gioca un ruolo predominante su quella comunicativa,
e stiamo parlando quindi della traduzione letteraria,
l’avviso va completato con alcune ulteriori precisazioni:
non solo “nella sua lingua”, ma anche “nel
suo tempo”, “nella sua condizione psicologica
(compresa, ad esempio, quella dettata dall’età,
o dal sesso, o dalla condizione economica), e, più
spesso, “nella sua letteratura”. La lingua
di un’opera che si consideri letterariamente rilevante
è necessariamente il prodotto di una data tradizione
(ed eccoci quindi tornare all’omogeneità
semantica – sebbene non etimologica – tra
traduzione e tradizione di cui parlavi tu all’inizio),
assunto senza il quale non si potrebbe cogliere il portato
innovativo di un testo, nel momento in cui esso si distanzia
da detta tradizione, né il suo inscriversi in
un determinato filone letterario. Charles Sanders Peirce,
e Jakobson prende le mosse da lui, sosteneva che interpretare
un elemento semiotico significa già tradurlo.
Il che tende naturalmente a inquadrare la traduzione
in una di quelle che Antoine Berman chiamava teorie
generalizzate della traduzione. In un contesto così
ampio il passaggio di Peirce si pone come un presupposto
imprescindibile: la piena comprensione di un segno non
potrebbe avere luogo senza ricorrere al principio di
reversibilità in un altro contesto. Il che è
vero sempre, in letteratura (come potrebbe altrimenti
leggere ed emozionarsi nelle isotopie boschive di Zanzotto
un lettore comune nato in una grossa metropoli, se non
traducendole nel suo quadro di riferimento emotivo?)
così come in ogni altro qualsivoglia ambito,
anche a un livello elementare di complessità
(come nel caso dei segnali stradali, quando non ancora
regolamentati internazionalmente). Ma in letteratura
l’operazione dell’interprete non esaurisce
i compiti di quella del traduttore, il quale è
chiamato a una resa che al momento interpretativo sovrapponga
quello della resa estetica. Riprendendo una frase nota
di Eco a proposito dei limiti dell’interpretazione,
potremmo dire che le libertà del traduttore finiscono
laddove iniziano i diritti del testo.
Molti sostengono, di fronte a pregevoli traduzioni
di scrittori-traduttori, che solo i poeti, o quantomeno
più loro di altri, siano in grado di rendere
la giusta misura poetica di un testo straniero. Quanto
c’è di vero in questa posizione?
Personalmente non sono affatto convinto che le cose
stiano così. Di sicuro possiamo dire che i grandi
poeti non sempre sono dei grandi traduttori, e talvolta
vi è persino il rischio di sopravvalutare le
versioni di una forte personalità per puro ossequio
nei confronti della sua fama, più ancora che
per una genuina ammirazione nei confronti del testo.
È il caso ad esempio delle traduzioni di Fenoglio
che sono state raccolte in un quaderno di una prestigiosa
collana dell’Einaudi: sulla grandezza del Fenoglio
scrittore non c’è nulla da discutere, ma
pubblicare le sue mediocri traduzioni poetiche strappandole
dai suoi cassetti e dall’oblio a cui certamente
le aveva destinate presta un pessimo servizio innanzitutto
a Fenoglio stesso e in secondo luogo ai poeti che si
trovano così malamente resi in italiano (e infine,
naturalmente, agli acquirenti del volume). È
vero che è frequente la posizione di chi crede
che solo uno scrittore in proprio possa avere la comprovata
maestria per rendere il tocco di un altro poeta, ma
dall’altra parte vi sono critici della traduzione
che ritengono che i poeti che traducono rischiano invece
troppo spesso di cadere nel banale tranello della sovrapposizione
di sé sull’altro, compiendo il più
delle volte una produzione minore di se stessi. Vorrei
ricordare qui le parole di Giovanni Giudici, un poeta
che ha dato prova di traduzioni di grande interesse,
per il quale si deve essere espertissimi non tanto nella
lingua straniera da cui si traduce ma anche in quella
“lingua straniera di grado ulteriore o lingua
straniera tout court che è la lingua poetica”.
Questa lingua, strumento e materia con la quale si opera
una traduzione poetica, ha dunque, necessariamente,
una doppia connotazione. Quella che potremmo impropriamente
dire nazionale (l’italiano, l’inglese, il
russo eccetera) e quella, non meno essenziale e caratterizzante,
che la distingue da tutti gli altri testi nella sua
lingua. Sto chiaramente riproducendo per sommi capi
la distinzione classica di Saussure tra la langue,
che è un insieme di codici collettivi e potenziali,
e la parole, che è invece individuale
e in atto. Henri Meschonnic, un altro traduttore della
Bibbia che è uno dei teorici della traduzione
più influenti del panorama europeo, parla in
questo senso di oralità e ritmo del testo. Fatte
queste necessarie osservazioni, per rispondere in maniera
più secca e precisa, credo che per il traduttore
di poesia sia sempre necessario avere una grande sensibilità
poetica esattamente come lo è per il critico,
ma resta ovvio – per l’uno come per l’altro
– che non sia necessario avere scritto odi o collezionato
canzonieri per esercitare al meglio la propria attività.
A un critico d’arte rinascimentale non si chiede
di saper dipingere la cappella Sistina così come
da un giornalista sportivo non si pretende che sappia
fare la Milano-Sanremo in tempi competitivi.
Il tradurre, dunque, è questione, oltre
che di ovvia passione poetica, anche e forse soprattutto
di mestiere e competenza?
La traduzione poetica mette in gioco una tale serie
di competenze specifiche (le quali partono tutte da
una intima comprensione delle sfide lanciate dal testo
di partenza), che il traduttore deve essere per forza
di cose uno studioso appassionato e competente del suo
autore. Il piano dell’intertestualità (pur
essendo ben lontano dall’essere l’unico)
è uno di quelli in cui la questione si fa più
chiara: se in una poesia c’è in sottotrama
la citazione di un altro testo, bisogna prima di tutto
accorgersene per poterlo poi trasferire nella nuova
lingua. Una delle più belle traduzioni di Baudelaire
in commercio è di uno studioso come Antonio Prete,
il quale ha deciso di tradurre i Fiori del male
proprio rispettandone le gabbie formali del metro e
della rima pur non essendo un poeta in prima persona.
Ma il discorso è valido anche per la prosa. Sono
convinto che una delle prose più influenti sulle
attuali generazioni di scrittori italiani sia quella
di Vincenzo Mantovani, che scrittore non è, almeno
che io sappia, ma che da decenni traduce magistralmente
Philiph Roth. Ammetto che quando sono passato alla lettura
di Roth nell’originale americano ho quasi sentito
la mancanza dell’italiano di Mantovani. Il che
non è affatto da intendersi come un rimprovero
a Roth.
Domanda, mi rendo conto, un po’ generica
ma dagli eventuali esiti appassionanti: come sono cambiati
la traduzione e il ruolo del traduttore nella storia
e perché?
Articolare una risposta soddisfacente richiederebbe
più tempo e spazio di quanto non ce ne vorrebbe
per tradurre un testo di Joyce. Per chi è interessato
alla questione consiglierei di cominciare da La
teoria della traduzione nella storia (Bompiani
1993), un volume agile in cui Siri Nergaard ha raccolto
alcuni testi classici di più di duemila anni
di riflessioni sull’argomento. La variazione delle
argomentazioni riflette cambiamenti più ampi
che coinvolgono anche il ruolo stesso che viene affidato
ai traduttori, che cosa si richiede che facciano e come.
Ma per sommi capi penso che la storia della traduzione
riproduca a più riprese la dicotomia che già
Cicerone aveva ben chiara, ossia la contrapposizione
tra la interpretatio ad sensum e la interpretatio
ad verbum (i termini traductio e traducere
cominciano ad essere usati nel significato attuale
solo nel Quattrocento e li dobbiamo all’aretino
Leonardo Bruni); Cicerone come è noto abbracciava
la prima, ripudiando la traduzione letterale come atta
a servirsi di puri tecnicismi. Il testo dei testi anche
in questo campo non può che essere la Bibbia,
sia per la problematica posta dalla traduzione della
parola rivelata (e Benjamin infatti indicava la traduzione
interlineare delle scritture come esempio limite) che
per il semplice fatto che è il testo più
tradotto della storia, in più di duemila lingue.
Dalla versione in latino di San Gerolamo a quella in
tedesco di Lutero fino a quelle laiche contemporanee
di Ceronetti o De Luca, non ce n’è una
che non abbia fatto discutere. È vero però
che il ruolo dei traduttori cambia a seconda delle epoche.
Nella nostra è cruciale, e credo che tutti si
sia disposti ad ammetterlo: la letteratura è
sempre meno confinata linguisticamente, per ovvie ragioni
di contaminazioni e scambi culturali. Fu fondamentale
anche nel Rinascimento, quando si ricominciò
a studiare il greco e si assistette a un vero e proprio
travaso epocale di cultura. Un traduttore ed editore
del Cinquecento come Etienne Dolet fu addirittura condannato
al rogo per l’eccessiva libertà con cui
tradusse l’Apologia di Socrate di Platone.
Furono tempi duri per i liberi pensatori, e i traduttori
si ingegnavano come potevano per fare passare alcuni
testi scomodi attraverso le maglie della censura. Questo,
insieme ad altri elementi, contribuì a far sì
che in quel periodo la traduzione venne considerata
spesso più un’imitazione che una riproduzione
fedele di un testo, e senza troppi scrupoli filologici
si tagliava, commentava e riscriveva a piacimento.
La coscienza è legata alla vista, almeno
nella lettura. L’opera del traduttore è
determinante, ma quando compriamo un libro tradotto
il suo nome, riportato con carattere minuscolo, scompare
alla vista e dunque alla consapevolezza. Il che la dice
lunga sulla sua posizione nell’industria editoriale.
Quanto investono oggi le case editrici nella qualità
della traduzione e che ruolo dovrebbe ricoprire il traduttore
nell’attività editoriale?
Tempo fa è stato lanciato in internet un appello
dal titolo “Cavalieri erranti della letteratura”,
in cui si riprendeva un’epica definizione di Fruttero
e Lucentini; si tratta di una lettera aperta alla stampa
nella quale i moltissimi firmatari rivendicano maggiore
rispetto e un giusto riconoscimento per la figura troppo
spesso trascurata del traduttore (la si può trovare
all’indirizzo web: http://www.biblit.it/cavalieri_erranti.htm). Il punto è che i
salari e i ritmi pressanti con cui vengono commissionate
molte traduzioni riflettono un’idea miope e mercantile
dell’editoria, senza progettualità culturale
ad ampia portata. Ma non è sempre così,
e le iniziative lodevoli non mancano di certo.
Qualche esempio?
Lo splendido lavoro fatto da case editrici come la
Fandango o la Minimum Fax nel far conoscere in Italia
autori come David Foster Wallace o Dave Eggers è
stato accompagnato anche da traduzioni sempre soddisfacenti,
spesso affidate a giovani preparati e appassionati.
Qual è la situazione per quanto riguarda
la poesia?
La specifica complessità della poesia fa sì
che siano proprio i libri in versi a essere più
danneggiati dalle traduzioni frettolose e superficiali.
A volte ci si sorprende di come un autore possa essere
apprezzato in Italia quando non circolano del suo lavoro
che versioni inaccettabili. Faccio un esempio a me caro.
T.S.Eliot è arrivato a un certo punto del suo
percorso alla convinzione che si dovesse tornare a proporre
un teatro di poesia, cosa che suonava quasi come una
provocazione di retroguardia. Per molti anni si è
buttato alla ricerca di quale fosse il verso da usare
sul palcoscenico, e abbiamo testimonianza di questa
evoluzione sia sul piano teorico in splendidi saggi
che su quello operativo con i vari lavori teatrali che
andava scrivendo. L’approdo di questa ricerca
l’abbiamo nelle sue commedie borghesi, almeno
da Cocktail Party in poi, che sono scritte
con un verso che ha certe caratteristiche prosodiche,
variabili ma precise che forse non è il caso
di esporre qui. Sono convinto che tentare di riprodurre
quelle caratteristiche sia prioritario rispetto all’ossequio
ai significati letterali dimostrato invece dai suoi
pur prestigiosi traduttori. Il fatto è che in
questi casi l’editore non può controllare
il lavoro dei traduttori perché non può
che delegare a costoro le competenze di piani così
sottili del discorso testuale. La critica della traduzione,
che si sta imponendo in questi ultimi decenni come una
disciplina particolare della critica letteraria, parte
dal presupposto che alla traduzione sia da assegnare
lo statuto pieno di testo, e non di semplice emanazione
di un testo assente. Il che significa giustamente caricare
il traduttore di responsabilità dirette. E con
le responsabilità arrivano anche gli onori. Il
premio Monselice è un bel punto di riferimento
in questo senso, ma nel complesso il panorama culturale
è ancora lontano dall’aver assimilato l’importanza
della partita che si gioca nella riscrittura di un’opera
in un’altra lingua. Siamo ancora nel mondo descritto
da Lawrence Venuti quando denunciava la invisibilità
del traduttore: l’invisibilità gli viene
richiesta per motivi sempre più superficiali
di quanto non si abbia la tendenza ad ammettere. Il
traduttore, in quanto soggetto, non è mai trasparente
e il testo, come dicevamo prima, non è mai riducibile
a un’unica lettura. Il traduttore si fa quindi
a tutti gli effetti coautore, e il suo nome dovrebbe
comparire sistematicamente sulla copertina dei libri
di letteratura. Aggiungo anche che i lavori dovrebbero
essere ricompensati in base all’impegno culturale
profuso e non al numero di cartelle, ma qui mi sembra
di tornare nella sfera dei frivoli sogni.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|