292 - 09.01.06


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I cavalieri invisibili della letteratura

Lorenzo Flabbi
con Luca Sebastiani



Mondializzazione o no, la cultura ha sempre circolato aldilà delle barriere linguistiche, portata da testi scritti e orali oltre i confini degli stati, dando forma a una semiosfera transnazionale molto prima si iniziasse a parlare di globalizzazione, come ad esempio quando Goethe parlava di weltliterature già ai tempi della nascita delle moderne letterature nazionali.
Viaggiano dunque i testi, viaggiano i significati, viaggiano le culture in un territorio senza confini stabiliti, in cui uno dei mezzi di trasporto più importanti è la traduzione, la conversione di parole, frasi, sintassi, da una lingua ad un’altra.
Ma cosa leggiamo quando leggiamo un testo tradotto? Una copia dell’originale o qualcos’altro? La traduzione è un’attività pratica, ermeneutica, un dominio riservato ai soli poeti?
Ne abbiamo parlato con Lorenzo Flabbi, che, oltre ad essere traduttore in proprio dall’inglese e dal francese ed esperto di poesia e narrativa contemporanea, insegna Linguistica e Traduttologia e Letteratura italiana dell’Otto-Novecento a Paris III –Sorbonne Nouvelle, e anima un gruppo di giovani ricercatori e traduttori intorno al sito www.sguardomobile.it.

Tradizione, trasmissione, traduzione. Stesso campo semantico. Consegnare la verità di un testo lungo un asse verticale-temporale e uno spaziale-orizzontale. Diffusione e trasmissione, sincronia e diacronia. Quale ruolo ha giocato il traduttore nella costruzione-distruzione della Verità?

La verità di un testo naturalmente non è mai univoca. Non lo è il più delle volte per l’autore stesso, non potrebbe esserlo a maggior ragione per il lettore. La tensione verso la ricostruzione di una verità testuale appartiene al mondo della filologia, quando gli studiosi cercano di riproporre un’opera nella forma originaria in cui era stata concepita e che si è poi via via corrotta nel tempo. Il traduttore, come il critico, sa che è invece chiamato a dare un’interpretazione personale all’interno di una molteplicità di interpretazione possibili. Tradurre da testi che sono distanti al nostro mondo non soltanto dal punto di vista linguistico ma anche da quello culturale o temporale implica necessariamente una doppia torsione interpretativa. È celebre in questo senso la proposta di un biblista e importante teorico della traduzione americano, Eugène Nida, che suggeriva di tradurre per “equivalenze dinamiche”, ovverosia in modo tale che il testo d’approdo possa riprodurre nei suoi lettori lo stesso effetto prodotto nei lettori che erano contemporanei all’originale. In questo senso il “santo bacio” che san Paolo invita a scambiarsi nelle scritture diventa, in un contesto culturale in cui gli uomini non si baciano quasi mai, una più moderna e prosaica “calorosa stretta di mano”. Ovviamente c’è il rischio di incorrere in forzature paradossali, come per chi decidesse di tradurre “samovar”, un oggetto così caro ai lettori di romanzi russi, con “teiera”. La comprensione è più immediata, ma senza dubbio meno precisa.

Le lingue, diceva Mallarmé, sono tutte imperfette, ombre di una lingua perfetta. Cosa vuol dire assumere l’imperfezione di una lingua in una traduzione?

Quella di una lingua perfetta è una meravigliosa chimera che attraversa i secoli. In molti sensi la ricerca di una lingua unica e prebabelica, originaria di tutte le lingue storiche, partecipa proprio di questa metafora: il filologo Giacomo Leopardi, affascinato e rigoroso, vi faceva riferimento chiamandola “frivolo sogno”. La vexata questio dell’esistenza di un antico indoeuropeo ripropone su scala minore, ma più affidabile storicamente, le stesse caratteristiche. Walter Benjamin, come si sa, ha scritto un saggio breve e vertiginoso dal titolo Il compito del traduttore, in cui si ipotizza l’esistenza di una lingua pura che presupponga tutte le lingue del mondo, una lingua appartenente all’Oltrestoria, e di cui tutte le lingue storiche non sono che frammenti. Quella ventina di pagine hanno ispirato più riflessioni che centinaia di tomi ponderosi. Penso che in un certo senso la letteratura nel suo complesso e in ogni sua sfaccettata manifestazione rappresenti il tentativo dell’uomo di parlare in quella lingua perfetta in cui tutto è dicibile e in cui il tutto diventa comprensibile. In nessun singolo testo può esistere la perfezione. Naturale che questo si rifletta nella sua traduzione. Il traduttore lo sa, e vive la sua attività nella dimensione del frammento, sempre consapevole delle scelte non prese, delle strade non battute. Davanti a più possibilità che gli paiono egualmente convincenti si danna, ma è chiamato ad operare delle scelte. A volte può scegliere di lasciare intuire che un altro percorso era possibile, riprodurre ambiguità che fanno eco alle ambiguità dell’originale.

Tra il testo di partenza e quello di arrivo, scriveva Benjamin, si pone la verità. Vuol dire che la traduzione è sempre un’interpretazione? Fino a dove può arrivare l’autonomia di un traduttore in un’attività ermeneutica come quella del tradurre?

Ogni traduzione implica un avviso metalinguistico che solitamente esprimiamo così: “L’autore tale dice nella sua lingua quanto segue”. Ma questa formulazione può essere sufficiente forse in contesti molto semplici, e solo sul piano meramente comunicativo. Saremo tutti d’accordo che gridare Help equivalga a gridare Aiuto se un leone ci sta inseguendo nella savana, ma nel caso di testi complessi dove la cosiddetta funzione estetica gioca un ruolo predominante su quella comunicativa, e stiamo parlando quindi della traduzione letteraria, l’avviso va completato con alcune ulteriori precisazioni: non solo “nella sua lingua”, ma anche “nel suo tempo”, “nella sua condizione psicologica (compresa, ad esempio, quella dettata dall’età, o dal sesso, o dalla condizione economica), e, più spesso, “nella sua letteratura”. La lingua di un’opera che si consideri letterariamente rilevante è necessariamente il prodotto di una data tradizione (ed eccoci quindi tornare all’omogeneità semantica – sebbene non etimologica – tra traduzione e tradizione di cui parlavi tu all’inizio), assunto senza il quale non si potrebbe cogliere il portato innovativo di un testo, nel momento in cui esso si distanzia da detta tradizione, né il suo inscriversi in un determinato filone letterario. Charles Sanders Peirce, e Jakobson prende le mosse da lui, sosteneva che interpretare un elemento semiotico significa già tradurlo. Il che tende naturalmente a inquadrare la traduzione in una di quelle che Antoine Berman chiamava teorie generalizzate della traduzione. In un contesto così ampio il passaggio di Peirce si pone come un presupposto imprescindibile: la piena comprensione di un segno non potrebbe avere luogo senza ricorrere al principio di reversibilità in un altro contesto. Il che è vero sempre, in letteratura (come potrebbe altrimenti leggere ed emozionarsi nelle isotopie boschive di Zanzotto un lettore comune nato in una grossa metropoli, se non traducendole nel suo quadro di riferimento emotivo?) così come in ogni altro qualsivoglia ambito, anche a un livello elementare di complessità (come nel caso dei segnali stradali, quando non ancora regolamentati internazionalmente). Ma in letteratura l’operazione dell’interprete non esaurisce i compiti di quella del traduttore, il quale è chiamato a una resa che al momento interpretativo sovrapponga quello della resa estetica. Riprendendo una frase nota di Eco a proposito dei limiti dell’interpretazione, potremmo dire che le libertà del traduttore finiscono laddove iniziano i diritti del testo.

Molti sostengono, di fronte a pregevoli traduzioni di scrittori-traduttori, che solo i poeti, o quantomeno più loro di altri, siano in grado di rendere la giusta misura poetica di un testo straniero. Quanto c’è di vero in questa posizione?

Personalmente non sono affatto convinto che le cose stiano così. Di sicuro possiamo dire che i grandi poeti non sempre sono dei grandi traduttori, e talvolta vi è persino il rischio di sopravvalutare le versioni di una forte personalità per puro ossequio nei confronti della sua fama, più ancora che per una genuina ammirazione nei confronti del testo. È il caso ad esempio delle traduzioni di Fenoglio che sono state raccolte in un quaderno di una prestigiosa collana dell’Einaudi: sulla grandezza del Fenoglio scrittore non c’è nulla da discutere, ma pubblicare le sue mediocri traduzioni poetiche strappandole dai suoi cassetti e dall’oblio a cui certamente le aveva destinate presta un pessimo servizio innanzitutto a Fenoglio stesso e in secondo luogo ai poeti che si trovano così malamente resi in italiano (e infine, naturalmente, agli acquirenti del volume). È vero che è frequente la posizione di chi crede che solo uno scrittore in proprio possa avere la comprovata maestria per rendere il tocco di un altro poeta, ma dall’altra parte vi sono critici della traduzione che ritengono che i poeti che traducono rischiano invece troppo spesso di cadere nel banale tranello della sovrapposizione di sé sull’altro, compiendo il più delle volte una produzione minore di se stessi. Vorrei ricordare qui le parole di Giovanni Giudici, un poeta che ha dato prova di traduzioni di grande interesse, per il quale si deve essere espertissimi non tanto nella lingua straniera da cui si traduce ma anche in quella “lingua straniera di grado ulteriore o lingua straniera tout court che è la lingua poetica”. Questa lingua, strumento e materia con la quale si opera una traduzione poetica, ha dunque, necessariamente, una doppia connotazione. Quella che potremmo impropriamente dire nazionale (l’italiano, l’inglese, il russo eccetera) e quella, non meno essenziale e caratterizzante, che la distingue da tutti gli altri testi nella sua lingua. Sto chiaramente riproducendo per sommi capi la distinzione classica di Saussure tra la langue, che è un insieme di codici collettivi e potenziali, e la parole, che è invece individuale e in atto. Henri Meschonnic, un altro traduttore della Bibbia che è uno dei teorici della traduzione più influenti del panorama europeo, parla in questo senso di oralità e ritmo del testo. Fatte queste necessarie osservazioni, per rispondere in maniera più secca e precisa, credo che per il traduttore di poesia sia sempre necessario avere una grande sensibilità poetica esattamente come lo è per il critico, ma resta ovvio – per l’uno come per l’altro – che non sia necessario avere scritto odi o collezionato canzonieri per esercitare al meglio la propria attività. A un critico d’arte rinascimentale non si chiede di saper dipingere la cappella Sistina così come da un giornalista sportivo non si pretende che sappia fare la Milano-Sanremo in tempi competitivi.

Il tradurre, dunque, è questione, oltre che di ovvia passione poetica, anche e forse soprattutto di mestiere e competenza?

La traduzione poetica mette in gioco una tale serie di competenze specifiche (le quali partono tutte da una intima comprensione delle sfide lanciate dal testo di partenza), che il traduttore deve essere per forza di cose uno studioso appassionato e competente del suo autore. Il piano dell’intertestualità (pur essendo ben lontano dall’essere l’unico) è uno di quelli in cui la questione si fa più chiara: se in una poesia c’è in sottotrama la citazione di un altro testo, bisogna prima di tutto accorgersene per poterlo poi trasferire nella nuova lingua. Una delle più belle traduzioni di Baudelaire in commercio è di uno studioso come Antonio Prete, il quale ha deciso di tradurre i Fiori del male proprio rispettandone le gabbie formali del metro e della rima pur non essendo un poeta in prima persona. Ma il discorso è valido anche per la prosa. Sono convinto che una delle prose più influenti sulle attuali generazioni di scrittori italiani sia quella di Vincenzo Mantovani, che scrittore non è, almeno che io sappia, ma che da decenni traduce magistralmente Philiph Roth. Ammetto che quando sono passato alla lettura di Roth nell’originale americano ho quasi sentito la mancanza dell’italiano di Mantovani. Il che non è affatto da intendersi come un rimprovero a Roth.

Domanda, mi rendo conto, un po’ generica ma dagli eventuali esiti appassionanti: come sono cambiati la traduzione e il ruolo del traduttore nella storia e perché?

Articolare una risposta soddisfacente richiederebbe più tempo e spazio di quanto non ce ne vorrebbe per tradurre un testo di Joyce. Per chi è interessato alla questione consiglierei di cominciare da La teoria della traduzione nella storia (Bompiani 1993), un volume agile in cui Siri Nergaard ha raccolto alcuni testi classici di più di duemila anni di riflessioni sull’argomento. La variazione delle argomentazioni riflette cambiamenti più ampi che coinvolgono anche il ruolo stesso che viene affidato ai traduttori, che cosa si richiede che facciano e come. Ma per sommi capi penso che la storia della traduzione riproduca a più riprese la dicotomia che già Cicerone aveva ben chiara, ossia la contrapposizione tra la interpretatio ad sensum e la interpretatio ad verbum (i termini traductio e traducere cominciano ad essere usati nel significato attuale solo nel Quattrocento e li dobbiamo all’aretino Leonardo Bruni); Cicerone come è noto abbracciava la prima, ripudiando la traduzione letterale come atta a servirsi di puri tecnicismi. Il testo dei testi anche in questo campo non può che essere la Bibbia, sia per la problematica posta dalla traduzione della parola rivelata (e Benjamin infatti indicava la traduzione interlineare delle scritture come esempio limite) che per il semplice fatto che è il testo più tradotto della storia, in più di duemila lingue. Dalla versione in latino di San Gerolamo a quella in tedesco di Lutero fino a quelle laiche contemporanee di Ceronetti o De Luca, non ce n’è una che non abbia fatto discutere. È vero però che il ruolo dei traduttori cambia a seconda delle epoche. Nella nostra è cruciale, e credo che tutti si sia disposti ad ammetterlo: la letteratura è sempre meno confinata linguisticamente, per ovvie ragioni di contaminazioni e scambi culturali. Fu fondamentale anche nel Rinascimento, quando si ricominciò a studiare il greco e si assistette a un vero e proprio travaso epocale di cultura. Un traduttore ed editore del Cinquecento come Etienne Dolet fu addirittura condannato al rogo per l’eccessiva libertà con cui tradusse l’Apologia di Socrate di Platone. Furono tempi duri per i liberi pensatori, e i traduttori si ingegnavano come potevano per fare passare alcuni testi scomodi attraverso le maglie della censura. Questo, insieme ad altri elementi, contribuì a far sì che in quel periodo la traduzione venne considerata spesso più un’imitazione che una riproduzione fedele di un testo, e senza troppi scrupoli filologici si tagliava, commentava e riscriveva a piacimento.

La coscienza è legata alla vista, almeno nella lettura. L’opera del traduttore è determinante, ma quando compriamo un libro tradotto il suo nome, riportato con carattere minuscolo, scompare alla vista e dunque alla consapevolezza. Il che la dice lunga sulla sua posizione nell’industria editoriale. Quanto investono oggi le case editrici nella qualità della traduzione e che ruolo dovrebbe ricoprire il traduttore nell’attività editoriale?

Tempo fa è stato lanciato in internet un appello dal titolo “Cavalieri erranti della letteratura”, in cui si riprendeva un’epica definizione di Fruttero e Lucentini; si tratta di una lettera aperta alla stampa nella quale i moltissimi firmatari rivendicano maggiore rispetto e un giusto riconoscimento per la figura troppo spesso trascurata del traduttore (la si può trovare all’indirizzo web: http://www.biblit.it/cavalieri_erranti.htm). Il punto è che i salari e i ritmi pressanti con cui vengono commissionate molte traduzioni riflettono un’idea miope e mercantile dell’editoria, senza progettualità culturale ad ampia portata. Ma non è sempre così, e le iniziative lodevoli non mancano di certo.

Qualche esempio?

Lo splendido lavoro fatto da case editrici come la Fandango o la Minimum Fax nel far conoscere in Italia autori come David Foster Wallace o Dave Eggers è stato accompagnato anche da traduzioni sempre soddisfacenti, spesso affidate a giovani preparati e appassionati.

Qual è la situazione per quanto riguarda la poesia?

La specifica complessità della poesia fa sì che siano proprio i libri in versi a essere più danneggiati dalle traduzioni frettolose e superficiali. A volte ci si sorprende di come un autore possa essere apprezzato in Italia quando non circolano del suo lavoro che versioni inaccettabili. Faccio un esempio a me caro. T.S.Eliot è arrivato a un certo punto del suo percorso alla convinzione che si dovesse tornare a proporre un teatro di poesia, cosa che suonava quasi come una provocazione di retroguardia. Per molti anni si è buttato alla ricerca di quale fosse il verso da usare sul palcoscenico, e abbiamo testimonianza di questa evoluzione sia sul piano teorico in splendidi saggi che su quello operativo con i vari lavori teatrali che andava scrivendo. L’approdo di questa ricerca l’abbiamo nelle sue commedie borghesi, almeno da Cocktail Party in poi, che sono scritte con un verso che ha certe caratteristiche prosodiche, variabili ma precise che forse non è il caso di esporre qui. Sono convinto che tentare di riprodurre quelle caratteristiche sia prioritario rispetto all’ossequio ai significati letterali dimostrato invece dai suoi pur prestigiosi traduttori. Il fatto è che in questi casi l’editore non può controllare il lavoro dei traduttori perché non può che delegare a costoro le competenze di piani così sottili del discorso testuale. La critica della traduzione, che si sta imponendo in questi ultimi decenni come una disciplina particolare della critica letteraria, parte dal presupposto che alla traduzione sia da assegnare lo statuto pieno di testo, e non di semplice emanazione di un testo assente. Il che significa giustamente caricare il traduttore di responsabilità dirette. E con le responsabilità arrivano anche gli onori. Il premio Monselice è un bel punto di riferimento in questo senso, ma nel complesso il panorama culturale è ancora lontano dall’aver assimilato l’importanza della partita che si gioca nella riscrittura di un’opera in un’altra lingua. Siamo ancora nel mondo descritto da Lawrence Venuti quando denunciava la invisibilità del traduttore: l’invisibilità gli viene richiesta per motivi sempre più superficiali di quanto non si abbia la tendenza ad ammettere. Il traduttore, in quanto soggetto, non è mai trasparente e il testo, come dicevamo prima, non è mai riducibile a un’unica lettura. Il traduttore si fa quindi a tutti gli effetti coautore, e il suo nome dovrebbe comparire sistematicamente sulla copertina dei libri di letteratura. Aggiungo anche che i lavori dovrebbero essere ricompensati in base all’impegno culturale profuso e non al numero di cartelle, ma qui mi sembra di tornare nella sfera dei frivoli sogni.

 


 

 

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