Mestiere
nobile, quello del traduttore letterario. Un “gioco
funambolico” che si muove nel punto più
alto della comunicazione e dello scambio tra culture:
la sua materia prima è l'opera d'arte, l'espressione
più ricca e complessa di una società.
Lo sa bene Francesco Durante, giornalista, scrittore
e traduttore che lega il suo nome ad autori come John
Fante, del quale ha tradotto sei romanzi, Raymond Carver
e Breat Easton Ellis. Da poco lo troviamo in libreria,
questa volta come autore, con il secondo volume di Italoamericana,
opera imponente dedicata alla storia e alla letteratura
degli italiani negli Stati Uniti dal 1880 al 1943. Con
lui abbiamo parlato di letteratura e dei vizi e virtù
della traduzione letteraria.
Umberto Eco ha chiamato una sua raccolta di
saggi sulla traduzione “Dire quasi la stessa cosa”:
cosa significa, nella sua esperienza, questo “quasi”?
Quel “quasi” rappresenta l'impossibilità
di tradurre veramente. In un'epoca come quella che stiamo
vivendo, l'ideale sarebbe fare a meno di tradurre perché
la traduzione ha sempre in sé un nucleo di infedeltà.
Per me, in quel “quasi” c'è la necessità
di rapportarsi intelligentemente con il testo di partenza
senza perdere mai di vista le esigenze del testo di
arrivo. A questo aggiungerei la necessità di
ritrovare nella traduzione il sound: questa
è una delle principali aporie della traduzione.
Uno scrittore è tale proprio per il suo stile
riconoscibile, fatto anche di vezzi e tic che lo rendono
particolare e quando lo si trasporta in un'altra lingua
si hanno possibilità per cercare di restituire
al testo originale il suo sapore particolare. Per fare
un esempio, penso a Philip Roth: il primo Roth italiano,
tradotto da Pier Francesco Paolini, aveva un suono decisamente
toscaneggiante. Se guardiamo il Roth italiano da Pastorale
Americana in poi, abbiamo quasi un altro scrittore
e, forse, uno scrittore più credibile. Per fare
un altro esempio illustre, pensiamo alla discussione
sullo stile di Hemingway, sul ricorrere dei “disse”
nel testo. Quei “disse” non erano altro
che una traduzione pleonastica dell'uso americano della
lingua che specifica il soggetto: una traduzione pleonastica,
quindi “sbagliata”, ha dato ad Hemingway
tradotto uno stile che ha influenzato poi tanta letteratura
italiana.
Lo scrittore ungherese Dezsö Kosztolányi
ha detto: “il traduttore crea un falso dal vero:
tradurre significa eseguire una danza con mani e piedi
legati”. Ha mai avuto voglia di scioglierle, queste
mani e questi piedi? Quanto è forte la tentazione
creativa per il traduttore?
Nella mia esperienza, ho sempre cercato di trovare
le costanti del suono del testo da cui partivo, cercando
di restituirli in italiano, anche se questo poteva comportare
la necessità di forzare il testo originale. Penso
che una certa libertà il traduttore debba prendersela,
usandola però con moderazione: non sono rari
i casi in cui la traduzione migliora il testo di partenza.
In italia abbiamo avuto tantissimi esempi: pensiamo
a quando gli scrittori affrontavano le traduzioni senza
conoscere davvero bene la lingua o mettevano pesantemente
le mani nelle traduzioni altrui. La traduzione somiglia
a quei giochi funambolici di Perec, Queneau: si deve
rispettare il testo e allo stesso tempo rispettare uno
stile.
Il mondo, la cultura di chi traduce, entra
in qualche modo nell'opera tradotta?
Questo è inevitabile.
La traduzione allora, secondo lei, è
più colonizzazione o più negoziazione?
Storicamente, non sono in grado di dimostrarlo, ma
credo che dipenda dal paese di provenienza dello scrittore
che si sta traducendo. Sicuramente, quando si ha a che
fare con uno scrittore americano, si ha la tendenza
ad autocolonizzarsi, mentre succede il contrario con
un testo che provenga da paesi non altrettanto dominanti
sulla scena mondiale. Nei confronti della letteratura
americana c'è un complesso di inferiorità
abbastanza diffuso, forse anche inconsapevole. Mi capita
spesso di prendere romanzi americani e di accorgermi
che non sono stati realmente tradotti. Succede in letteratura
quello che in un certo senso accade al cinema, dove
molti titoli americani non vengono neanche tradotti.
Fino a qualche tempo fa, anche se a volte gli esiti
potevano essere esilaranti, almeno ci si provava.
Quest'anno è uscito il secondo volume
di Italoamericana nel quale lei parla di quella
generazione di scrittori italiani emigrati che per primi
rinunciano ad esprimersi in italiano per adottare la
lingua inglese.
Quello è un esito necessario dovuto principalmente
a due motivi. Il primo è la “carriera”:
per chi avesse ambizioni letterarie era logico porsi
il problema di raggiungere un pubblico più vasto
che non quello limitato alle comunità come Little
Italy o Pequeña Italia. C'è poi la questione
dell'inevitabile evoluzione linguistica delle comunità
stesse. Questa prima generazione che scrive direttamente
in inglese lo fa con una straordinaria intensità
ed è l'intensità di chi, tra gli altri
bisogni, avverte la necessità di far capire il
mondo degli emigranti a chi non ne fa parte ed è
portato a guardarlo con pregiudizio. Tra tutti i passaggi
linguistici trovo che sia uno dei più eroici.
Qualcuno di questi scrittori l'ha colpita in
modo particolare?
In quella stagione abbiamo personaggi come Pascal D'Angelo,
che per impadronirsi dell'inglese compie sacrifici enormi:
manovale nel cantiere di una ferrovia, dopo aver lavorato
quindici ore al giorno si ritirava nella baracca e studiava
il vocabolario inglese. La storia di Pascal D'Angelo
è bellissima: lui che studia il vocabolario inglese
di notte diventando così padrone della lingua
da battere anche i suoi colleghi anglofoni in gare di
significato lessicale.
Questa generazione di scrittori ha dato vita,
in qualche modo, a una sorta di influenza “di
ritorno” nella cultura italiana? È arrivato
qualcosa o sono esperienze che sono state accantonate
dal mondo culturale del nostro paese?
Al tempo non c'era nessun rapporto tra il mondo degli
emigranti e la cultura letteraria italiana, convinta
che gli emigranti fossero una mandria di bruti analfabeti.
Ma questo atteggiamento elitario e classista è
tradizionale nella letteratura italiana: i nomi degli
scrittori emigrati sono nomi popolari, nomi che nel
salotto buono e aristocratico della letteratura italiana
non ci sono mai entrati. Non mancano i paradossi, però:
dopo la sua riscoperta postuma, con un effetto ritardato
di circa mezzo secolo, John Fante è oggi un autore
che sicuramente conta nella formazione dei giovani scrittori
italiani. Vittorini, nella sua Americana, a
suo tempo lo scelse come ultimo scrittore antologizzato,
un posto estremamente privilegiato perché riservato
normalmente allo scrittore più nuovo e sul quale
si fa più affidamento per il futuro. Dopo Vittorini
e la riscoperta che passa attraverso Bukowski pensiamo
a quanto Fante sia stato amato da autori come Sandro
Veronesi o Pier Vittorio Tondelli.
E la generazione precedente a Fante?
Quanto a quelli prima di lui, in Italia li si conosce
ancora molto poco e dubito che potranno avere un successo
pari ma forse, in questo generale risveglio di attenzione
verso la nostra storia di migranti, non si può
escludere che questi scrittori diventino in futuro oggetto
di maggiore attenzione. Il nostro, da paese di emigranti,
si è trasformato in paese di immigranti: per
conoscere il problema attuale dobbiamo quindi rivolgerci
al nostro passato. C'è tutto un immaginario che
stiamo riscoprendo, archetipi che fanno parte della
nostra storia e continuano ad essere estremamente produttivi
anche oggi.
Una curiosità: come è maturata
la scelta di tradurre Fante? E di solito come sceglie
le opere da tradurre?
Avevo tradotto due romanzi di Breat Easton Ellis ,
uno scrittore estremamente di moda alla fine degli anni
Ottanta. Pier Vittorio Tondelli, al quale era stata
affidata la direzione dell'Ottagono Mondadori, mi propose
di tradurre un romanzo di Fante dal titolo I sogni
di Bunker Hill. Avevo da poco letto Chiedi
alla polvere con la prefazione di Bukowski ripubblicato
da SugarCo., mi era piaciuto e quando mi arrivò
la proposta l'accettai volentieri: caddi dentro John
Fante e mi appassionai. La prima domanda fu chiedermi
da dove venisse questo scrittore, cosa ci fosse alle
sue spalle: scoprii un mondo italofono che diventa americano
e che nascondeva un'odissea che valeva la pena raccontare.
Cosa significa tradurre autori così
diversi come Fante ed Ellis che praticano linguaggi
e generi molto diversi?
Tutti abbiamo interessi molteplici. Tradussi Ellis
in un periodo in cui mi piaceva molto la musica rock,
i videoclip erano una novità affascinante ed
Ellis era in un certo senso familiare a questo mondo.
Con Fante fu diverso: per me è stato un maestro.
Mi ha insegnato a ritrovare dei sentimenti che proprio
la cultura rock, la cultura alternativa degli anni Settanta
aveva messo in ombra, come il culto del padre. Tutto
questo, Fante lo fa circolare in modo così fresco
e spontaneo, in modo giovane, perché Fante è
uno scrittore eternamente giovane, che mi conquistò.
Se la domanda è se il traduttore sia costretto
ad essere una specie di proteo multiforme, la risposta
è sì, in parte sì. A me è
successo di fare questo mestiere per mia scelta ma ci
sono traduttori che, facendo soltanto i traduttori,
sono costretti a un approccio industriale ed è
un problema di non poco conto, ne va della qualità.
I traduttori in Italia sono generalmente mal pagati
e sono costretti a produrre molto, a volte troppo, senza
avere il tempo di curare il proprio lavoro. Spesso poi
le case editrici si trasformano in librifici dove mancano
il tempo e le redazioni adeguate per rivedere i lavori,
ed il gioco è fatto. Quando il nostro paese sarà
completamente bilingue non ci sarà più
bisogno di tradurre: sarà un momento triste perché
saremo bilingui ma la lingua madre, per così
dire, sarà diventata l'inglese.
Potremmo dire che tutto il Novecento è
stato il secolo della traduzione? L'arte, la letteratura,
la scienza del secolo rimandano a nomi di emigranti,
persone che hanno dovuto imparare ad essere essi stessi
luogo e veicolo di scambio tra culture.
Questo è uno dei tratti fondamentali del nostro
tempo: la straordinaria mobilità intellettuale.
L'emigrazione è il grande tema del nostro tempo
e tutta la storia dell'umanità è una storia
di meticciato continuo: dispiace per il presidente Pera,
ma l'incontro tra le culture è il momento più
fecondo per garantire il progresso.
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