292 - 09.01.06


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Un funambolo tra gli scrittori

Francesco Durante
con Giorgia Capoccia



Mestiere nobile, quello del traduttore letterario. Un “gioco funambolico” che si muove nel punto più alto della comunicazione e dello scambio tra culture: la sua materia prima è l'opera d'arte, l'espressione più ricca e complessa di una società. Lo sa bene Francesco Durante, giornalista, scrittore e traduttore che lega il suo nome ad autori come John Fante, del quale ha tradotto sei romanzi, Raymond Carver e Breat Easton Ellis. Da poco lo troviamo in libreria, questa volta come autore, con il secondo volume di Italoamericana, opera imponente dedicata alla storia e alla letteratura degli italiani negli Stati Uniti dal 1880 al 1943. Con lui abbiamo parlato di letteratura e dei vizi e virtù della traduzione letteraria.

Umberto Eco ha chiamato una sua raccolta di saggi sulla traduzione “Dire quasi la stessa cosa”: cosa significa, nella sua esperienza, questo “quasi”?

Quel “quasi” rappresenta l'impossibilità di tradurre veramente. In un'epoca come quella che stiamo vivendo, l'ideale sarebbe fare a meno di tradurre perché la traduzione ha sempre in sé un nucleo di infedeltà. Per me, in quel “quasi” c'è la necessità di rapportarsi intelligentemente con il testo di partenza senza perdere mai di vista le esigenze del testo di arrivo. A questo aggiungerei la necessità di ritrovare nella traduzione il sound: questa è una delle principali aporie della traduzione. Uno scrittore è tale proprio per il suo stile riconoscibile, fatto anche di vezzi e tic che lo rendono particolare e quando lo si trasporta in un'altra lingua si hanno possibilità per cercare di restituire al testo originale il suo sapore particolare. Per fare un esempio, penso a Philip Roth: il primo Roth italiano, tradotto da Pier Francesco Paolini, aveva un suono decisamente toscaneggiante. Se guardiamo il Roth italiano da Pastorale Americana in poi, abbiamo quasi un altro scrittore e, forse, uno scrittore più credibile. Per fare un altro esempio illustre, pensiamo alla discussione sullo stile di Hemingway, sul ricorrere dei “disse” nel testo. Quei “disse” non erano altro che una traduzione pleonastica dell'uso americano della lingua che specifica il soggetto: una traduzione pleonastica, quindi “sbagliata”, ha dato ad Hemingway tradotto uno stile che ha influenzato poi tanta letteratura italiana.

Lo scrittore ungherese Dezsö Kosztolányi ha detto: “il traduttore crea un falso dal vero: tradurre significa eseguire una danza con mani e piedi legati”. Ha mai avuto voglia di scioglierle, queste mani e questi piedi? Quanto è forte la tentazione creativa per il traduttore?

Nella mia esperienza, ho sempre cercato di trovare le costanti del suono del testo da cui partivo, cercando di restituirli in italiano, anche se questo poteva comportare la necessità di forzare il testo originale. Penso che una certa libertà il traduttore debba prendersela, usandola però con moderazione: non sono rari i casi in cui la traduzione migliora il testo di partenza. In italia abbiamo avuto tantissimi esempi: pensiamo a quando gli scrittori affrontavano le traduzioni senza conoscere davvero bene la lingua o mettevano pesantemente le mani nelle traduzioni altrui. La traduzione somiglia a quei giochi funambolici di Perec, Queneau: si deve rispettare il testo e allo stesso tempo rispettare uno stile.

Il mondo, la cultura di chi traduce, entra in qualche modo nell'opera tradotta?

Questo è inevitabile.

La traduzione allora, secondo lei, è più colonizzazione o più negoziazione?

Storicamente, non sono in grado di dimostrarlo, ma credo che dipenda dal paese di provenienza dello scrittore che si sta traducendo. Sicuramente, quando si ha a che fare con uno scrittore americano, si ha la tendenza ad autocolonizzarsi, mentre succede il contrario con un testo che provenga da paesi non altrettanto dominanti sulla scena mondiale. Nei confronti della letteratura americana c'è un complesso di inferiorità abbastanza diffuso, forse anche inconsapevole. Mi capita spesso di prendere romanzi americani e di accorgermi che non sono stati realmente tradotti. Succede in letteratura quello che in un certo senso accade al cinema, dove molti titoli americani non vengono neanche tradotti. Fino a qualche tempo fa, anche se a volte gli esiti potevano essere esilaranti, almeno ci si provava.

Quest'anno è uscito il secondo volume di Italoamericana nel quale lei parla di quella generazione di scrittori italiani emigrati che per primi rinunciano ad esprimersi in italiano per adottare la lingua inglese.

Quello è un esito necessario dovuto principalmente a due motivi. Il primo è la “carriera”: per chi avesse ambizioni letterarie era logico porsi il problema di raggiungere un pubblico più vasto che non quello limitato alle comunità come Little Italy o Pequeña Italia. C'è poi la questione dell'inevitabile evoluzione linguistica delle comunità stesse. Questa prima generazione che scrive direttamente in inglese lo fa con una straordinaria intensità ed è l'intensità di chi, tra gli altri bisogni, avverte la necessità di far capire il mondo degli emigranti a chi non ne fa parte ed è portato a guardarlo con pregiudizio. Tra tutti i passaggi linguistici trovo che sia uno dei più eroici.

Qualcuno di questi scrittori l'ha colpita in modo particolare?

In quella stagione abbiamo personaggi come Pascal D'Angelo, che per impadronirsi dell'inglese compie sacrifici enormi: manovale nel cantiere di una ferrovia, dopo aver lavorato quindici ore al giorno si ritirava nella baracca e studiava il vocabolario inglese. La storia di Pascal D'Angelo è bellissima: lui che studia il vocabolario inglese di notte diventando così padrone della lingua da battere anche i suoi colleghi anglofoni in gare di significato lessicale.

Questa generazione di scrittori ha dato vita, in qualche modo, a una sorta di influenza “di ritorno” nella cultura italiana? È arrivato qualcosa o sono esperienze che sono state accantonate dal mondo culturale del nostro paese?

Al tempo non c'era nessun rapporto tra il mondo degli emigranti e la cultura letteraria italiana, convinta che gli emigranti fossero una mandria di bruti analfabeti. Ma questo atteggiamento elitario e classista è tradizionale nella letteratura italiana: i nomi degli scrittori emigrati sono nomi popolari, nomi che nel salotto buono e aristocratico della letteratura italiana non ci sono mai entrati. Non mancano i paradossi, però: dopo la sua riscoperta postuma, con un effetto ritardato di circa mezzo secolo, John Fante è oggi un autore che sicuramente conta nella formazione dei giovani scrittori italiani. Vittorini, nella sua Americana, a suo tempo lo scelse come ultimo scrittore antologizzato, un posto estremamente privilegiato perché riservato normalmente allo scrittore più nuovo e sul quale si fa più affidamento per il futuro. Dopo Vittorini e la riscoperta che passa attraverso Bukowski pensiamo a quanto Fante sia stato amato da autori come Sandro Veronesi o Pier Vittorio Tondelli.

E la generazione precedente a Fante?

Quanto a quelli prima di lui, in Italia li si conosce ancora molto poco e dubito che potranno avere un successo pari ma forse, in questo generale risveglio di attenzione verso la nostra storia di migranti, non si può escludere che questi scrittori diventino in futuro oggetto di maggiore attenzione. Il nostro, da paese di emigranti, si è trasformato in paese di immigranti: per conoscere il problema attuale dobbiamo quindi rivolgerci al nostro passato. C'è tutto un immaginario che stiamo riscoprendo, archetipi che fanno parte della nostra storia e continuano ad essere estremamente produttivi anche oggi.

Una curiosità: come è maturata la scelta di tradurre Fante? E di solito come sceglie le opere da tradurre?

Avevo tradotto due romanzi di Breat Easton Ellis , uno scrittore estremamente di moda alla fine degli anni Ottanta. Pier Vittorio Tondelli, al quale era stata affidata la direzione dell'Ottagono Mondadori, mi propose di tradurre un romanzo di Fante dal titolo I sogni di Bunker Hill. Avevo da poco letto Chiedi alla polvere con la prefazione di Bukowski ripubblicato da SugarCo., mi era piaciuto e quando mi arrivò la proposta l'accettai volentieri: caddi dentro John Fante e mi appassionai. La prima domanda fu chiedermi da dove venisse questo scrittore, cosa ci fosse alle sue spalle: scoprii un mondo italofono che diventa americano e che nascondeva un'odissea che valeva la pena raccontare.

Cosa significa tradurre autori così diversi come Fante ed Ellis che praticano linguaggi e generi molto diversi?

Tutti abbiamo interessi molteplici. Tradussi Ellis in un periodo in cui mi piaceva molto la musica rock, i videoclip erano una novità affascinante ed Ellis era in un certo senso familiare a questo mondo. Con Fante fu diverso: per me è stato un maestro. Mi ha insegnato a ritrovare dei sentimenti che proprio la cultura rock, la cultura alternativa degli anni Settanta aveva messo in ombra, come il culto del padre. Tutto questo, Fante lo fa circolare in modo così fresco e spontaneo, in modo giovane, perché Fante è uno scrittore eternamente giovane, che mi conquistò. Se la domanda è se il traduttore sia costretto ad essere una specie di proteo multiforme, la risposta è sì, in parte sì. A me è successo di fare questo mestiere per mia scelta ma ci sono traduttori che, facendo soltanto i traduttori, sono costretti a un approccio industriale ed è un problema di non poco conto, ne va della qualità. I traduttori in Italia sono generalmente mal pagati e sono costretti a produrre molto, a volte troppo, senza avere il tempo di curare il proprio lavoro. Spesso poi le case editrici si trasformano in librifici dove mancano il tempo e le redazioni adeguate per rivedere i lavori, ed il gioco è fatto. Quando il nostro paese sarà completamente bilingue non ci sarà più bisogno di tradurre: sarà un momento triste perché saremo bilingui ma la lingua madre, per così dire, sarà diventata l'inglese.

Potremmo dire che tutto il Novecento è stato il secolo della traduzione? L'arte, la letteratura, la scienza del secolo rimandano a nomi di emigranti, persone che hanno dovuto imparare ad essere essi stessi luogo e veicolo di scambio tra culture.

Questo è uno dei tratti fondamentali del nostro tempo: la straordinaria mobilità intellettuale. L'emigrazione è il grande tema del nostro tempo e tutta la storia dell'umanità è una storia di meticciato continuo: dispiace per il presidente Pera, ma l'incontro tra le culture è il momento più fecondo per garantire il progresso.

 

 

 

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