Nelle prime
ore del mattino di una giornata d’aprile del 1992,
avevo appuntamento con il mio fidanzato Ales a Piazza
Navona, a Roma. Vivevamo lontani. Io avevo preso un
volo dall’aeroporto Jfk di New York, lui era venuto
in treno dalla Slovenia. Seduta su una panchina accanto
alla Fontana dei Fiumi del Bernini, mentre aspettavo
che lui apparisse, avevo aperto il libro che avevo iniziato
a leggere la notte prima in aereo: Immortalità
di Milan Kundera. Potrebbe sembrare difficile rimanere
assorbiti da una storia d’amore di fantasia mentre
si aspetta l’arrivo del proprio amore reale al
centro di una piazza vuota ma la maestria e l’originalità
della narrativa di Kundera finirono per catturarmi.
Avevo appena terminato un capitolo – quello in
cui Paul corre disperato all’ospedale da Agnes
per baciarla un’ultima volta – e stavo voltando
pagina per iniziare il successivo, quando avvertii la
presenza di qualcuno seduto affianco a me sulla panchina
di pietra e una mano appoggiarsi sulla mia schiena.
Girandomi vidi il viso del mio ragazzo, non più
a distanza, che guardava dritto nel mio. In quell’istante,
Paul e Agnes di Kundera si dissolsero nel sole che illuminava
la piazza. Ales, ripetendo senza saperlo lo stesso gesto
di Paul, si chinò a baciarmi.
La cacofonia urbana di Roma in un qualsiasi giorno
feriale sembrò alzarsi di una o due ottave, l’aroma
di un migliaio di caffè espresso si sparse nell’aria
mattutina, dai fiumi della fontana del Bernini –
il Danubio, il Nilo, il Gange e il Rio della Plata nei
quattro angoli della terra – zampillavano estatici
getti d’acqua fresca al di sopra delle nostre
teste. Ma appena le sue labbra sfiorarono le mie, lui
si fermò lanciando un grido di sorpresa. “Aspetta!”
disse indicando il libro che aveva adocchiato sulle
mie ginocchia. Si piegò sulla sacca da viaggio
che aveva poggiato a terra, e dopo aver rovistato per
qualche secondo ne tirò fuori il suo libro. “Guarda”
disse trionfante. Il suo era un tascabile mentre il
mio era un’edizione rilegata con un disegno diverso
in copertina, la coincidenza, però, era innegabile.
Il volume che Ales mi stava porgendo si intitolava Nesmrtnost
e l’autore era proprio Milan Kundera.
Poggiando il suo libro sul mio, Ales prese la mia faccia
tra le mani e mi guardò con i suoi melanconici
occhi mitteleuropei. “Stiamo leggendo lo stesso
libro” sussurrò. Il suo viso era così
vicino al mio che riuscivo a sentire il calore delle
sue parole sulla mia pelle, e di tutte le cose che avrei
potuto dire in quel momento, di tutte le frasi che avrei
potuto mormorare o sospirare o mugugnare, la mia risposta
fu: “Solo che tu lo stai leggendo tradotto”.
Ales si allontanò bruscamente. “Tutti e
due lo stiamo leggendo tradotto” mi corresse riconsiderando
se, dopotutto, volesse baciarmi o meno. Nella sua voce
si era fatta strada un’evidente freddezza e pareva
che, dopo così tanti mesi di attesa, la nostra
storia stesse per concludersi proprio allora e in quel
luogo. “Lo so, lo sapevo”, pensai sconsolata
tra me e me, “è ovvio: tutti e due lo stiamo
leggendo tradotto. Kundera era ceco. Era proprio quello
il motivo per cui stavo leggendo il libro… Per
essere più vicina a te e al tuo mondo”.
Ma era troppo tardi. Le parole – odiose, ignoranti,
arroganti – erano già state dette e non
c’era modo per tornare indietro. Chiusi gli occhi.
All’euforia subentrò velocemente la disperazione,
la notte insonne trascorsa in viaggio iniziò
a farsi sentire, la luminosità della mattina
si fece accecante: sembrava troppo da sopportare. Ma
fortunatamente, questo stato di tristezza auto-inflitta
finì presto. Perché poco dopo aver chiuso
gli occhi – tempo uno o due secondi – sentii
dei baci sulle palpebre serrate e capii che il mio errore
era stato perdonato. Forse in previsione dei piaceri
carnali che sarebbero seguiti nella settimana, o forse
come tacito omaggio per le ore della notte passate a
leggere separati ma in un certo senso insieme, non solo
quella lontana mattina d’aprile Ales si degnò
di baciare l’”imperialista culturale”
ma la sposò poco più di un anno dopo facendola
trasferire al di là dell’oceano, da un
appartamentino di New York a un appartamentino di Ljubljana.
Immensa ironia della storia è che, dopo molti
anni vissuti in una terra straniera, lei – che
poi sarei io – divenne traduttrice dallo sloveno
all’inglese. Ora più di dieci anni dopo,
quando prendo in mano un romanzo o un libro di poesie
in una libreria, vado subito alla a controllare il copyright
e vedere se è già stato tradotto e poi
corro alle ultime pagine per leggere le note biografiche
del traduttore. Credo non ci sia bisogno di dire che
ci sono state innumerevoli occasioni, negli anni trascorsi
da allora – durante cene e vari eventi sociali
internazionali – in cui la conversazione è
caduta, come spesso succede, sul tema dell’egemonia
culturale americana. Percepisco sempre il momento esatto
in cui Ales riesce a stento a trattenersi dal raccontare
l’aneddoto ormai leggendario della sua moglie
americana e dell’Immortalità di
Milan Kundera. In genere, gli do un colpetto sotto il
tavolo o gli lancio uno sguardo implorante per evitare
il pubblico imbarazzo. Ultimamente però sono
stata più disponibile a lasciare che quella storia
venisse raccontata, forse perché ho realizzato
che il mio passo falso non fu esclusivamente questione
di ignoranza personale, ma che, in effetti, ero stata
influenza dalle tradizioni nazionale e letteraria in
cui ero stata cresciuta e da una serie di assunti non
verificati su traduttori e traduzioni.
Certo, difficilmente sorprende che un Paese che goda
dell’indiscusso dominio culturale e strategico,
come l’America in quest’inizio di ventunesimo
secolo, abbia un atteggiamento così ambivalente
nei confronti della modesta arte della traduzione. Dopotutto
la traduzione, indipendentemente da qualsiasi altra
cosa, è soprattutto l’atto di rendere comprensibile
ciò che è estraneo e, come tale, essa
è inevitabilmente politica. Le pratiche di traduzione
di un Paese così potente e provinciale come l’America
sono destinate a riflettere il rapporto che la nazione
instaura con lo “straniero”. Specialmente
negli ultimi anni, questo rapporto è diventato
sempre più teso, anche con i tradizionali alleati
culturali e politici dell’America sul continente
europeo. In ogni caso, la scarsa considerazione in cui
sono tenuti traduzioni e traduttori negli Stati Uniti,
e di conseguenza la letteratura straniera, si riflette
praticamente in ogni aspetto dell’industria editoriale:
il numero delle opere tradotte che approdano sul mercato
ogni anno, i dati delle vendite delle opere letterarie
non americane che riescono a raggiungere gli scaffali
delle librerie, le tariffe e il copyright dei traduttori,
il modo in cui le opere tradotte vengono recensite,
e, infine, gli assunti sottostanti che riguardano direttamente
il mestiere della traduzione.
Nel primo capitolo del suo libro-sondaggio The
Translator's Invisibility: A history of translation,
Lawrence Venuti inserisce una serie di statistiche editoriali,
clausole contrattuali ed estratti di recensioni per
esemplificare il tremendo stato in cui versa il settore
delle traduzioni nel mercato librario americano. Il
dato statistico più inquietante è quello
secondo cui, dei libri pubblicati ogni anno negli Stati
Uniti, generalmente solo una percentuale compresa tra
il 2 e il 4 per cento è costituita da opere tradotte,
una cifra bassissima che poco è variata nel corso
degli ultimi decenni. Le stime relative alla Gran Bretagna
sono altrettanto anemiche, il che suggerisce che l’indifferenza
nei confronti della letteratura straniera può
derivare non solo dalla superiorità politica
e militare, ma anche da quella linguistica.
L’inglese è innegabilmente la lingua franca
del mondo; in effetti, si dice che oggi le persone che
parlano correntemente l’inglese come secondo idioma
sono più dei madrelingua. Ma non si può
negare che i Paesi di madrelingua inglese, in cui dunque
viene prodotta la maggior parte dei testi di letteratura
anglosassone sono, per citare Venuti, “aggressivamente
monolingui”. Al contrario, nelle principali nazioni
dell’Europa occidentale, la percentuale di opere
tradotte tende a oscillare tra il 7 e il 14 per cento
sul totale delle pubblicazioni, con circa la metà
dei libri stranieri pubblicati tradotti dall’inglese.
Aggiungendo al danno anche la beffa finanziaria, Venuti
cita i sondaggi dell’American Pen per dimostrare
che i traduttori americani hanno stipendi che non garantiscono
loro la sussistenza, anche quando lavorano a tempo pieno,
e tutti – fatta eccezione per i più famosi
– lavorano con contratti a salario, e godono di
pochissima o di nessuna tutela a livello di copyright.
In altre parole, nell’improbabile caso in cui
un’opera tradotta diventasse un bestseller, il
traduttore probabilmente non ne trarrebbe alcun beneficio.
Naturalmente, fatte pochissime eccezioni (come Milan
Kundera, Gabriel Garcia Marquez e l’insolita selezione
operata dal club dei lettori di Oprah: viene in mente
Il lettore di Bernhard Schlink), in America
i libri tradotti entrano raramente nella lista dei più
venduti. In effetti, gli autori stranieri generalmente
non vengono individuati nemmeno dal radar dei lettori
statunitensi più sofisticati finché non
ottengono un riconoscimento internazionale prestigioso
e, preferibilmente il più prestigioso: il Nobel
per la letteratura. Benché a volte neanche quello
riesca a convincerli. Quando nel 2002 il Nobel andò
all’ungherese Imre Kertesz, si scoprì che
solo due dei suoi libri erano stati pubblicati in inglese
e che il più riuscito dei due, Essere senza
destino (Northwestern University Press), aveva
venduto appena 3500 copie. La casa editrice ne ha poi
vendute altre 40 mila copie ma di recente, malgrado
questo discreto successo, ha ulteriormente ridotto il
suo piano di traduzioni. Donna Shear, che ne dirige
l’ufficio stampa, ha motivato esplicitamente tale
scelta in una dichiarazione rilasciata recentemente
al New York Times: “Tradurre è
costoso e non assicura vendite”.
Gli editori forniscono una serie di spiegazioni per
giustificare la loro crescente riluttanza a correre
rischi con autori stranieri sconosciuti. Nell’elenco
delle motivazioni, il primo posto va alla concentrazione
della proprietà dell’industria libraria
nelle mani di pochi gruppi editoriali interessati al
profitto. Gli editori notano anche che la maggior parte
delle case americane impiega pochi editor – o
addirittura nessuno - in grado di parlare lingue straniere
e sono riluttanti a prendere in considerazione i consigli
di esterni su quali libri stranieri possano catturare
la sfuggevole immaginazione americana, che si caratterizza
per preferire storia e azione più che atmosfera
e sofismi (tratti entrambi maggiormente diffusi nelle
opere letterarie non americane che in quelle statunitensi).
Inoltre, i lettori americani sono abituati a una letteratura
confezionata su misura della loro situazione specifica.
Pochissime opere americane contemporanee sono scritte
in una prospettiva veramente internazionale. Persino
quelle inserite in un contesto internazionale - come
Praga di Arthur Phillips e la serie de Le
correzioni di Jonathan Franzen ambientata in Lituania
– trascendono raramente il quadro mentale domestico.
Nello stesso articolo del New York Times, Esther
Allen, presidente della commissione per la traduzione
Pen, ha esaminato le conseguenze che tendenze editoriali
così provinciali hanno aldilà dei confini
americani: “Poiché l’inglese è
la lingua franca tradurre un libro in inglese vuol dire
metterlo nella posizione di essere tradotto in molte
lingue diverse. Noi siamo l’arteria ostruita che
impedisce agli autori di raggiungere lettori al di fuori
del proprio Paese”.
Eppure per quanto possa essere allettante individuare
una semplice connessione causale tra la boria culturale
imperialista e l’indifferenza per la letteratura
straniera e i suoi traduttori, entrano in gioco molti
altri fattori e, in gran misura, è la natura
stessa del tradurre a imporre atteggiamenti più
universalistici nei confronti della traduzione come
attività letteraria. Azzarderei che in nessuna
cultura – per quanto aperta e cosmopolita –
un’opera letteraria tradotta abbia la stessa statura
di un testo originale o il traduttore occupi la stessa
nobile posizione dell’autore. Persino in una piccola
nazione che, come la Slovenia, raggiunge a stento i
due milioni di abitanti e che promuove e sostiene attivamente
la traduzione della propria letteratura in altre lingue
e viceversa, difficilmente il traduttore siede sul piedistallo
della letteratura. Poco tempo fa, mia cognata che insegna
in una scuola materna mi ha raccontato la storia di
un bambino che un giorno aveva annunciato, con orgoglio,
che una volta cresciuto avrebbe fatto il muratore. Quando
lei gli aveva chiesto se suo padre fosse un muratore,
l’orgoglio del piccolo si era trasformato in imbarazzo.
“Naa”, aveva mormorato sottovoce, “E’
un traduttore”. Il bambino non è affatto
solo nel suo disprezzo per il ruolo noioso e ampiamente
invisibile del traduttore letterario. Se il lavoro del
traduttore è ben fatto, come nel caso della traduzione
di Peter Kussy del romanzo Immortalità
– il suo intervento scompare semplicemente dalla
pagina. Il lavoro dell’autore e quello del traduttore
si fondono in un’unica espressione artistica scorrevole
in cui è l’autore a fare la parte del leone.
Se, d’altro canto, nella traduzione ci sono errori
ovvi e infelici, il traduttore viene messo alla berlina.
In ogni caso, dal punto di vista del figlio che frequenta
la scuola materna, il destino del traduttore è
quello di una figura umile e modesta.
Ciò che è peggio è che persino
quelli che dovrebbero saperne di più –
lettori appassionati, scrittori, anche gli stessi traduttori
maltrattati – disprezzano la figura del traduttore.
Vladimir Nabokov, che tradusse Eugene Onegin
di Pushkin dal russo all’inglese e che sostenne
insolitamente che solo le trasposizioni letterali parola-per-parola
fossero traduzioni valide, liquidò il lavoro
dei moderni traduttori commerciali con questa boutade:
“…Uno strafalcione di uno studentello sarebbe
meno ridicolo considerando il capolavoro originale…”.
In un saggio intitolato Pleasures and Problems of
Translations, Donald Frame, traduttore dell’opera
completa di Michel de Montaigne, ha espresso sostanzialmente
la stessa opinione, anche se in maniera leggermente
più garbata rispetto a Nabokov: “Chiaramente
la traduzione è ben al di sotto della buona creazione
e analisi letteraria”. Buona analisi letteraria!
Ahimè, è questo che ci si aspetta che
il lettore acuto legga oggi sui voli intercontinentali?
Ma quello che irrita di più nell’annotazione
di Frame è la compiacenza dell’avverbio
“chiaramente”, che rifiuta anche la possibilità
di trovarsi in disaccordo. Perché i traduttori
vengono tanto bistrattati? Dopotutto Frame, nello stesso
saggio, ammette che la traduzione “richiede molta
della stessa sensibilità” della creazione
e dell’analisi letteraria. Il più grande
problema pratico che affligge i traduttori – e
che certamente influisce sulla reputazione del mestiere
– è la natura utopica del compito: l’impossibilità
di produrre una traduzione perfetta, inattaccabile e
insostituibile. Sebbene sia estremamente difficile,
è certamente possibile creare un’opera
letteraria perfetta e unica – che è, dopotutto,
ciò che fanno i grandi scrittori. Ma non è
mai possibile, anche per il più abile dei traduttori
dar vita a una traduzione perfetta e unica, adatta ad
ogni tempo.
L’affermazione di Nabokov, secondo cui l’unica
traduzione legittima è quella in cui lo stile
del traduttore non interferisce in alcun modo con quello
dell’autore originale (in altre parole, una traslitterazione
neutrale, parola-per-parola), è solo un altro
modo per dire che la traduzione non è un’impresa
legittima poiché non esiste uno stile neutrale,
completamente trasparente.
L’inafferrabile stile “senza stile”
non può essere raggiunto dai traduttori come
dagli autori delle opere letterarie originali. A complicare
ulteriormente l’atto di traduzione va detto che,
non solo autori e traduttori, ma anche gerghi individuali
e periodi storici – durante i quali la lingua
viene scritta e parlata – hanno il loro stile
particolare. Ogni lingua ha la propria forma interna,
le proprie contingenze grammaticali, il proprio vocabolario
specifico con connotazioni culturali uniche. Abbiamo
tutti sentito dire che le lingue parlate dagli eschimesi
hanno numerosissime espressioni per indicare la neve,
ma raramente abbiamo riflettuto sulle difficoltà
che ciò pone a un attento traduttore della letteratura
Inuit. Come può il traduttore esprimere le sottigliezze
di tutti quei sinonimi attraverso l’unico termine
“neve”? Ancor meno abbiamo riflettuto su
come queste difficoltà possano cambiare nel corso
del tempo, man mano che i linguaggi e le culture in
questione evolvono. Josè Ortega y Gasset, in
un saggio intitolato Miseria e splendore della traduzione,
presenta un esempio tratto dalle lingue europee: “Poiché
i linguaggi si formano in paesaggi differenti, attraverso
esperienze differenti, la loro incongruenza è
naturale. E’ falso, ad esempio, supporre che ciò
che gli spagnoli chiamano bosque (foresta) sia ciò
che i tedeschi chiamano wald, eppure il dizionario
ci dice che wald significa bosque”.
Ortega affronta la profonda dissonanza esperienziale
tra realtà culturali differenti. Ovviamente,
questo particolare esempio comporterebbe, sul piano
pratico, una piccola difficoltà per il traduttore.
Incurante delle incongruità tra realtà
culturali diverse, il traduttore, infatti, inserirebbe
semplicemente il sostantivo, grato per l’apparente
mancanza di ambiguità di significato, e proseguirebbe
oltre.
Ma, nei fatti, ci sono relativamente poche espressioni
che non presentano al traduttore il dilemma a cui allude
Ortega y Gasset. Il traduttore deve costantemente non
solo capire ma scegliere tra una vasta gamma di parole
ed espressioni che veicolano ognuna implicazioni culturali
proprie. Quando preferire un’espressione arcaica
a una contemporanea? Quando scegliere un’espressione
poco usata anziché una frequente, un’espressione
comune anziché una colta, una parola pomposa
anziché un luogo comune: per caso o forse? Piedipiatti
o polizia? Osservare o guardare? E il traduttore di
un’opera poetica dovrebbe cercare soprattutto
di mantenere il significato, o dovrebbe sacrificare
il significato in favore delle esigenze della forma
e della rima, dell’assonanza e dell’allitterazione?
Le scelte sono infinite e nessuna di esse porterà
allo stesso risultato.
Le sfide poste dalla traduzione hanno dato vita a una
serie di adagi e motti lapalissiani sul mestiere. Uno
di questi è l’idea che ogni grande opera
letteraria vada tradotta almeno una volta per generazione.
L’Inferno di Dante, ad esempio, è
stato tradotto in inglese almeno nove volte solo nel
corso degli ultimi trent’anni. Alcune versioni
tentano di emulare la complessità della terza
rima dantesca (Robert Pinsky, 1994), altre utilizzano
la forma della terzina sciolta (John Ciardi, 1982),
mentre altre ancora ricorrono alla prosa (Charles Singleton,
1970) per far arrivare il grande poema del quattordicesimo
secolo a una nuova generazione di lettori. Inutile dire
che ognuna di queste rese è diversa dalle altre
come anche dall’opera originale.
C’è poi il detto più pessimista,
offerto proprio dalla lingua di Dante, “traduttore
traditore” che implica che poiché ogni
tentativo di tradurre da una lingua a un’altra
è inevitabilmente un tradimento del capolavoro
originale, anche una sola traduzione – lasciamo
perdere nove – può essere di troppo. Forse
non è un caso che un detto meno noto contenga
la metafora della fedeltà, affrontando la questione
non solo del significato e del contesto storico-linguistico
del testo originale, ma anche delle sue qualità
estetiche. “La traduzione”, recita il proverbio,
“è come una donna: se è fedele non
è bella e se è bella non è fedele”.
Se il problema maggiore che il traduttore deve affrontare
è dato dalla natura utopica del suo compito,
la ragione principale per cui gli viene negata rispettabilità
letteraria dipende da una questione puramente epistemologica:
il problema dell’originalità. È
vero, il traduttore deve possedere un grande armamentario
di strumenti: sensibilità letteraria, tecniche
scrittorie, confidenza e padronanza non solo del linguaggio
e della cultura del testo originale, ma anche di quelli
in cui il testo viene tradotto. Ma ciò che mancherà
sempre a lui e alla sua traduzione, indipendentemente
dalle sue capacità e dal suo intuito, è
l’originalità artistica: il contatto non
mediato con la mente e la penna del creatore originale.
Sfortunatamente per il traduttore, l’originalità
è valore di gran conto nella cultura occidentale.
Se si scoprisse, ad esempio, che un’opera amatissima
attribuita a Rembrandt fosse stata dipinta da un suo
allievo e non dal maestro in persona, allora quel particolare
dipinto – indipendentemente dai suoi meriti artistici
– perderebbe un punto o due. La caduta in disgrazia
di Jerzy Kosinski, autore de L’uccello dipinto
e di altre opere, offre un monito tratto dagli annali
della letteratura. Quando si venne a sapere che gli
editor e gli assistenti (quelli che avevano “tradotto”
il lavoro di Kosinski dal suo inglese-polacco sgrammaticato
in un inglese corretto) potevano aver avuto un ruolo
nella composizione delle opere, la reputazione di quei
romanzi e dell’autore conobbe un forte declino.
Ora, da un certo punto di vista comprensibile, la glorificazione
del concetto dell’originalità tende a oscurare
altri aspetti della creazione artistica e letteraria
e la sua importanza storica nell’evoluzione delle
culture: in particolare, il fatto che arte e cultura
rappresentano molto più che una semplice serie
di opere originali discrete prodotte da un gran numero
di autori. Fatto altrettanto importante, esse rappresentano
una conversazione continua in e tra differenti epoche
storiche e culture. Questa conversazione è, infatti,
niente più e niente meno che la storia della
cultura e, in larga parte grazie alle traduzioni, essa
è riuscita a trascendere i confini temporali,
geografici e culturali diventando accessibile persino
al più “aggressivamente monolingue”
dei popoli.
Ezra Pound, figura controversa del modernismo novecentesco,
ha svolto un ruolo importante – anch’esso
dibattuto pur se assai meno riconosciuto – nel
campo delle traduzioni. Egli disprezzò le pratiche
dei traduttori vittoriani che resero gli antichi in
metro ben versificato e incoraggiò i traduttori
soprattutto a “innovare!”. Le traduzioni
di Pound, benché accusate dalla critica di essere
troppo “libere”, diedero vigore ed energia
a una schiera di figure le cui voci erano andate perdute
in questa conversazione tra civiltà: al poeta
cinese del sesto secolo Li Po, al poeta del rinascimento
italiano Guido Cavalcanti, ai trovatori della Provenza
francese, Daniel Arnaut e Bertran de Born. Nel corso
della sua lunga carriera, Pound non perse mai di vista
l’importanza della tradizione e della traduzione:
il riportare a nuovo le grandi opere letterarie da una
cultura a un’altra. Nel suo saggio How to
Read – Come leggere, Pound sottolineò
l’importanza della traduzione nella storia della
letteratura inglese: “… La letteratura inglese
vive di traduzione, si nutre di traduzione; ogni nuova
esuberanza, ogni nuova spinta è stimolata dalla
traduzione, ogni grande epoca è un’epoca
di traduzioni a partire da Geoffrey Chaucer, Le grand
Translateur…” E in una annotazione di passaggio
nello stesso saggio, Pound mostrò come la strana
ambivalenza (o inconsapevolezza) della cultura letteraria
anglo-americana nei confronti della traduzione risalisse
a prima che l’inglese emergesse come lingua franca
(lasciamo perdere poi la formazione dell’America
come unica superpotenza mondiale). “Abbastanza
curiosamente, le storie della letteratura spagnola e
italiana tengono sempre conto dei traduttori. Le storie
della letteratura inglese, invece, glissano sempre sulle
traduzioni – credo sia un complesso di inferiorità
– eppure alcuni dei migliori libri in lingua inglese
sono traduzioni”.
A causa della grandezza del proprio personaggio e della
posizione privilegiata che egli attribuì alla
traduzione nella sua stessa opera, Pound riuscì
quasi a rimuovere lo stereotipo che affligge il traduttore:
a rovesciare l’idea del traduttore come eunuco
nell’harem della letteratura. Pound fu d’ispirazione
per una generazione di traduttori cosiddetti modernisti
– tra cui Louis Zukofsky e Paul Blackburn –
che cercarono di rendere le opere degli antichi poeti
latini e provenzali in maniere nuove, completamente
moderne, a volte controverse e di stimolare così
le passioni di nuovi lettori. Ugualmente, l’influenza
di Pound è poco presente nelle traduzioni anglo-americane
contemporanee che ora, piuttosto che imitare le tecniche
stilistiche vittoriane che egli disprezzava così
tanto, adottano una sorta di discorso trasparente o
stile piano autorevole. In ogni caso, i metodi di traduzione
dominanti (dominanti almeno sul mercato, se non nell’università)
tendono all’addomesticamento del testo straniero,
a una resa così scorrevole che il lettore di
lingua inglese spesso non realizza affatto che di traduzione
si tratta.
Qualsiasi lettore abituale di riviste di opere letterarie
tradotte noterà la propensione a raccomandare
scorrevolezza, fluidità e forza espressiva e
a condannare segni di “traduttorese”, vale
a dire una sintassi e delle scelte lessicali inattese
o un vocabolario arcaico che mantengano tracce della
natura straniera dell’originale. Nondimeno, in
parte per via dell’eredità di Pound e in
parte a causa del prevalere del discorso postmoderno
nell’accademia contemporanea, il conflitto principale
nei translation studies continua a essere tra
questi due poli: e cioè tra l’addomesticamento
(domestication) e la cosiddetta foreignization
dei modi di tradurre. Benché i decostruzionisti
abbiano ripreso questo argomento con fervore nuovo e
prevedibilmente politico, è difficile che esso
rappresenti un motivo di interesse. Il teologo Frederich
Schleirmacher scrisse nel suo saggio del 1813 intitolato
On the Different Methods of Translation una
frase in grado di sintetizzare la scelta fondamentale
che ogni traduttore si trova ad affrontare, ora come
allora: “O il traduttore lascia stare lo scrittore
quanto più gli è possibile e avvicina
il lettore allo scrittore, oppure lasciare stare il
lettore quanto più gli è possibile e avvicina
lo scrittore al lettore”. In una traduzione, avvicinare
il testo al lettore significa addomesticare il testo
straniero, eliminandone gli elementi esotici. Avvicinare
il lettore all’originale rappresenta quella che
alcuni teorici definiscono foreignization ,
cioè rinnovare l’elemento dell’”alterità”
culturale che caratterizza il testo straniero.
Questa discussione mi fa venire in mente un episodio
accaduto nei primi mesi del mio soggiorno in Slovenia,
quando ancora dovevo apprendere la lingua, e che ha
a che fare con uno dei grandi crucci che affliggono
i traduttori come anche gli studenti di lingue: l’esistenza
nelle lingue europee del registro formale, opposto a
quello informale, convenzione che offre indicazioni
sociali essenziali sia nella forma scritta che in quella
orale. In genere si crede che quest’uso linguistico
sia intraducibile in inglese e questo episodio sembrerebbe
confermarlo.
Ero seduta in un caffè di Ljubljana con un amico
che mi presentò a un suo conoscente molto gentile
che parlava un inglese impeccabile. Dopo la stretta
di mano, il ragazzo si sedette di fronte a me e guardandomi
con espressione seria mi chiese educatamente: “May
I call you you?” Non volendolo deludere,
accettai la sua proposta e, lasciandoci questo tentativo
che definirei di estremo addomesticamento alle spalle,
continuammo la nostra conversazione senza problemi.
Ma come dovrebbe affrontare questo dilemma il traduttore
quando si trovasse ad incontrarlo in un’opera
letteraria? Dovrebbe mettercela tutta per trovare un’alternativa
inglese alla forma familiare – qualcosa del tipo
“hey, amico” – oppure dovrebbe ricorrere
alle forme arcaiche “thee” e “thou”.
Un esempio semplice ed elegante di foreignization
in un caso simile, si trova nella traduzione di Cecità
di Jose Saramago, l’autore portoghese vincitore
del premio Nobel per la letteratura nel 1998. Il traduttore
di Saramago, Giovanni Pontiero, quando si è trovato
di fronte un riferimento esplicito al registro informale,
ha semplicemente lasciato il pronome nell’originale
portoghese: “You must call me tu”, dice
una donna anziana a una più giovane in un momento
commovente e centrale del loro rapporto. La parola e
le sue connotazioni vengono comprese da tutti i lettori
fatta eccezione solo per i più ottusi. Ma cosa
più importante, il traduttore non fa alcuno sforzo
per creare l’illusione che la storia abbia luogo,
diciamo, a Cleveland, in Ohio. In altre parole, non
compie alcuno sforzo per creare l’illusione che
l’opera non è una traduzione. Il lettore,
in questo esempio, viene avvicinato piuttosto con garbo
ed efficacemente al testo straniero.
Molte delle polemiche più roventi che dividono
i teorici della traduzione potrebbero essere risolte,
almeno parzialmente, se la traduzione venisse considerata
un genere distinto dalla letteratura originale, Non
si tratta di un suggerimento così eccentrico.
Si lascerebbe spazio a molti approcci differenti: dalla
traduzione stringatamente letterale di Nabokov alle
pubblicazioni bilingui fino alle improvvisazioni più
libere di Pound. Lo stesso Pound fece una distinzione
tra “traduzione interpretativa” e “l’altro
genere” di traduzione. Scrisse Pound: “Con
l’espressione altro genere intendo quei casi in
cui il ‘traduttore’ dà decisamente
vita a una nuova poesia, che cade semplicemente nel
dominio dello scritto originale o che se non lo fa deve
essere giudicata secondo gli stessi standard”.
Dopotutto, alcuni testi stranieri (quelli che vengono
considerati facilmente “traducibili”) sono
più suscettibili a un approccio letterale, mentre
altri (i meno “traducibili”) richiedono
soluzioni più creative e alcuni acquistano senza
dubbio nuova vita grazie alla penna di uno scrittore
come Pound. Una definizione più ampia di traduzione,
che la distingua chiaramente dalla composizione originale,
potrebbe racchiudere entrambi gli approcci. Definire
la traduzione come un genere completamente differente
– e, quindi, catalogare le traduzioni in un ripiano
separato dalla letteratura originale come viene fatto
generalmente nelle librerie slovene – eliminerebbe
ogni tipo di confusione, come quella che mi investì
a Piazza Navona. L’opera originale di Jack Jerouac
non verrebbe più inserita sullo scaffale tra
le traduzioni di Kafka e Kundera, e le cose balzerebbero
subito agli occhi. Eppure mentre un cambiamento di definizione
potrebbe risolvere alcuni problemi della traduzione
nel mercato letterario anglo-americano, non risolverebbe
il problema principale: il fatto che oggigiorno le opere
straniere vengono tradotte in numero sempre più
ridotto.
Proprio come il dilemma tra addomesticamento e foreignization,
anche il problema più controverso dell’uso
della letteratura straniera e della traduzione come
metodo per estendere (o negare) l’influenza culturale
ha preceduto di gran lunga il postmodernismo e anche
il modernismo. Non è affatto sorprendente che
la questione esista da quando esistono imperi culturali
e traduzioni. L’impero romano, al quale oggi a
volte viene paragonata l’America, produsse i primi
traduttori della civiltà occidentale che ebbero
la tendenza a essere ben più prepotenti degli
imperialisti culturali di oggi. I romani non solo addomesticavano
le opere degli antichi greci, ma le assimilavano interamente:
spingendo la sintassi greca al servizio del latino e
cambiando persino i nomi dei luoghi dell’antichità
con nomi latini coniati di fresco. Addirittura, a volte,
al contrario di quanto avviene nelle pubblicazioni di
oggi in cui ad essere sminuito è il ruolo del
traduttore, l’autore dell’opera greca originale
veniva relegato all’ultima pagina mentre il traduttore
romano otteneva la prima. “All’epoca”,
sottolineò Nietzsche, “tradurre significava
conquistare”. Oggi è Hollywood a fare ampio
ricorso ai vecchi metodi romani, prendendo buoni film
come La Femme Nikita e capolavori
come Fino all’ultimo respiro di Godard
e a trasformarli in prodotti americani ordinari che
somigliano assai poco agli originali.
L’industria editoriale, d’altro canto,
ha adottato un modello più insidioso. Senza nemmeno
preoccuparsi di tradurre, tanto meno di assimilare le
opere straniere, gli interessi culturali americani conquistano
la letteratura straniera semplicemente ignorandola.
Ambo i lati di questa equazione culturale pagano un
caro prezzo. Le culture non dominanti soffrono perché
la loro letteratura non viene diffusa, ma paradossalmente
è il conquistatore forse a pagare il prezzo più
alto: provincialismo e chiusura nella sfera della creazione
letteraria domestica e la mancanza dello stimolo di
cui si ha bisogno per dar vita a una grande epoca letteraria.
Tutte le discussioni accademiche su buone e cattive
traduzioni, traduzioni belle e traduzioni fedeli, addomesticate
o no, sono interessanti, ma, tutto sommato, nell’attuale
battaglia culturale, sono non pertinenti. Vale piuttosto
il vecchio detto secondo cui l’unica cosa peggiore
di una cattiva pubblicità è nessuna pubblicità.
Allo stesso modo, l’unica cosa peggiore di una
cattiva traduzione è nessuna traduzione. Di sicuro
alcuni contesteranno questa affermazione. Eppure è
stato detto così tanto di quello che va perso
nella traduzione (è celebre l’annotazione
di Robert Frost secondo cui nella traduzione si perde
la poesia) che spesso perdiamo di vista quello che se
ne guadagna.
Un’intera scuola di puristi e teorici radicali
della traduzione potrebbero sostenere che Ales e io,
nell’aprile del 1992, non stessimo nemmeno leggendo
la stessa opera letteraria mentre viaggiavamo di notte
verso la nostra destinazione comune. E, da un certo
punto di vista, avrebbero ragione. Ortega y Gasset (pensatore
brillante che nei suoi saggi cita in traduzione più
della metà dei riferimenti) la mise in questo
modo: “Il fatto è che la traduzione non
è l’opera, ma un sentiero verso l’opera”.
Lasciamoci stupire per un attimo dalla più modesta
delle parole: sentiero. Perché senza sentieri,
sia reali che metaforici, siamo tutti fermi ai nostri
posti, incapaci di muoverci, di comunicare, di comprendere,
incapaci di trascendere la nostra situazione locale.
Il sentiero di Ales – la sua traduzione di Immortalità
– lo aveva guidato attraverso un paese rinato,
attraverso il bacino del fiume Po, oltre gli Appennini
e infine a Roma. Il mio sentiero, la mia traduzione
piuttosto diversa, mi aveva sollevato in aria, attraverso
la vastità di un oceano, da una massa continentale
a un’altra. Eppure, nonostante la distanza dei
nostri punti di partenza, la diversità dei nostri
itinerari, il fatto che i veicoli che ci trasportavano
fossero differenti – il suo un treno, il mio un
jet aggressivo che volava a 30mila piedi dalla superficie
terrestre – arrivammo nello stesso luogo: una
panchina di pietra in una Piazza Navona quasi deserta.
O, più precisamente, arrivammo tanto vicini quanto
due esseri umani possano mai sperare di arrivare.
E’ questo quello che si guadagna nella traduzione.
Traduzione dall’inglese di
Chiara Rizzo e Martina Toti
© Eurozine
La versione originale di questo articolo è
apparso sulla rivista slovena Sodobnost
(7-8/2005)
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