| Nelle prime 
                          ore del mattino di una giornata d’aprile del 1992, 
                          avevo appuntamento con il mio fidanzato Ales a Piazza 
                          Navona, a Roma. Vivevamo lontani. Io avevo preso un 
                          volo dall’aeroporto Jfk di New York, lui era venuto 
                          in treno dalla Slovenia. Seduta su una panchina accanto 
                          alla Fontana dei Fiumi del Bernini, mentre aspettavo 
                          che lui apparisse, avevo aperto il libro che avevo iniziato 
                          a leggere la notte prima in aereo: Immortalità 
                          di Milan Kundera. Potrebbe sembrare difficile rimanere 
                          assorbiti da una storia d’amore di fantasia mentre 
                          si aspetta l’arrivo del proprio amore reale al 
                          centro di una piazza vuota ma la maestria e l’originalità 
                          della narrativa di Kundera finirono per catturarmi. 
                          Avevo appena terminato un capitolo – quello in 
                          cui Paul corre disperato all’ospedale da Agnes 
                          per baciarla un’ultima volta – e stavo voltando 
                          pagina per iniziare il successivo, quando avvertii la 
                          presenza di qualcuno seduto affianco a me sulla panchina 
                          di pietra e una mano appoggiarsi sulla mia schiena. 
                          Girandomi vidi il viso del mio ragazzo, non più 
                          a distanza, che guardava dritto nel mio. In quell’istante, 
                          Paul e Agnes di Kundera si dissolsero nel sole che illuminava 
                          la piazza. Ales, ripetendo senza saperlo lo stesso gesto 
                          di Paul, si chinò a baciarmi.  La cacofonia urbana di Roma in un qualsiasi giorno 
                          feriale sembrò alzarsi di una o due ottave, l’aroma 
                          di un migliaio di caffè espresso si sparse nell’aria 
                          mattutina, dai fiumi della fontana del Bernini – 
                          il Danubio, il Nilo, il Gange e il Rio della Plata nei 
                          quattro angoli della terra – zampillavano estatici 
                          getti d’acqua fresca al di sopra delle nostre 
                          teste. Ma appena le sue labbra sfiorarono le mie, lui 
                          si fermò lanciando un grido di sorpresa. “Aspetta!” 
                          disse indicando il libro che aveva adocchiato sulle 
                          mie ginocchia. Si piegò sulla sacca da viaggio 
                          che aveva poggiato a terra, e dopo aver rovistato per 
                          qualche secondo ne tirò fuori il suo libro. “Guarda” 
                          disse trionfante. Il suo era un tascabile mentre il 
                          mio era un’edizione rilegata con un disegno diverso 
                          in copertina, la coincidenza, però, era innegabile. 
                          Il volume che Ales mi stava porgendo si intitolava Nesmrtnost 
                          e l’autore era proprio Milan Kundera.  Poggiando il suo libro sul mio, Ales prese la mia faccia 
                          tra le mani e mi guardò con i suoi melanconici 
                          occhi mitteleuropei. “Stiamo leggendo lo stesso 
                          libro” sussurrò. Il suo viso era così 
                          vicino al mio che riuscivo a sentire il calore delle 
                          sue parole sulla mia pelle, e di tutte le cose che avrei 
                          potuto dire in quel momento, di tutte le frasi che avrei 
                          potuto mormorare o sospirare o mugugnare, la mia risposta 
                          fu: “Solo che tu lo stai leggendo tradotto”. 
                          Ales si allontanò bruscamente. “Tutti e 
                          due lo stiamo leggendo tradotto” mi corresse riconsiderando 
                          se, dopotutto, volesse baciarmi o meno. Nella sua voce 
                          si era fatta strada un’evidente freddezza e pareva 
                          che, dopo così tanti mesi di attesa, la nostra 
                          storia stesse per concludersi proprio allora e in quel 
                          luogo. “Lo so, lo sapevo”, pensai sconsolata 
                          tra me e me, “è ovvio: tutti e due lo stiamo 
                          leggendo tradotto. Kundera era ceco. Era proprio quello 
                          il motivo per cui stavo leggendo il libro… Per 
                          essere più vicina a te e al tuo mondo”. 
                          Ma era troppo tardi. Le parole – odiose, ignoranti, 
                          arroganti – erano già state dette e non 
                          c’era modo per tornare indietro. Chiusi gli occhi. 
                          All’euforia subentrò velocemente la disperazione, 
                          la notte insonne trascorsa in viaggio iniziò 
                          a farsi sentire, la luminosità della mattina 
                          si fece accecante: sembrava troppo da sopportare. Ma 
                          fortunatamente, questo stato di tristezza auto-inflitta 
                          finì presto. Perché poco dopo aver chiuso 
                          gli occhi – tempo uno o due secondi – sentii 
                          dei baci sulle palpebre serrate e capii che il mio errore 
                          era stato perdonato. Forse in previsione dei piaceri 
                          carnali che sarebbero seguiti nella settimana, o forse 
                          come tacito omaggio per le ore della notte passate a 
                          leggere separati ma in un certo senso insieme, non solo 
                          quella lontana mattina d’aprile Ales si degnò 
                          di baciare l’”imperialista culturale” 
                          ma la sposò poco più di un anno dopo facendola 
                          trasferire al di là dell’oceano, da un 
                          appartamentino di New York a un appartamentino di Ljubljana. 
                         Immensa ironia della storia è che, dopo molti 
                          anni vissuti in una terra straniera, lei – che 
                          poi sarei io – divenne traduttrice dallo sloveno 
                          all’inglese. Ora più di dieci anni dopo, 
                          quando prendo in mano un romanzo o un libro di poesie 
                          in una libreria, vado subito alla a controllare il copyright 
                          e vedere se è già stato tradotto e poi 
                          corro alle ultime pagine per leggere le note biografiche 
                          del traduttore. Credo non ci sia bisogno di dire che 
                          ci sono state innumerevoli occasioni, negli anni trascorsi 
                          da allora – durante cene e vari eventi sociali 
                          internazionali – in cui la conversazione è 
                          caduta, come spesso succede, sul tema dell’egemonia 
                          culturale americana. Percepisco sempre il momento esatto 
                          in cui Ales riesce a stento a trattenersi dal raccontare 
                          l’aneddoto ormai leggendario della sua moglie 
                          americana e dell’Immortalità di 
                          Milan Kundera. In genere, gli do un colpetto sotto il 
                          tavolo o gli lancio uno sguardo implorante per evitare 
                          il pubblico imbarazzo. Ultimamente però sono 
                          stata più disponibile a lasciare che quella storia 
                          venisse raccontata, forse perché ho realizzato 
                          che il mio passo falso non fu esclusivamente questione 
                          di ignoranza personale, ma che, in effetti, ero stata 
                          influenza dalle tradizioni nazionale e letteraria in 
                          cui ero stata cresciuta e da una serie di assunti non 
                          verificati su traduttori e traduzioni.  Certo, difficilmente sorprende che un Paese che goda 
                          dell’indiscusso dominio culturale e strategico, 
                          come l’America in quest’inizio di ventunesimo 
                          secolo, abbia un atteggiamento così ambivalente 
                          nei confronti della modesta arte della traduzione. Dopotutto 
                          la traduzione, indipendentemente da qualsiasi altra 
                          cosa, è soprattutto l’atto di rendere comprensibile 
                          ciò che è estraneo e, come tale, essa 
                          è inevitabilmente politica. Le pratiche di traduzione 
                          di un Paese così potente e provinciale come l’America 
                          sono destinate a riflettere il rapporto che la nazione 
                          instaura con lo “straniero”. Specialmente 
                          negli ultimi anni, questo rapporto è diventato 
                          sempre più teso, anche con i tradizionali alleati 
                          culturali e politici dell’America sul continente 
                          europeo. In ogni caso, la scarsa considerazione in cui 
                          sono tenuti traduzioni e traduttori negli Stati Uniti, 
                          e di conseguenza la letteratura straniera, si riflette 
                          praticamente in ogni aspetto dell’industria editoriale: 
                          il numero delle opere tradotte che approdano sul mercato 
                          ogni anno, i dati delle vendite delle opere letterarie 
                          non americane che riescono a raggiungere gli scaffali 
                          delle librerie, le tariffe e il copyright dei traduttori, 
                          il modo in cui le opere tradotte vengono recensite, 
                          e, infine, gli assunti sottostanti che riguardano direttamente 
                          il mestiere della traduzione.  Nel primo capitolo del suo libro-sondaggio The 
                          Translator's Invisibility: A history of translation, 
                          Lawrence Venuti inserisce una serie di statistiche editoriali, 
                          clausole contrattuali ed estratti di recensioni per 
                          esemplificare il tremendo stato in cui versa il settore 
                          delle traduzioni nel mercato librario americano. Il 
                          dato statistico più inquietante è quello 
                          secondo cui, dei libri pubblicati ogni anno negli Stati 
                          Uniti, generalmente solo una percentuale compresa tra 
                          il 2 e il 4 per cento è costituita da opere tradotte, 
                          una cifra bassissima che poco è variata nel corso 
                          degli ultimi decenni. Le stime relative alla Gran Bretagna 
                          sono altrettanto anemiche, il che suggerisce che l’indifferenza 
                          nei confronti della letteratura straniera può 
                          derivare non solo dalla superiorità politica 
                          e militare, ma anche da quella linguistica. L’inglese è innegabilmente la lingua franca 
                          del mondo; in effetti, si dice che oggi le persone che 
                          parlano correntemente l’inglese come secondo idioma 
                          sono più dei madrelingua. Ma non si può 
                          negare che i Paesi di madrelingua inglese, in cui dunque 
                          viene prodotta la maggior parte dei testi di letteratura 
                          anglosassone sono, per citare Venuti, “aggressivamente 
                          monolingui”. Al contrario, nelle principali nazioni 
                          dell’Europa occidentale, la percentuale di opere 
                          tradotte tende a oscillare tra il 7 e il 14 per cento 
                          sul totale delle pubblicazioni, con circa la metà 
                          dei libri stranieri pubblicati tradotti dall’inglese. 
                          Aggiungendo al danno anche la beffa finanziaria, Venuti 
                          cita i sondaggi dell’American Pen per dimostrare 
                          che i traduttori americani hanno stipendi che non garantiscono 
                          loro la sussistenza, anche quando lavorano a tempo pieno, 
                          e tutti – fatta eccezione per i più famosi 
                          – lavorano con contratti a salario, e godono di 
                          pochissima o di nessuna tutela a livello di copyright. 
                          In altre parole, nell’improbabile caso in cui 
                          un’opera tradotta diventasse un bestseller, il 
                          traduttore probabilmente non ne trarrebbe alcun beneficio.
 Naturalmente, fatte pochissime eccezioni (come Milan 
                          Kundera, Gabriel Garcia Marquez e l’insolita selezione 
                          operata dal club dei lettori di Oprah: viene in mente 
                          Il lettore di Bernhard Schlink), in America 
                          i libri tradotti entrano raramente nella lista dei più 
                          venduti. In effetti, gli autori stranieri generalmente 
                          non vengono individuati nemmeno dal radar dei lettori 
                          statunitensi più sofisticati finché non 
                          ottengono un riconoscimento internazionale prestigioso 
                          e, preferibilmente il più prestigioso: il Nobel 
                          per la letteratura. Benché a volte neanche quello 
                          riesca a convincerli. Quando nel 2002 il Nobel andò 
                          all’ungherese Imre Kertesz, si scoprì che 
                          solo due dei suoi libri erano stati pubblicati in inglese 
                          e che il più riuscito dei due, Essere senza 
                          destino (Northwestern University Press), aveva 
                          venduto appena 3500 copie. La casa editrice ne ha poi 
                          vendute altre 40 mila copie ma di recente, malgrado 
                          questo discreto successo, ha ulteriormente ridotto il 
                          suo piano di traduzioni. Donna Shear, che ne dirige 
                          l’ufficio stampa, ha motivato esplicitamente tale 
                          scelta in una dichiarazione rilasciata recentemente 
                          al New York Times: “Tradurre è 
                          costoso e non assicura vendite”.  Gli editori forniscono una serie di spiegazioni per 
                          giustificare la loro crescente riluttanza a correre 
                          rischi con autori stranieri sconosciuti. Nell’elenco 
                          delle motivazioni, il primo posto va alla concentrazione 
                          della proprietà dell’industria libraria 
                          nelle mani di pochi gruppi editoriali interessati al 
                          profitto. Gli editori notano anche che la maggior parte 
                          delle case americane impiega pochi editor – o 
                          addirittura nessuno - in grado di parlare lingue straniere 
                          e sono riluttanti a prendere in considerazione i consigli 
                          di esterni su quali libri stranieri possano catturare 
                          la sfuggevole immaginazione americana, che si caratterizza 
                          per preferire storia e azione più che atmosfera 
                          e sofismi (tratti entrambi maggiormente diffusi nelle 
                          opere letterarie non americane che in quelle statunitensi). 
                          Inoltre, i lettori americani sono abituati a una letteratura 
                          confezionata su misura della loro situazione specifica. 
                          Pochissime opere americane contemporanee sono scritte 
                          in una prospettiva veramente internazionale. Persino 
                          quelle inserite in un contesto internazionale - come 
                          Praga di Arthur Phillips e la serie de Le 
                          correzioni di Jonathan Franzen ambientata in Lituania 
                          – trascendono raramente il quadro mentale domestico. 
                          Nello stesso articolo del New York Times, Esther 
                          Allen, presidente della commissione per la traduzione 
                          Pen, ha esaminato le conseguenze che tendenze editoriali 
                          così provinciali hanno aldilà dei confini 
                          americani: “Poiché l’inglese è 
                          la lingua franca tradurre un libro in inglese vuol dire 
                          metterlo nella posizione di essere tradotto in molte 
                          lingue diverse. Noi siamo l’arteria ostruita che 
                          impedisce agli autori di raggiungere lettori al di fuori 
                          del proprio Paese”.  Eppure per quanto possa essere allettante individuare 
                          una semplice connessione causale tra la boria culturale 
                          imperialista e l’indifferenza per la letteratura 
                          straniera e i suoi traduttori, entrano in gioco molti 
                          altri fattori e, in gran misura, è la natura 
                          stessa del tradurre a imporre atteggiamenti più 
                          universalistici nei confronti della traduzione come 
                          attività letteraria. Azzarderei che in nessuna 
                          cultura – per quanto aperta e cosmopolita – 
                          un’opera letteraria tradotta abbia la stessa statura 
                          di un testo originale o il traduttore occupi la stessa 
                          nobile posizione dell’autore. Persino in una piccola 
                          nazione che, come la Slovenia, raggiunge a stento i 
                          due milioni di abitanti e che promuove e sostiene attivamente 
                          la traduzione della propria letteratura in altre lingue 
                          e viceversa, difficilmente il traduttore siede sul piedistallo 
                          della letteratura. Poco tempo fa, mia cognata che insegna 
                          in una scuola materna mi ha raccontato la storia di 
                          un bambino che un giorno aveva annunciato, con orgoglio, 
                          che una volta cresciuto avrebbe fatto il muratore. Quando 
                          lei gli aveva chiesto se suo padre fosse un muratore, 
                          l’orgoglio del piccolo si era trasformato in imbarazzo. 
                          “Naa”, aveva mormorato sottovoce, “E’ 
                          un traduttore”. Il bambino non è affatto 
                          solo nel suo disprezzo per il ruolo noioso e ampiamente 
                          invisibile del traduttore letterario. Se il lavoro del 
                          traduttore è ben fatto, come nel caso della traduzione 
                          di Peter Kussy del romanzo Immortalità 
                          – il suo intervento scompare semplicemente dalla 
                          pagina. Il lavoro dell’autore e quello del traduttore 
                          si fondono in un’unica espressione artistica scorrevole 
                          in cui è l’autore a fare la parte del leone. 
                          Se, d’altro canto, nella traduzione ci sono errori 
                          ovvi e infelici, il traduttore viene messo alla berlina. 
                          In ogni caso, dal punto di vista del figlio che frequenta 
                          la scuola materna, il destino del traduttore è 
                          quello di una figura umile e modesta. Ciò che è peggio è che persino 
                          quelli che dovrebbero saperne di più – 
                          lettori appassionati, scrittori, anche gli stessi traduttori 
                          maltrattati – disprezzano la figura del traduttore. 
                          Vladimir Nabokov, che tradusse Eugene Onegin 
                          di Pushkin dal russo all’inglese e che sostenne 
                          insolitamente che solo le trasposizioni letterali parola-per-parola 
                          fossero traduzioni valide, liquidò il lavoro 
                          dei moderni traduttori commerciali con questa boutade: 
                          “…Uno strafalcione di uno studentello sarebbe 
                          meno ridicolo considerando il capolavoro originale…”. 
                          In un saggio intitolato Pleasures and Problems of 
                          Translations, Donald Frame, traduttore dell’opera 
                          completa di Michel de Montaigne, ha espresso sostanzialmente 
                          la stessa opinione, anche se in maniera leggermente 
                          più garbata rispetto a Nabokov: “Chiaramente 
                          la traduzione è ben al di sotto della buona creazione 
                          e analisi letteraria”. Buona analisi letteraria! 
                          Ahimè, è questo che ci si aspetta che 
                          il lettore acuto legga oggi sui voli intercontinentali? 
                          Ma quello che irrita di più nell’annotazione 
                          di Frame è la compiacenza dell’avverbio 
                          “chiaramente”, che rifiuta anche la possibilità 
                          di trovarsi in disaccordo. Perché i traduttori 
                          vengono tanto bistrattati? Dopotutto Frame, nello stesso 
                          saggio, ammette che la traduzione “richiede molta 
                          della stessa sensibilità” della creazione 
                          e dell’analisi letteraria. Il più grande 
                          problema pratico che affligge i traduttori – e 
                          che certamente influisce sulla reputazione del mestiere 
                          – è la natura utopica del compito: l’impossibilità 
                          di produrre una traduzione perfetta, inattaccabile e 
                          insostituibile. Sebbene sia estremamente difficile, 
                          è certamente possibile creare un’opera 
                          letteraria perfetta e unica – che è, dopotutto, 
                          ciò che fanno i grandi scrittori. Ma non è 
                          mai possibile, anche per il più abile dei traduttori 
                          dar vita a una traduzione perfetta e unica, adatta ad 
                          ogni tempo.  L’affermazione di Nabokov, secondo cui l’unica 
                          traduzione legittima è quella in cui lo stile 
                          del traduttore non interferisce in alcun modo con quello 
                          dell’autore originale (in altre parole, una traslitterazione 
                          neutrale, parola-per-parola), è solo un altro 
                          modo per dire che la traduzione non è un’impresa 
                          legittima poiché non esiste uno stile neutrale, 
                          completamente trasparente.L’inafferrabile stile “senza stile” 
                          non può essere raggiunto dai traduttori come 
                          dagli autori delle opere letterarie originali. A complicare 
                          ulteriormente l’atto di traduzione va detto che, 
                          non solo autori e traduttori, ma anche gerghi individuali 
                          e periodi storici – durante i quali la lingua 
                          viene scritta e parlata – hanno il loro stile 
                          particolare. Ogni lingua ha la propria forma interna, 
                          le proprie contingenze grammaticali, il proprio vocabolario 
                          specifico con connotazioni culturali uniche. Abbiamo 
                          tutti sentito dire che le lingue parlate dagli eschimesi 
                          hanno numerosissime espressioni per indicare la neve, 
                          ma raramente abbiamo riflettuto sulle difficoltà 
                          che ciò pone a un attento traduttore della letteratura 
                          Inuit. Come può il traduttore esprimere le sottigliezze 
                          di tutti quei sinonimi attraverso l’unico termine 
                          “neve”? Ancor meno abbiamo riflettuto su 
                          come queste difficoltà possano cambiare nel corso 
                          del tempo, man mano che i linguaggi e le culture in 
                          questione evolvono. Josè Ortega y Gasset, in 
                          un saggio intitolato Miseria e splendore della traduzione, 
                          presenta un esempio tratto dalle lingue europee: “Poiché 
                          i linguaggi si formano in paesaggi differenti, attraverso 
                          esperienze differenti, la loro incongruenza è 
                          naturale. E’ falso, ad esempio, supporre che ciò 
                          che gli spagnoli chiamano bosque (foresta) sia ciò 
                          che i tedeschi chiamano wald, eppure il dizionario 
                          ci dice che wald significa bosque”. 
                          Ortega affronta la profonda dissonanza esperienziale 
                          tra realtà culturali differenti. Ovviamente, 
                          questo particolare esempio comporterebbe, sul piano 
                          pratico, una piccola difficoltà per il traduttore. 
                          Incurante delle incongruità tra realtà 
                          culturali diverse, il traduttore, infatti, inserirebbe 
                          semplicemente il sostantivo, grato per l’apparente 
                          mancanza di ambiguità di significato, e proseguirebbe 
                          oltre.
 Ma, nei fatti, ci sono relativamente poche espressioni 
                          che non presentano al traduttore il dilemma a cui allude 
                          Ortega y Gasset. Il traduttore deve costantemente non 
                          solo capire ma scegliere tra una vasta gamma di parole 
                          ed espressioni che veicolano ognuna implicazioni culturali 
                          proprie. Quando preferire un’espressione arcaica 
                          a una contemporanea? Quando scegliere un’espressione 
                          poco usata anziché una frequente, un’espressione 
                          comune anziché una colta, una parola pomposa 
                          anziché un luogo comune: per caso o forse? Piedipiatti 
                          o polizia? Osservare o guardare? E il traduttore di 
                          un’opera poetica dovrebbe cercare soprattutto 
                          di mantenere il significato, o dovrebbe sacrificare 
                          il significato in favore delle esigenze della forma 
                          e della rima, dell’assonanza e dell’allitterazione? 
                          Le scelte sono infinite e nessuna di esse porterà 
                          allo stesso risultato.  Le sfide poste dalla traduzione hanno dato vita a una 
                          serie di adagi e motti lapalissiani sul mestiere. Uno 
                          di questi è l’idea che ogni grande opera 
                          letteraria vada tradotta almeno una volta per generazione. 
                          L’Inferno di Dante, ad esempio, è 
                          stato tradotto in inglese almeno nove volte solo nel 
                          corso degli ultimi trent’anni. Alcune versioni 
                          tentano di emulare la complessità della terza 
                          rima dantesca (Robert Pinsky, 1994), altre utilizzano 
                          la forma della terzina sciolta (John Ciardi, 1982), 
                          mentre altre ancora ricorrono alla prosa (Charles Singleton, 
                          1970) per far arrivare il grande poema del quattordicesimo 
                          secolo a una nuova generazione di lettori. Inutile dire 
                          che ognuna di queste rese è diversa dalle altre 
                          come anche dall’opera originale.  C’è poi il detto più pessimista, 
                          offerto proprio dalla lingua di Dante, “traduttore 
                          traditore” che implica che poiché ogni 
                          tentativo di tradurre da una lingua a un’altra 
                          è inevitabilmente un tradimento del capolavoro 
                          originale, anche una sola traduzione – lasciamo 
                          perdere nove – può essere di troppo. Forse 
                          non è un caso che un detto meno noto contenga 
                          la metafora della fedeltà, affrontando la questione 
                          non solo del significato e del contesto storico-linguistico 
                          del testo originale, ma anche delle sue qualità 
                          estetiche. “La traduzione”, recita il proverbio, 
                          “è come una donna: se è fedele non 
                          è bella e se è bella non è fedele”. Se il problema maggiore che il traduttore deve affrontare 
                          è dato dalla natura utopica del suo compito, 
                          la ragione principale per cui gli viene negata rispettabilità 
                          letteraria dipende da una questione puramente epistemologica: 
                          il problema dell’originalità. È 
                          vero, il traduttore deve possedere un grande armamentario 
                          di strumenti: sensibilità letteraria, tecniche 
                          scrittorie, confidenza e padronanza non solo del linguaggio 
                          e della cultura del testo originale, ma anche di quelli 
                          in cui il testo viene tradotto. Ma ciò che mancherà 
                          sempre a lui e alla sua traduzione, indipendentemente 
                          dalle sue capacità e dal suo intuito, è 
                          l’originalità artistica: il contatto non 
                          mediato con la mente e la penna del creatore originale. 
                          Sfortunatamente per il traduttore, l’originalità 
                          è valore di gran conto nella cultura occidentale. 
                          Se si scoprisse, ad esempio, che un’opera amatissima 
                          attribuita a Rembrandt fosse stata dipinta da un suo 
                          allievo e non dal maestro in persona, allora quel particolare 
                          dipinto – indipendentemente dai suoi meriti artistici 
                          – perderebbe un punto o due. La caduta in disgrazia 
                          di Jerzy Kosinski, autore de L’uccello dipinto 
                          e di altre opere, offre un monito tratto dagli annali 
                          della letteratura. Quando si venne a sapere che gli 
                          editor e gli assistenti (quelli che avevano “tradotto” 
                          il lavoro di Kosinski dal suo inglese-polacco sgrammaticato 
                          in un inglese corretto) potevano aver avuto un ruolo 
                          nella composizione delle opere, la reputazione di quei 
                          romanzi e dell’autore conobbe un forte declino. Ora, da un certo punto di vista comprensibile, la glorificazione 
                          del concetto dell’originalità tende a oscurare 
                          altri aspetti della creazione artistica e letteraria 
                          e la sua importanza storica nell’evoluzione delle 
                          culture: in particolare, il fatto che arte e cultura 
                          rappresentano molto più che una semplice serie 
                          di opere originali discrete prodotte da un gran numero 
                          di autori. Fatto altrettanto importante, esse rappresentano 
                          una conversazione continua in e tra differenti epoche 
                          storiche e culture. Questa conversazione è, infatti, 
                          niente più e niente meno che la storia della 
                          cultura e, in larga parte grazie alle traduzioni, essa 
                          è riuscita a trascendere i confini temporali, 
                          geografici e culturali diventando accessibile persino 
                          al più “aggressivamente monolingue” 
                          dei popoli.  Ezra Pound, figura controversa del modernismo novecentesco, 
                          ha svolto un ruolo importante – anch’esso 
                          dibattuto pur se assai meno riconosciuto – nel 
                          campo delle traduzioni. Egli disprezzò le pratiche 
                          dei traduttori vittoriani che resero gli antichi in 
                          metro ben versificato e incoraggiò i traduttori 
                          soprattutto a “innovare!”. Le traduzioni 
                          di Pound, benché accusate dalla critica di essere 
                          troppo “libere”, diedero vigore ed energia 
                          a una schiera di figure le cui voci erano andate perdute 
                          in questa conversazione tra civiltà: al poeta 
                          cinese del sesto secolo Li Po, al poeta del rinascimento 
                          italiano Guido Cavalcanti, ai trovatori della Provenza 
                          francese, Daniel Arnaut e Bertran de Born. Nel corso 
                          della sua lunga carriera, Pound non perse mai di vista 
                          l’importanza della tradizione e della traduzione: 
                          il riportare a nuovo le grandi opere letterarie da una 
                          cultura a un’altra. Nel suo saggio How to 
                          Read – Come leggere, Pound sottolineò 
                          l’importanza della traduzione nella storia della 
                          letteratura inglese: “… La letteratura inglese 
                          vive di traduzione, si nutre di traduzione; ogni nuova 
                          esuberanza, ogni nuova spinta è stimolata dalla 
                          traduzione, ogni grande epoca è un’epoca 
                          di traduzioni a partire da Geoffrey Chaucer, Le grand 
                          Translateur…” E in una annotazione di passaggio 
                          nello stesso saggio, Pound mostrò come la strana 
                          ambivalenza (o inconsapevolezza) della cultura letteraria 
                          anglo-americana nei confronti della traduzione risalisse 
                          a prima che l’inglese emergesse come lingua franca 
                          (lasciamo perdere poi la formazione dell’America 
                          come unica superpotenza mondiale). “Abbastanza 
                          curiosamente, le storie della letteratura spagnola e 
                          italiana tengono sempre conto dei traduttori. Le storie 
                          della letteratura inglese, invece, glissano sempre sulle 
                          traduzioni – credo sia un complesso di inferiorità 
                          – eppure alcuni dei migliori libri in lingua inglese 
                          sono traduzioni”.  A causa della grandezza del proprio personaggio e della 
                          posizione privilegiata che egli attribuì alla 
                          traduzione nella sua stessa opera, Pound riuscì 
                          quasi a rimuovere lo stereotipo che affligge il traduttore: 
                          a rovesciare l’idea del traduttore come eunuco 
                          nell’harem della letteratura. Pound fu d’ispirazione 
                          per una generazione di traduttori cosiddetti modernisti 
                          – tra cui Louis Zukofsky e Paul Blackburn – 
                          che cercarono di rendere le opere degli antichi poeti 
                          latini e provenzali in maniere nuove, completamente 
                          moderne, a volte controverse e di stimolare così 
                          le passioni di nuovi lettori. Ugualmente, l’influenza 
                          di Pound è poco presente nelle traduzioni anglo-americane 
                          contemporanee che ora, piuttosto che imitare le tecniche 
                          stilistiche vittoriane che egli disprezzava così 
                          tanto, adottano una sorta di discorso trasparente o 
                          stile piano autorevole. In ogni caso, i metodi di traduzione 
                          dominanti (dominanti almeno sul mercato, se non nell’università) 
                          tendono all’addomesticamento del testo straniero, 
                          a una resa così scorrevole che il lettore di 
                          lingua inglese spesso non realizza affatto che di traduzione 
                          si tratta. Qualsiasi lettore abituale di riviste di opere letterarie 
                          tradotte noterà la propensione a raccomandare 
                          scorrevolezza, fluidità e forza espressiva e 
                          a condannare segni di “traduttorese”, vale 
                          a dire una sintassi e delle scelte lessicali inattese 
                          o un vocabolario arcaico che mantengano tracce della 
                          natura straniera dell’originale. Nondimeno, in 
                          parte per via dell’eredità di Pound e in 
                          parte a causa del prevalere del discorso postmoderno 
                          nell’accademia contemporanea, il conflitto principale 
                          nei translation studies continua a essere tra 
                          questi due poli: e cioè tra l’addomesticamento 
                          (domestication) e la cosiddetta foreignization 
                          dei modi di tradurre. Benché i decostruzionisti 
                          abbiano ripreso questo argomento con fervore nuovo e 
                          prevedibilmente politico, è difficile che esso 
                          rappresenti un motivo di interesse. Il teologo Frederich 
                          Schleirmacher scrisse nel suo saggio del 1813 intitolato 
                          On the Different Methods of Translation una 
                          frase in grado di sintetizzare la scelta fondamentale 
                          che ogni traduttore si trova ad affrontare, ora come 
                          allora: “O il traduttore lascia stare lo scrittore 
                          quanto più gli è possibile e avvicina 
                          il lettore allo scrittore, oppure lasciare stare il 
                          lettore quanto più gli è possibile e avvicina 
                          lo scrittore al lettore”. In una traduzione, avvicinare 
                          il testo al lettore significa addomesticare il testo 
                          straniero, eliminandone gli elementi esotici. Avvicinare 
                          il lettore all’originale rappresenta quella che 
                          alcuni teorici definiscono foreignization , 
                          cioè rinnovare l’elemento dell’”alterità” 
                          culturale che caratterizza il testo straniero.  Questa discussione mi fa venire in mente un episodio 
                          accaduto nei primi mesi del mio soggiorno in Slovenia, 
                          quando ancora dovevo apprendere la lingua, e che ha 
                          a che fare con uno dei grandi crucci che affliggono 
                          i traduttori come anche gli studenti di lingue: l’esistenza 
                          nelle lingue europee del registro formale, opposto a 
                          quello informale, convenzione che offre indicazioni 
                          sociali essenziali sia nella forma scritta che in quella 
                          orale. In genere si crede che quest’uso linguistico 
                          sia intraducibile in inglese e questo episodio sembrerebbe 
                          confermarlo. Ero seduta in un caffè di Ljubljana con un amico 
                          che mi presentò a un suo conoscente molto gentile 
                          che parlava un inglese impeccabile. Dopo la stretta 
                          di mano, il ragazzo si sedette di fronte a me e guardandomi 
                          con espressione seria mi chiese educatamente: “May 
                          I call you you?” Non volendolo deludere, 
                          accettai la sua proposta e, lasciandoci questo tentativo 
                          che definirei di estremo addomesticamento alle spalle, 
                          continuammo la nostra conversazione senza problemi. 
                          Ma come dovrebbe affrontare questo dilemma il traduttore 
                          quando si trovasse ad incontrarlo in un’opera 
                          letteraria? Dovrebbe mettercela tutta per trovare un’alternativa 
                          inglese alla forma familiare – qualcosa del tipo 
                          “hey, amico” – oppure dovrebbe ricorrere 
                          alle forme arcaiche “thee” e “thou”.
 Un esempio semplice ed elegante di foreignization 
                          in un caso simile, si trova nella traduzione di Cecità 
                          di Jose Saramago, l’autore portoghese vincitore 
                          del premio Nobel per la letteratura nel 1998. Il traduttore 
                          di Saramago, Giovanni Pontiero, quando si è trovato 
                          di fronte un riferimento esplicito al registro informale, 
                          ha semplicemente lasciato il pronome nell’originale 
                          portoghese: “You must call me tu”, dice 
                          una donna anziana a una più giovane in un momento 
                          commovente e centrale del loro rapporto. La parola e 
                          le sue connotazioni vengono comprese da tutti i lettori 
                          fatta eccezione solo per i più ottusi. Ma cosa 
                          più importante, il traduttore non fa alcuno sforzo 
                          per creare l’illusione che la storia abbia luogo, 
                          diciamo, a Cleveland, in Ohio. In altre parole, non 
                          compie alcuno sforzo per creare l’illusione che 
                          l’opera non è una traduzione. Il lettore, 
                          in questo esempio, viene avvicinato piuttosto con garbo 
                          ed efficacemente al testo straniero. Molte delle polemiche più roventi che dividono 
                          i teorici della traduzione potrebbero essere risolte, 
                          almeno parzialmente, se la traduzione venisse considerata 
                          un genere distinto dalla letteratura originale, Non 
                          si tratta di un suggerimento così eccentrico. 
                          Si lascerebbe spazio a molti approcci differenti: dalla 
                          traduzione stringatamente letterale di Nabokov alle 
                          pubblicazioni bilingui fino alle improvvisazioni più 
                          libere di Pound. Lo stesso Pound fece una distinzione 
                          tra “traduzione interpretativa” e “l’altro 
                          genere” di traduzione. Scrisse Pound: “Con 
                          l’espressione altro genere intendo quei casi in 
                          cui il ‘traduttore’ dà decisamente 
                          vita a una nuova poesia, che cade semplicemente nel 
                          dominio dello scritto originale o che se non lo fa deve 
                          essere giudicata secondo gli stessi standard”. 
                          Dopotutto, alcuni testi stranieri (quelli che vengono 
                          considerati facilmente “traducibili”) sono 
                          più suscettibili a un approccio letterale, mentre 
                          altri (i meno “traducibili”) richiedono 
                          soluzioni più creative e alcuni acquistano senza 
                          dubbio nuova vita grazie alla penna di uno scrittore 
                          come Pound. Una definizione più ampia di traduzione, 
                          che la distingua chiaramente dalla composizione originale, 
                          potrebbe racchiudere entrambi gli approcci. Definire 
                          la traduzione come un genere completamente differente 
                          – e, quindi, catalogare le traduzioni in un ripiano 
                          separato dalla letteratura originale come viene fatto 
                          generalmente nelle librerie slovene – eliminerebbe 
                          ogni tipo di confusione, come quella che mi investì 
                          a Piazza Navona. L’opera originale di Jack Jerouac 
                          non verrebbe più inserita sullo scaffale tra 
                          le traduzioni di Kafka e Kundera, e le cose balzerebbero 
                          subito agli occhi. Eppure mentre un cambiamento di definizione 
                          potrebbe risolvere alcuni problemi della traduzione 
                          nel mercato letterario anglo-americano, non risolverebbe 
                          il problema principale: il fatto che oggigiorno le opere 
                          straniere vengono tradotte in numero sempre più 
                          ridotto. Proprio come il dilemma tra addomesticamento e foreignization, 
                          anche il problema più controverso dell’uso 
                          della letteratura straniera e della traduzione come 
                          metodo per estendere (o negare) l’influenza culturale 
                          ha preceduto di gran lunga il postmodernismo e anche 
                          il modernismo. Non è affatto sorprendente che 
                          la questione esista da quando esistono imperi culturali 
                          e traduzioni. L’impero romano, al quale oggi a 
                          volte viene paragonata l’America, produsse i primi 
                          traduttori della civiltà occidentale che ebbero 
                          la tendenza a essere ben più prepotenti degli 
                          imperialisti culturali di oggi. I romani non solo addomesticavano 
                          le opere degli antichi greci, ma le assimilavano interamente: 
                          spingendo la sintassi greca al servizio del latino e 
                          cambiando persino i nomi dei luoghi dell’antichità 
                          con nomi latini coniati di fresco. Addirittura, a volte, 
                          al contrario di quanto avviene nelle pubblicazioni di 
                          oggi in cui ad essere sminuito è il ruolo del 
                          traduttore, l’autore dell’opera greca originale 
                          veniva relegato all’ultima pagina mentre il traduttore 
                          romano otteneva la prima. “All’epoca”, 
                          sottolineò Nietzsche, “tradurre significava 
                          conquistare”. Oggi è Hollywood a fare ampio 
                          ricorso ai vecchi metodi romani, prendendo buoni film 
                          come La Femme Nikita e capolavori 
                          come Fino all’ultimo respiro di Godard 
                          e a trasformarli in prodotti americani ordinari che 
                          somigliano assai poco agli originali.  L’industria editoriale, d’altro canto, 
                          ha adottato un modello più insidioso. Senza nemmeno 
                          preoccuparsi di tradurre, tanto meno di assimilare le 
                          opere straniere, gli interessi culturali americani conquistano 
                          la letteratura straniera semplicemente ignorandola. 
                          Ambo i lati di questa equazione culturale pagano un 
                          caro prezzo. Le culture non dominanti soffrono perché 
                          la loro letteratura non viene diffusa, ma paradossalmente 
                          è il conquistatore forse a pagare il prezzo più 
                          alto: provincialismo e chiusura nella sfera della creazione 
                          letteraria domestica e la mancanza dello stimolo di 
                          cui si ha bisogno per dar vita a una grande epoca letteraria. 
                         Tutte le discussioni accademiche su buone e cattive 
                          traduzioni, traduzioni belle e traduzioni fedeli, addomesticate 
                          o no, sono interessanti, ma, tutto sommato, nell’attuale 
                          battaglia culturale, sono non pertinenti. Vale piuttosto 
                          il vecchio detto secondo cui l’unica cosa peggiore 
                          di una cattiva pubblicità è nessuna pubblicità. 
                          Allo stesso modo, l’unica cosa peggiore di una 
                          cattiva traduzione è nessuna traduzione. Di sicuro 
                          alcuni contesteranno questa affermazione. Eppure è 
                          stato detto così tanto di quello che va perso 
                          nella traduzione (è celebre l’annotazione 
                          di Robert Frost secondo cui nella traduzione si perde 
                          la poesia) che spesso perdiamo di vista quello che se 
                          ne guadagna.  Un’intera scuola di puristi e teorici radicali 
                          della traduzione potrebbero sostenere che Ales e io, 
                          nell’aprile del 1992, non stessimo nemmeno leggendo 
                          la stessa opera letteraria mentre viaggiavamo di notte 
                          verso la nostra destinazione comune. E, da un certo 
                          punto di vista, avrebbero ragione. Ortega y Gasset (pensatore 
                          brillante che nei suoi saggi cita in traduzione più 
                          della metà dei riferimenti) la mise in questo 
                          modo: “Il fatto è che la traduzione non 
                          è l’opera, ma un sentiero verso l’opera”. 
                          Lasciamoci stupire per un attimo dalla più modesta 
                          delle parole: sentiero. Perché senza sentieri, 
                          sia reali che metaforici, siamo tutti fermi ai nostri 
                          posti, incapaci di muoverci, di comunicare, di comprendere, 
                          incapaci di trascendere la nostra situazione locale. 
                          Il sentiero di Ales – la sua traduzione di Immortalità 
                          – lo aveva guidato attraverso un paese rinato, 
                          attraverso il bacino del fiume Po, oltre gli Appennini 
                          e infine a Roma. Il mio sentiero, la mia traduzione 
                          piuttosto diversa, mi aveva sollevato in aria, attraverso 
                          la vastità di un oceano, da una massa continentale 
                          a un’altra. Eppure, nonostante la distanza dei 
                          nostri punti di partenza, la diversità dei nostri 
                          itinerari, il fatto che i veicoli che ci trasportavano 
                          fossero differenti – il suo un treno, il mio un 
                          jet aggressivo che volava a 30mila piedi dalla superficie 
                          terrestre – arrivammo nello stesso luogo: una 
                          panchina di pietra in una Piazza Navona quasi deserta. 
                          O, più precisamente, arrivammo tanto vicini quanto 
                          due esseri umani possano mai sperare di arrivare. E’ questo quello che si guadagna nella traduzione.
 Traduzione dall’inglese di Chiara Rizzo e Martina Toti
 © Eurozine
 La versione originale di questo articolo è
 apparso sulla rivista slovena Sodobnost 
                          (7-8/2005)
 
 
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