Laura Bocci
è una traduttrice di professione. Ha consegnato
all’attenzione dei lettori italiani opere di Lenz,
Kleist, Chamisso, Hoffmann, Storm, Sternheim, Enzensberger,
movendosi tra la letteratura e la saggistica, tra romanzi
e articoli per giornali e riviste. Nel 2004 ha provato
a raccontare la sua professione in un romanzo, Di
seconda mano (Rizzoli), nel quale ha provato a
tracciare un ritratto del proprio mestiere.
Di seconda mano è un romanzo
e al tempo stesso non lo è. Può riassumere
brevemente la trama e spiegare il motivo che l’ha
spinta a scrivere un libro sull’universo dei traduttori?
A dire la verità la trama è quasi inesistente,
solo una specie di “cornice” rappresentata
da un viaggio a Berlino in cui si aspetta la telefonata
di risposta di un editore importante a una proposta
di traduzione fatta qualche tempo prima. Si tratta quasi
solo di un pretesto narrativo per raccontare alcune
storie e fatti (che riguardano me in piccola parte,
e altre persone del presente e del passato) legati tra
loro dal “filo rosso“ della traduzione letteraria;
però al tempo stesso io volevo anche parlare
della traduzione come procedimento “estremo”
di lettura-scrittura contemporanee, oltre che come esperienza/Erlebnis
e riflessione sull’esperienza, e volevo parlarne
non in maniera teorica e astratta (perché l’apparato
teorico sul tradurre negli ultimi anni è diventato
immenso e quasi schiacciante, oltre che molto tecnico,
quindi quasi inaccessibile per i non addetti ai lavori)
bensì attraverso un racconto, anche ironico e
autoironico. Il libro che è risultato da questo
tentativo o esperimento è una forma narrativa
con molti riferimenti alla teoria, senza però
che questi rappresentino degli ostacoli bensì
solo dei punti di riferimento per il lettore (questo
almeno è ciò che mi auguro).
Ho scritto un libro sull’universo dei traduttori
letterari perché in passato si è preso
molto poco in considerazione il traduttore come “soggetto
attivo” di un processo così complesso come
quello della traduzione letteraria. La grande e giusta
attenzione alla teoria della traduzione degli ultimi
quindici/vent’anni ha però lasciato il
traduttore in una specie di “cono d’ombra”,
quasi che il processo traduttivo, supportato da così
tanta teoria, potesse quasi farsi da sé, in maniera
semiautomatica, e invece è tutt’altro che
così.
Nel libro lei parla delle difficoltà
di conciliare l’attività intellettuale
con la vita privata. Qual è la condizione della
donna in una professione intellettuale come la sua?
Credo che ancora oggi per una donna conciliare il lavoro
con la vita privata resti una faccenda complicata, e
così è stato anche per me. Lavorare in
casa poi rende tutto più difficile, perché
la casa “risucchia” ed è difficile
rimanere completamente concentrate nella “stanza
tutta per sé”, anche ammesso che se ne
abbia una; però quando i figli crescono è
più facile chiudere la porta, chiedere loro di
collaborare, di diventare più autonomi, anche
se in questo le madri italiane hanno qualche problema
in più… Noi però in casa lo abbiamo
fatto abbastanza, anche se non è stato sempre
facile , e io sono molto grata ai miei figli per il
loro contributo. Resta comunque il fatto che ho avuto
bisogno di molti anni di lavoro solitario nella traduzione
letteraria, e anche di una vera e propria crisi di questa
attività – che forse non ho ancora superato
del tutto – per riuscire a mettermi a scrivere
questo libro, un libro al quale lavoravo mentalmente
da parecchio tempo.
Nel libro descrive le difficoltà del
tradurre un testo, un’attività, questa,
tutt’altro che secondaria. Quale alchimia si crea
tra traduttore e autore, quali meccanismi entrano in
gioco quando si trova a tradurre una lingua totalmente
differente dalla sua?
Tradurre un testo letterario investe il traduttore
in pieno, in tutta la sua persona, sia a livello razionale/culturale
che a livello affettivo/inconscio. Questo anche perché
il vero focus della traduzione letteraria è
la lingua madre: è nella traduzione che meglio
si sperimenta il rapporto di conoscenza, di padronanza,
e di amore–odio nei confronti della lingua madre.
E’ una specie di grande palestra linguistica in
cui si gioca ma si fa anche a pugni. E poiché
la lingua conduce ovunque, tradurre è anche una
specie di auto-psicanalisi continua, perché le
parole mettono in gioco la soggettività del traduttore,
la sua autobiografia linguistica, le sue idiosincrasie
personali, la catena delle sue libere associazioni,
e anche la sua sofferenza psichica nel trovarsi nel
“guado del tradurre”. Per questo è
necessario un controllo, perché tradurre è
un processo che dobbiamo governare e orientare. Qui
naturalmente il rapporto con l’autore è
molto importante, c’è una specie di alleanza
con lui nel tentativo di catturare e mantenere vivo
per tutto il libro l’interesse del lettore, si
diventa intimi, la relazione si fa molto stretta, personale.
Quanto è alto il rischio di “rovinare”
l’opera che ha tra le mani attraverso il passaggio
da una lingua ad un’altra?
Il rischio è altissimo, ecco perché tanti
grandi, a partire da Goethe, ma anche prima e dopo di
lui, hanno definito la traduzione letteraria un compito
infinito e impossibile. Bisogna tenere ben presenti
tutte le infinite variabili dei tre punti di riferimento
fondamentali, che sono lo stile, il ritmo e il clima,
tre concetti sui quali si potrebbe discutere all’infinito.
Ogni libro contiene in sé la cultura
e le tradizioni di chi lo ha scritto. In che misura,
nonostante la traduzione, resta intatto questo bagaglio
culturale? Inevitabilmente qualcosa si perde?
Come afferma Antoine Berman, un grande teorico francese
della traduzione, morto prematuramente e troppo poco
letto in Italia, bisogna resistere alla tentazione dell’etnocentrismo,
cioè del rendere tutto troppo simile a noi: chi
legge la grande letteratura non ha, io credo, nessun
interesse a vedersi propinare una traduzione troppo
etnocentrica, cioè troppo familiare, resa artificiosamente
vicina e comprensibile; troppo “bella”,
insomma, troppo ripulita e sterilizzata. E’ assolutamente
necessario mantenere quella che i romantici tedeschi
definivano Die Farbe der Fremdheit, il colore
dell’alterità, altrimenti l’interesse
del lettore colto decade del tutto, perché si
tratta di un lettore esigente, che vuole ancora percepire
nella traduzione il gusto, il sapore dell’originale.
Il titolo Di seconda mano sta ad indicare
il ruolo nascosto nell’ombra di chi fa il mestiere
di traduttore?
Sì, la sua infatti è la seconda mano,
dopo quella dell’autore, che interviene sul testo,
che si fa carico della responsabilità e del compromesso
della sua trasformazione e della sua “nuova nascita”
in un’altra lingua. Tuttavia, per quanto questo
rischiosissimo procedimento possa essere condotto con
sapienza e cautela, inevitabilmente il risultato non
potrà che essere un oggetto in qualche modo “di
seconda mano”, il frutto di molti, necessari compromessi.
La vostra categoria lamenta una certa dimenticanza
da parte del mondo intellettuale?
E’ così, e la prima responsabilità
è degli editori, che non hanno ancora una visione
chiara della difficoltà e della dignità
di questo lavoro, e che ancora si permettono di offrire
compensi a forfait e non a cartella o a numero
di caratteri. L’attenzione tutta teorica degli
ultimi anni verso la traduzione non si è ancora
tradotta in attenzione concreta e reale verso il traduttore
come soggetto culturale. Quella del traduttore resta
ancora l’ultima e la più maltrattata delle
professioni intellettuali.
Nel libro lei sostiene la necessità
di portare il lettore verso l’autore e non viceversa.
Può spiegarsi meglio?
In alcune tipologie testuali (quelle relative all’informazione,
alla divulgazione ecc.) è necessario trasferire
soprattutto i contenuti nella maniera più chiara
possibile, al limite anche intervenendo sul testo originale:
questo significa portare l’autore verso il lettore.
Ma quando traduciamo letteratura l’unica operazione
consentita è quella di rimanere il più
possibile vicini al testo originale, di tradurre potremmo
dire “filologicamente”, anche a costo di
sottoporre il lettore della lingua d’arrivo a
qualche piccolo shock o difficoltà, a qualche
benefico ostacolo. Parafrasando Benjamin e il suo celebre
“compito del traduttore”, si potrebbe dire
che, se esistesse un “compito del lettore”,
esso potrebbe consistere nel rifiutare traduzione troppo
annacquate e addomesticate e del tutto prive del gusto
dell’originale, anche se a volte sono proprio
gli editori a preferirle così.
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