Ian McEwan,
Sabato,
Einaudi, pp. 292, € 17,50
Non so se McEwan scrivendo Saturday (Sabato)
abbia pensato all’Odissea, ma certo l’epica
minore e le disavventure, soprattutto psicologiche,
che deve affrontare il suo antieroe Perowne a mio avviso
rimandano ad un Ulisse postmoderno, che non ha più
alcun dio a soccorrerlo e teme, più che la collera
dei numi, gli attentati terroristici e deve vedersela,
una volta fatto ritorno a casa, non coi Proci ma con
la prepotenza di due balordi teppistelli. Un’Odissea
inglese dei giorni nostri, concentrata in un sabato
solo ma gravido di accadimenti, emozioni e agnizioni.
Un romanzo dall’impianto tradizionale e dalla
vocazione a divenire conte philosophique, denso
(fin troppo) di analisi sociologiche com’è
e ambizioso nel tentativo di tratteggiare un quadro
culturale di questo nostro Occidente all’alba
di un secondo millennio cui si sta affacciando sempre
più ansioso ed insicuro.
E giusto all’alba inizia la vicenda di Ulisse/Perowne,
in un crepuscolo mattutino nel segno d’una allarmante
apparizione/premonizione: un aereo in fiamme attraversa
il cielo oscuro di Londra. Come non pensare all’11
Settembre e ad Al-Qaeda? Specie perché siamo
alla vigilia dell’invasione americana in Iraq,
con Blair che appoggia Bush, e per protesta la città
proprio quel giorno verrà invasa da una folla
immensa di pacifisti. Questa la cornice dove McEwan
colloca la sua Odissea ed entro cui vaga attraverso
un lunghissimo sabato il borghese, moderato e benpensante
Perowne, un neurochirurgo che pare incarni in modo esemplare
le ambizioni della middle class, avendo un
buon conto in banca, una bella (e brava) moglie, due
figli realizzati e una casa stupenda.
Un sabato di libera uscita dall’ospedale, che
comincia però con una seccatura – il traffico
è paralizzato dalla manifestazione contro la
guerra – e con un incidente automobilistico tanto
banale quanto inquietante, dove Perowne rischia di venire
seriamente malmenato. Però lo scaltro Odisseo
riesce a cavarsela, anche se non può (né
vuole) evitare altri impegni: una defatigante partita
a squash, la sofferta visita alla madre malata di Alzheimer,
la cena familiare cui ha dovuto invitare il suocero
arrogante. Ma sarà il ritorno a casa l’avventura
più ardua della sua odissea, dovendo affrontare
(e sconfiggere) i teppisti che insidiano la sua proprietà
e i suoi cari. Vi riuscirà – da bravo Ulisse
– con un inganno ed il sabato e la sua storia
potranno concludersi nel talamo nuziale.
Questa la trama, solo all’apparenza complessa
benché narrata con la minuzia tipica di McEwan
ed attentissima ai dettagli (fino all’eccesso):
dalla stucchevole partita a squash, alla meticolosissima
preparazione della cena, infine alla difficile operazione
al cervello di uno degli aggressori, effettuata dal
buon samaritano Perowne. Precisione descrittiva, a mio
avviso, che qui si manifesta quale rifugio, o esorcismo
narrativo contro il timore d’insignificanza di
ogni parola ulteriore dal retrogusto amaro del già
detto; quasi appunto non vi fosse altro da registrare
tranne queste minuzie. O quale consolamentum
nei confronti della problematicità rispetto al
senso odierno della poiesi letteraria, di un narrare
romanzesco che comunque non può esaurirsi nella
pur mirabile maestria descrittiva dell’autore.
Come risulta ridondante la troppa carne messa al fuoco
dal Nostro, rispetto alle tematiche anche solo sfiorate
(“Hanno discusso dell’Iraq, naturalmente,
di Stati Uniti e potere, di sfiducia europea, dell’Islam
– delle sue sofferenze e dei suoi vittimismi,
di Palestina e di Israele, di dittatori e di democrazia”).
Perowne di continuo discetta, considera, illustra questo
o quel problema – mondiale o esistenziale che
sia – e sono riflessioni interessanti, di buon
senso e in gran parte da condividere, ma che a volte
suonano prevedibili, scontate o peggio retoriche. Certo,
Perowne è spesso sottilmente ironico, al limite
di uno scetticismo ben temperato che indossa i panni
del disincanto, ma questa smania di tutto affrontare
(speculare a quella di tutto anatomizzare) svela un’ansia
di perdita di controllo che il personaggio non riesce
a gestire. Non a caso i reiterati accenni a Undici Settembre,
guerra in Iraq e timore degli attentati sono segnali
d’allarme del manifestarsi di una caoticità
entropica cui egli oppone vanamente la sua razionalità/professionalità
scientifica.
Ma in questo sta anche il pregio narrativo di McEwan.
In quanto Perowne è maschera e figura di un po’
tutti noi occidentali ben pasciuti e acculturati che
tutto comprendono ma ben poco fanno per arginare il
caos. Il suo dramma, che è pure il nostro, sta
nel rendersi conto di come coltivare il proprio orticello
non basti più ad assicurarsi una vita serena.
O forse il vero guaio è che poi, alla fine del
sabato e di tutte le ambasce, lui torni a dormire/illudersi
tranquillo: le bombe sulla metropolitana di Londra sono
di là da venire. Sì, questa è un’altra
storia. Chi sa che un giorno McEwan non provi a raccontarcela.
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