Una decina
di studiosi provenienti dai principali paesi dell’Asia
orientale che per tre giorni discutono con i loro colleghi
italiani intorno al pensiero di un filosofo napoletano
cui hanno dedicato ricerche in alcuni casi pluridecennali:
è un evento senz’altro inusuale che si
è verificato in occasione del Convegno su Vico
e l’Oriente: Cina, Giappone, Corea”
organizzato nei giorni scorsi (10-12 novembre) a Napoli
dall’Istituto per la storia del pensiero filosofico
e scientifico moderno del CNR sotto l’egida del
Comitato per le Celebrazioni del 750° anniversario
della nascita di Marco Polo e con la collaborazione
di quattro atenei (“La Sapienza” di Roma,
“Federico II” e “Orientale”
di Napoli”, e l’Università di Salerno).
Potrebbe sembrare a prima vista bizzarro l’accostamento
fra l’Oriente, oggetto di attualità per
le impetuose trasformazioni economiche e sociali, e
un filosofo come Giambattista Vico che nella Napoli
della prima metà del Settecento elaborava, in
uno stile personalissimo e talvolta arduo, un pensiero
complesso e suscettibile di diverse e contrastanti interpretazioni,
ma senz’altro fortemente critico nei confronti
del razionalismo cartesiano che in quegli anni sembrava
incarnare la modernità.
Eppure, sorprendentemente, Vico è uno degli
autori italiani più noti, studiati e tradotti
in Estremo Oriente. Il dato relativo alle traduzioni
delle sue opere è di per sé significativo:
sette ne sono apparse in Giappone, dalla prima, parziale,
della Scienza nuova pubblicata nell’immediato
dopoguerra (1946) alle due edizioni dell’Autobiografia
che hanno visto la luce fra il 1990 e il 1991; in Cina,
dopo la Scienza nuova tradotta nel 1986 da uno dei maggiori
intellettuali cinesi, Zhu Guanqian, è stata pubblicata
nel 1997 un’antologia vichiana e proprio in occasione
del Convegno di Napoli un giovane studioso di Shanghai,
Zhang Xiaoyong, ha presentato le sue versioni di alcuni
scritti latini di Vico. In Corea l’interesse è
più recente: fra il 1996 e il 1997 sono apparse,
tradotte dal giapponese, il De Antiquissima Italorum
sapientia e la Scienza nuova, e di
quest’ultima è in corso la traduzione,
direttamente dall’originale, ad opera dello storico
Hanook Cho, anch’egli presente a Napoli, che ha
già presentato al pubblico coreano Carlo Ginzburg.
Alle traduzioni delle opere di Vico si aggiungono poi
quelle di alcuni studi sul suo pensiero, principalmente
anglosassoni, e soprattutto numerose pubblicazioni originali:
una ventina sono soltanto gli articoli su Vico apparsi
dal 1996 in Cina, sulle delle piccole università
di provincia come su quelle degli atenei più
prestigiosi.
Il desiderio di comprendere i percorsi e le ragioni
che hanno suscitato una tale attenzione e i risultati
cui questa ha condotto è stato il primo motivo
del Convegno. Ma si trattava anche, più in generale,
di cogliere l’occasione per conoscere meglio una
realtà che spesso ci sfugge: infatti, malgrado
il crescente interesse per l’Asia e in particolare
per la Cina, sappiamo poco – e ci interroghiamo
poco – sugli studi che si compiono in Asia orientale
riguardo alla nostra storia e alle nostre civiltà.
Si tratta invece di un panorama di studi di grande interesse
e in forte espansione che si inserisce profondamente
nelle dinamiche culturali, sociali, politiche dei rispettivi
paesi, come ha mostrato dettagliatamente la relazione
di Gao Yi, storico dell’Università di Pechino,
e ci aiuta quindi a comprendere tali dinamiche e a comprendere
soprattutto gli atteggiamenti, le riserve e le aspettative
nei confronti dell’Occidente. La storiografia
orientale, inoltre, offre spesso uno sguardo inedito,
a volte spiazzante e per questo prezioso, sul nostro
mondo e sulla nostra storia.
La filosofia di Vico è giunta in Oriente attraverso
la mediazione di Croce (che come è noto ne fece
un precursore del suo storicismo assoluto) ma anche
di Marx (che lo citò nel Capitale e
a cui è stato accomunato per la concezione della
storia come creazione umana) nonché, in anni
più recenti, attraverso l’influenza degli
studiosi americani riuniti attorno all’Institute
for Vico Studies di Giorgio Tagliacozzo e alla rivista
“New Vico Studies”. La mediazione statunitense
è particolarmente significativa in Corea, dove
l’interesse per Vico è più recente
e prevalentemente rivolto al versante storico del suo
pensiero.
In Cina e in Giappone l’interesse per Vico è
più antico e si inserisce profondamente nell’ottica
del confronto fra la tradizione “filosofica”
dei due paesi e quella occidentale, alla luce delle
emergenze dell’attualità. E’ quindi
senz’altro singolare ma nient’affatto casuale,
ad esempio, che una studiosa come Lu Xiaohe sia passata
dalle ricerche e dalle traduzioni vichiane agli studi
di business ethics, una materia, evidentemente,
di scottante rilevanza nella sua Shanghai, e abbia impostato
la sua relazione al Convegno intorno alla funzione di
Vico nell’ambito dell’attuale sforzo di
ricostruzione della filosofia cinese. Di grande interesse
è anche il percorso di Tadao Uemura, giunto a
Vico intorno al Sessantotto attraverso Gramsci, Sorel
e, soprattutto, l’Husserl della Crisi delle
scienze europee, e che a distanza di anni, dopo
aver dedicato al filosofo napoletano numerosi articoli
e volumi, continua a rielaborarne il pensiero anche
alla luce delle posizioni di Edward Said. Del resto
la figura di quest’ultimo, con la sua critica
dell’approccio occidentale all’Oriente e
con i suoi riferimenti espliciti, per quanto sommari,
a Vico è stata più volte richiamata nel
corso del convegno.
Sia per Uemura sia per Lu Xiaohe, ma la considerazione
vale più in generale per i rispettivi paesi,
l’interesse per Vico corrisponde alla ricerca
di un approccio alla filosofia occidentale da un punto
di vista critico rispetto ai suoi fondamenti razionalistici.
E’ quindi il Vico critico di Cartesio che interessa
in primo luogo, mentre rimane decisamente in secondo
piano, come ha osservato Toshiaki Kimae a proposito
del Giappone, l’aspetto religioso del suo pensiero.
Per quanto riguarda il campo specifico della filosofia
di Vico, dal convegno sono emerse puntualizzazioni significative.
Nella sua prolusione Giuseppe Cacciatore ha evidenziato
l’ambivalenza, nella filosofia vichiana, fra universalismo
e mediterraneocentrismo, fra ricerca di una visione
universale dell’umanità e della sua storia
e ripiegamento su una lettura di esse fondata in maniera
prevalente sui dati tratti dalla tradizione greco-romana
e biblica.
Questo tema dell’ambivalenza è stato ripreso
in molti degli interventi specificamente incentrati
sul pensiero vichiano, sul contesto culturale in cui
esso si è espresso e sui suoi sviluppi settecenteschi
e ottocenteschi. Il caso di Vico segnala qui un problema
di grande portata: come instaurare un rapporto con l’“altro”
che accetti la diversità senza tradurla in termini
di superiorità/inferiorità, ovvero accetti
l’uguaglianza derivante dalla comune natura umana
senza tradurla in omologazione.
D’altra parte proprio Vico, con la sua critica
del cartesianesimo e il suo interesse per i fondamenti
fantastici e corporei del pensiero, si è dimostrato
un pretesto propizio per un dialogo con l’Oriente
capace di contribuire ad un riesame critico delle categorie
occidentali. Le ultime due sessioni del convegno sono
state dedicate appunto al confronto di prospettive attorno
ad alcuni “temi vichiani”: da un lato il
significato e l’origine del linguaggio e delle
diverse forme di scrittura, dall’altro i problemi
della storia, dell’antropologia, della religione.
Al termine di una discussione sul confronto fra le scritture
ideografiche e quelle alfabetiche, risolto a suo tempo
da Vico a favore delle seconde, Federico Masini ha espresso
l’esigenza di ricondurre il problema del carattere
naturale o culturale del linguaggio sul piano concreto
della storia di ogni individuo: prima in quell’urlo
con cui, alla nascita, ha inizio la vita e che rappresenta,
al tempo stesso, il primo atto linguistico, e poi nei
primi mesi di vita nel corso dei quali il neonato ascolta
le parole degli altri ma non parla.
Altro tema trasversale a molti interventi è stato
quello, attualissimo, del rapporto fra società
e religione. Vico, prospettiva apologetica, fa coincidere
l’origine della società con l’istituzione
dei matrimoni, delle sepolture e del culto religioso
(“nozze, tribunali ed are” avrebbe tradotto
Foscolo in un celebre verso). La tesi dell’essenzialità
della religione per la sopravvivenza della società,
riaffermata nel Settecento anche contro l’ipotesi
di Bayle di una possibile Repubblica di atei virtuosi
e proposta con insistenza anche oggi, si scontra proprio
con il fatto che una fetta consistente del genere umano
sia organizzato in società in cui la religione
riveste un ruolo affatto secondario, cosa che vale in
particolare a proposito della Cina, o comunque riveste
forme ben lontane dal monoteismo giudaico-cristiano
e islamico. Il confronto fra Occidente e Oriente stimola
dunque a rivedere un atteggiamento che, per riprendere
una terminologia vichiana, si potrebbe ascrivere all’occidentale
“boria delle nazioni”: la convinzione cioè
che ragione e religione costituiscano i necessari fondamenti
della società umana.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|