290 - 12.12.05


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Il pensiero debole
scoppia di salute

Pier Aldo Rovatti



L’articolo che segue è tratto dal libro
Il bello del relativismo.
Quel che resta della filosofia nel XXI secolo

(Marsilio – I libri di Reset, 2005, euro 10,00),
curato da Elisabetta Ambrosi, con scritti di Butler, D’Agostini, De Monticelli, Di Nuoscio, Ferrara, Ferrarsi, Nussbaum, Petrucciani, Salvatore, Rorty, Rovatti, Vattimo, Veca.

Forse non è un caso che Il pensiero debole, inteso come libro uscito nel 1983, non prenda in considerazione le analisi che François Lyotard aveva poco prima proposto in La condizione postmoderna. L’ho osservato ripercorrendo quel periodo, per tentare di farlo conoscere in modo non schematico a chi oggi ha vent’anni, giusto l’età del pensiero debole. La mia lettura di questa dimenticanza è che le analisi di Lyotard, che riprendevano una parola già usata in architettura e altrove, per quanto intendessero dotare il cosiddetto post-moderno di un tratto filosofico unitario – riconoscibile nella pluralizzazione dei «racconti», e forse nell’idea stessa di racconto – erano solo un timido inizio che chiedeva, per stare in piedi, una più significativa articolazione di pensiero. Era come se Gianni Vattimo e io dessimo per scontato questo inizio, non sottovalutando il rischio che lo slogan, per la sua popolarità, arenasse il discorso in spazi troppo semplificati.

Bisognava spostare indietro il luogo dell’analisi e fare così i conti con Nietzsche e Heidegger in quest’ordine di implicazione filosofica; occorreva lavorare la questione della verità legandola strettamente alla questione del potere (e per questo era assai più importante richiamarsi a Michel Foucault); ma occorreva anche riaprire l’interrogazione sul soggetto coniugandolo con l’altro e l’alterità; bisognava, infine, mostrare che un pensiero debole virava verso le pratiche, debordando al di qua di ogni verità oggettiva teoreticamente bloccata. Occorrevano inoltre, come poi si è visto, tante altre articolazioni, non ultima quella connessa con il linguaggio inteso come «scrittura».

Direi comunque che, a vent’anni suonati, non solo il pensiero debole gode di buona salute (il libro omonimo si continua a leggere, e soprattutto il tema si è diffuso e anche radicato in una quantità di saperi e pratiche), ma che adesso è chiaro a molti il compito analitico che voleva promuovere: un compito di rilettura della società attuale e della tradizione di pensiero da cui proveniamo. Compito che diventa sempre più urgente e complesso nello scenario multiculturale e conseguentemente conflittuale in cui stiamo tutti vivendo. Parlerei dunque di pensiero debole, e di questo compito, piuttosto che di post-modernità. E mi chiederei: abbiamo strumenti teorici adeguati per essere all’altezza problematica di questo scenario?

Pensiero debole, pensiero politico

Ho la precisa sensazione, nel pormi questa domanda, che lo stigma del relativismo e il conseguente elogio di un pensiero del fondamento, con relative polemiche, ci facciano più che altro girare a vuoto e ci spostino all’indietro, in una scena già molto usata, come se nulla fosse accaduto in filosofia e nel pensiero in generale durante gli ultimi due decenni. Credere che oggi si giochi una guerra tra fondamenti e dunque tra forze, per dir così, allo stato puro, blocca con tutta evidenza la possibilità di comprendere le cose. Le battaglie per il realismo o per le ontologie oggettive sono chiaramente indizi di un grande disagio e anche di un certo smarrimento. Basta un minimo di criticità debole per rendersi conto che sono battaglie reattive, quando non vere e proprie difese di posizioni acquisite e ora minacciate da una società caratterizzata dall’incertezza (come direbbe Robert Castel). Basterebbe solo uno sguardo al mondo universitario, per indicare un microcosmo ben congeniale agli stessi operatori del pensiero. O al mondo del lavoro, il macrocosmo in cui tutti navighiamo a vista.

Il pensiero debole chiede innanzitutto una descrizione della realtà in termini di potere e di effetti autoritari della ragione (oltre Marx, per intenderci ma non contro Marx). Proprio perché sceglie questo terreno e tenta di non abbandonarlo – in quanto componente decisiva e irrinunciabile della sua argomentazione – il pensiero debole sembra in grado di costruire alleanze filosofiche (con il pensiero di Foucault, come ho ricordato, ma anche con quello di Derrida, come dirò tra un momento) e di individuare con una certa precisione il fronte dei cosiddetti avversari, insomma tutte quelle posizioni che remano verso nicchie autoritarie legittimandosi, non raramente, con dichiarazioni a sinistra. Risvolti autoritari che possono riguardare tutti, debolisti compresi, e che richiedono continui supplementi di autocritica o ulteriori indebolimenti, cioè una sempre maggiore sorveglianza sugli strumenti adoperati, un loro incessante «sfondamento».

Un esempio: la «scabrosità» (per usare un termine di Slavoj Zizek) della nozione abituale di soggetto, che non possiamo abbandonare ma che non possiamo neppure utilizzare, qualunque analisi della società facciamo, senza caricarla di elementi paradossali e senza sottoporla a un continuo riesame critico. O la nozione di «gioco», che io trovo assai produttiva come strumento di analisi e che può essere utilmente riferita all’idea stessa di soggetto, ma che rischia di irrigidirsi ogni volta che pretendiamo di servircene senza la consapevolezza di esserne sempre, in qualche modo, giocati.
Lo scenario cui alludevo, al quale possiamo anche dare il nome di «globalizzazione», esige strumenti di osservazione e descrizione adeguati, che si tratta in larga misura di costruire. Ci servono poco o nulla le scaramucce metafisiche con la loro promessa di tagliar corto. Questa «costruzione» di pensiero, oggi più che mai necessaria, viene solo ritardata da conclusioni, per dir così, di principio, che vorrebbero fare rapidamente ordine dandoci la formula. Rischiamo di restare impantanati nelle ideologie filosofiche, mentre si tratterebbe di descrivere proprio la «realtà»: essa si lascia prendere solo avvicinandosi alle pratiche e facendo nascere da lì nuove domande teoriche.

Qualcosa è cambiato in filosofia dopo l’11 settembre? Molti, senza alcun bisogno dell’etichetta di un pensiero debole, hanno percepito che si poneva – per esempio – la questione di sapere in che modo si potessero e dovessero manovrare, dopo quell’«evento», le nozioni di «dentro» e di «fuori», oppure, se si preferisce, di inclusione e di esclusione, rispetto all’irruzione nel mondo globalizzato di un’alterità all’apparenza irriducibile. Riusciamo a far fronte a questo altro, a «ospitarlo» nel nostro modo di pensare? E a che prezzo? Ecco delle domande di ordine generale che ricaviamo dall’analisi dei fatti, e che mettono sotto scacco sia ogni logica oppositiva del genere amico vs nemico, sia anche ogni logica inclusiva del tipo «siamo tutti dentro». Queste domande rimettono necessariamente in movimento il pensiero, anche contro se stesso. Un pensiero, il nostro, che sempre meno può chiamarsi fuori in uno spazio a parte, dal sapore pur sempre accademico. Questo pensiero, di cui abbiamo bisogno, non potrà che essere «politico», se non altro perché dovrà prendere in carico le questioni della vita e della morte da cui tutte le pratiche sono ormai attraversate.

Gli «strumenti» di Derrida

Nel recente passato, si è detto «impegno», «situazione», «presa di partito», ora si tratta di «responsabilità», cioè di rispondere a, o semplicemente di corrispondere alla complessità dello scenario, svestendoci di ogni presupposto metafisico e tentando un ascolto impregiudicato delle cose che accadono e in cui accadiamo noi stessi. Il «rigore» di questo ascolto è un’incognita per i nostri abituali modi di pensare e non si sovrappone affatto con ciò che di solito chiamiamo rigore.

Mentre scrivo queste righe, ripenso alla morte di Jacques Derrida. Con il suo lavoro filosofico ho avuto negli ultimi anni un’intesa particolare, e soprattutto con le sue riflessioni più recenti – per tutte ricordo quelle sull’ospitalità e sul dono. Derrida ci ha dato una grande quantità di strumenti per orientarci nel nostro scabroso scenario. Non sono importanti, secondo me, la sua insensibilità verso l’ermeneutica o il suo disinteresse nei confronti del pensiero debole. La cosa che davvero conta, e che ne fa un alleato importante per quel compito cui accennavo prima, è che Derrida ha rappresentato, in modo sempre più riconoscibile ed efficace, un pensiero politico che ruota attorno alla responsabilità e che adopera strumenti la cui sperimentalità corrisponde a un’originale e produttiva pratica anti-metafisica. Alleandosi con Derrida qualunque pratica indebolente del pensiero guadagna un prezioso tratto decostruttivo con cui si possono trivellare le metafisiche e scoprire la trama di paradossi in cui siamo e che abbiamo il compito di portare dalla nostra parte.

Indico solo uno degli utensili che possiamo prendere dalla sua cassetta: la stretta parentela, e, potremmo perfino dire, la quasi identificazione tra «evento» e «alterità». Non solo non c’è evento senza alterità, ma ogni evento, ogni volta che arriva o ci arriva qualcosa, non appartiene al nostro «proprio», non è assimilabile né può diventare una nostra proprietà. Credo che la capacità di decostruire il «proprio» nella nostra descrizione dell’evento, e quindi la capacità paradossale di «stare» nell’evento, accettandone il rischio e l’incertezza, sia precisamente quell’indebolimento di cui abbiamo urgenza per allestire una nuova idea di responsabilità e per rendere accessibile un orizzonte «a venire».

Poiché la descrizione che cerchiamo mira al futuro, in una situazione in cui l’idea normale di futuro (sempre pilotata da una qualche filosofia della storia) sembra essere implosa in se stessa, il compito di un pensiero debole, quello che forse li riassume tutti, è di produrre condizioni di pensabilità per un movimento in avanti in cui la parola «futuro» possa riacquistare una leggibilità e un senso, non aggiunti alle cose che accadono ma fungenti negli eventi che appunto viviamo. Già nel 1983, Vattimo parlava di un potenziale emancipatorio del pensiero debole: non è un punto tra gli altri, bensì il luogo in cui le analisi sulla realtà provano la loro capacità insieme filosofica e politica. È un luogo – bisogna confessarlo – in cui ci aggiriamo ancora a tentoni, sempre poi che riusciamo a riconoscerlo. È una questione che domanda il massimo di impegno filosofico, se non altro per affrancarla da nichilismi e mitologemi ormai parimenti da buttare.

 

 

 

 

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