L’articolo
che segue è tratto dal libro
Il bello del relativismo.
Quel che resta della filosofia nel XXI secolo
(Marsilio – I libri di Reset, 2005, euro 10,00),
curato da Elisabetta Ambrosi, con scritti di Butler,
D’Agostini, De Monticelli, Di Nuoscio, Ferrara,
Ferrarsi, Nussbaum, Petrucciani, Salvatore, Rorty, Rovatti,
Vattimo, Veca.
Forse non è un caso che Il pensiero debole,
inteso come libro uscito nel 1983, non prenda in considerazione
le analisi che François Lyotard aveva poco prima
proposto in La condizione postmoderna. L’ho
osservato ripercorrendo quel periodo, per tentare di
farlo conoscere in modo non schematico a chi oggi ha
vent’anni, giusto l’età del pensiero
debole. La mia lettura di questa dimenticanza è
che le analisi di Lyotard, che riprendevano una parola
già usata in architettura e altrove, per quanto
intendessero dotare il cosiddetto post-moderno di un
tratto filosofico unitario – riconoscibile nella
pluralizzazione dei «racconti», e forse
nell’idea stessa di racconto – erano solo
un timido inizio che chiedeva, per stare in piedi, una
più significativa articolazione di pensiero.
Era come se Gianni Vattimo e io dessimo per scontato
questo inizio, non sottovalutando il rischio che lo
slogan, per la sua popolarità, arenasse il discorso
in spazi troppo semplificati.
Bisognava spostare indietro il luogo dell’analisi
e fare così i conti con Nietzsche e Heidegger
in quest’ordine di implicazione filosofica; occorreva
lavorare la questione della verità legandola
strettamente alla questione del potere (e per questo
era assai più importante richiamarsi a Michel
Foucault); ma occorreva anche riaprire l’interrogazione
sul soggetto coniugandolo con l’altro e l’alterità;
bisognava, infine, mostrare che un pensiero debole virava
verso le pratiche, debordando al di qua di ogni verità
oggettiva teoreticamente bloccata. Occorrevano inoltre,
come poi si è visto, tante altre articolazioni,
non ultima quella connessa con il linguaggio inteso
come «scrittura».
Direi comunque che, a vent’anni suonati, non
solo il pensiero debole gode di buona salute (il libro
omonimo si continua a leggere, e soprattutto il tema
si è diffuso e anche radicato in una quantità
di saperi e pratiche), ma che adesso è chiaro
a molti il compito analitico che voleva promuovere:
un compito di rilettura della società attuale
e della tradizione di pensiero da cui proveniamo. Compito
che diventa sempre più urgente e complesso nello
scenario multiculturale e conseguentemente conflittuale
in cui stiamo tutti vivendo. Parlerei dunque di pensiero
debole, e di questo compito, piuttosto che di post-modernità.
E mi chiederei: abbiamo strumenti teorici adeguati per
essere all’altezza problematica di questo scenario?
Pensiero debole, pensiero politico
Ho la precisa sensazione, nel pormi questa domanda,
che lo stigma del relativismo e il conseguente elogio
di un pensiero del fondamento, con relative polemiche,
ci facciano più che altro girare a vuoto e ci
spostino all’indietro, in una scena già
molto usata, come se nulla fosse accaduto in filosofia
e nel pensiero in generale durante gli ultimi due decenni.
Credere che oggi si giochi una guerra tra fondamenti
e dunque tra forze, per dir così, allo stato
puro, blocca con tutta evidenza la possibilità
di comprendere le cose. Le battaglie per il realismo
o per le ontologie oggettive sono chiaramente indizi
di un grande disagio e anche di un certo smarrimento.
Basta un minimo di criticità debole per rendersi
conto che sono battaglie reattive, quando non vere e
proprie difese di posizioni acquisite e ora minacciate
da una società caratterizzata dall’incertezza
(come direbbe Robert Castel). Basterebbe solo uno sguardo
al mondo universitario, per indicare un microcosmo ben
congeniale agli stessi operatori del pensiero. O al
mondo del lavoro, il macrocosmo in cui tutti navighiamo
a vista.
Il pensiero debole chiede innanzitutto una descrizione
della realtà in termini di potere e di effetti
autoritari della ragione (oltre Marx, per intenderci
ma non contro Marx). Proprio perché sceglie questo
terreno e tenta di non abbandonarlo – in quanto
componente decisiva e irrinunciabile della sua argomentazione
– il pensiero debole sembra in grado di costruire
alleanze filosofiche (con il pensiero di Foucault, come
ho ricordato, ma anche con quello di Derrida, come dirò
tra un momento) e di individuare con una certa precisione
il fronte dei cosiddetti avversari, insomma tutte quelle
posizioni che remano verso nicchie autoritarie legittimandosi,
non raramente, con dichiarazioni a sinistra. Risvolti
autoritari che possono riguardare tutti, debolisti compresi,
e che richiedono continui supplementi di autocritica
o ulteriori indebolimenti, cioè una sempre maggiore
sorveglianza sugli strumenti adoperati, un loro incessante
«sfondamento».
Un esempio: la «scabrosità» (per
usare un termine di Slavoj Zizek) della nozione abituale
di soggetto, che non possiamo abbandonare ma che non
possiamo neppure utilizzare, qualunque analisi della
società facciamo, senza caricarla di elementi
paradossali e senza sottoporla a un continuo riesame
critico. O la nozione di «gioco», che io
trovo assai produttiva come strumento di analisi e che
può essere utilmente riferita all’idea
stessa di soggetto, ma che rischia di irrigidirsi ogni
volta che pretendiamo di servircene senza la consapevolezza
di esserne sempre, in qualche modo, giocati.
Lo scenario cui alludevo, al quale possiamo anche dare
il nome di «globalizzazione», esige strumenti
di osservazione e descrizione adeguati, che si tratta
in larga misura di costruire. Ci servono poco o nulla
le scaramucce metafisiche con la loro promessa di tagliar
corto. Questa «costruzione» di pensiero,
oggi più che mai necessaria, viene solo ritardata
da conclusioni, per dir così, di principio, che
vorrebbero fare rapidamente ordine dandoci la formula.
Rischiamo di restare impantanati nelle ideologie filosofiche,
mentre si tratterebbe di descrivere proprio la «realtà»:
essa si lascia prendere solo avvicinandosi alle pratiche
e facendo nascere da lì nuove domande teoriche.
Qualcosa è cambiato in filosofia dopo l’11
settembre? Molti, senza alcun bisogno dell’etichetta
di un pensiero debole, hanno percepito che si poneva
– per esempio – la questione di sapere in
che modo si potessero e dovessero manovrare, dopo quell’«evento»,
le nozioni di «dentro» e di «fuori»,
oppure, se si preferisce, di inclusione e di esclusione,
rispetto all’irruzione nel mondo globalizzato
di un’alterità all’apparenza irriducibile.
Riusciamo a far fronte a questo altro, a «ospitarlo»
nel nostro modo di pensare? E a che prezzo? Ecco delle
domande di ordine generale che ricaviamo dall’analisi
dei fatti, e che mettono sotto scacco sia ogni logica
oppositiva del genere amico vs nemico, sia anche ogni
logica inclusiva del tipo «siamo tutti dentro».
Queste domande rimettono necessariamente in movimento
il pensiero, anche contro se stesso. Un pensiero, il
nostro, che sempre meno può chiamarsi fuori in
uno spazio a parte, dal sapore pur sempre accademico.
Questo pensiero, di cui abbiamo bisogno, non potrà
che essere «politico», se non altro perché
dovrà prendere in carico le questioni della vita
e della morte da cui tutte le pratiche sono ormai attraversate.
Gli «strumenti» di Derrida
Nel recente passato, si è detto «impegno»,
«situazione», «presa di partito»,
ora si tratta di «responsabilità»,
cioè di rispondere a, o semplicemente di corrispondere
alla complessità dello scenario, svestendoci
di ogni presupposto metafisico e tentando un ascolto
impregiudicato delle cose che accadono e in cui accadiamo
noi stessi. Il «rigore» di questo ascolto
è un’incognita per i nostri abituali modi
di pensare e non si sovrappone affatto con ciò
che di solito chiamiamo rigore.
Mentre scrivo queste righe, ripenso alla morte di Jacques
Derrida. Con il suo lavoro filosofico ho avuto negli
ultimi anni un’intesa particolare, e soprattutto
con le sue riflessioni più recenti – per
tutte ricordo quelle sull’ospitalità e
sul dono. Derrida ci ha dato una grande quantità
di strumenti per orientarci nel nostro scabroso scenario.
Non sono importanti, secondo me, la sua insensibilità
verso l’ermeneutica o il suo disinteresse nei
confronti del pensiero debole. La cosa che davvero conta,
e che ne fa un alleato importante per quel compito cui
accennavo prima, è che Derrida ha rappresentato,
in modo sempre più riconoscibile ed efficace,
un pensiero politico che ruota attorno alla responsabilità
e che adopera strumenti la cui sperimentalità
corrisponde a un’originale e produttiva pratica
anti-metafisica. Alleandosi con Derrida qualunque pratica
indebolente del pensiero guadagna un prezioso tratto
decostruttivo con cui si possono trivellare le metafisiche
e scoprire la trama di paradossi in cui siamo e che
abbiamo il compito di portare dalla nostra parte.
Indico solo uno degli utensili che possiamo prendere
dalla sua cassetta: la stretta parentela, e, potremmo
perfino dire, la quasi identificazione tra «evento»
e «alterità». Non solo non c’è
evento senza alterità, ma ogni evento, ogni volta
che arriva o ci arriva qualcosa, non appartiene al nostro
«proprio», non è assimilabile né
può diventare una nostra proprietà. Credo
che la capacità di decostruire il «proprio»
nella nostra descrizione dell’evento, e quindi
la capacità paradossale di «stare»
nell’evento, accettandone il rischio e l’incertezza,
sia precisamente quell’indebolimento di cui abbiamo
urgenza per allestire una nuova idea di responsabilità
e per rendere accessibile un orizzonte «a venire».
Poiché la descrizione che cerchiamo mira al
futuro, in una situazione in cui l’idea normale
di futuro (sempre pilotata da una qualche filosofia
della storia) sembra essere implosa in se stessa, il
compito di un pensiero debole, quello che forse li riassume
tutti, è di produrre condizioni di pensabilità
per un movimento in avanti in cui la parola «futuro»
possa riacquistare una leggibilità e un senso,
non aggiunti alle cose che accadono ma fungenti negli
eventi che appunto viviamo. Già nel 1983, Vattimo
parlava di un potenziale emancipatorio del pensiero
debole: non è un punto tra gli altri, bensì
il luogo in cui le analisi sulla realtà provano
la loro capacità insieme filosofica e politica.
È un luogo – bisogna confessarlo –
in cui ci aggiriamo ancora a tentoni, sempre poi che
riusciamo a riconoscerlo. È una questione che
domanda il massimo di impegno filosofico, se non altro
per affrancarla da nichilismi e mitologemi ormai parimenti
da buttare.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|