290 - 12.12.05


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Ecco il quinto
cavaliere dell’Apocalisse

Henning Mankell
con Paola Casella



Henning Mankell ha due personalità: una come scrittore di crime story che hanno fatto il giro del mondo, rendendo celebre a livello internazionale il personaggio del commissario Wallander; l'altra come autore di romanzi di ambientazione africana (Comédia Infantil e Il figlio del vento, entrambi pubblicati in Italia da Marsilio), che raccontano le difficoltà di un continente travagliato ma anche il grande amore che questo svedese tutto d'un pezzo nutre per la terra che ha scelto come seconda patria (dividendosi a metà fra Svezia e Mozambico).
Mankell è arrivato in Italia a presentare il suo terzo libro ispirato all'Africa, Io muoio ma il mio ricordo vive (sempre Marsilio), dove racconta in prima persona la piaga dell'Aids nel Continente Nero e la spaventosa indifferenza che tale piaga suscita nel mondo Occidentale. Mankell lascia anche che a raccontare questo dramma sia una madre colpita dall'Aids, che in uno dei cosiddetti "libri della memoria" parla di se stessa alla figlia così che le rimanga qualche ricordo quando lei non ci sarà più. Io muoio ma il mio ricordo vive è asciutto ed essenziale – ma anche profondamente commovente – come Mankell, e come la tragedia umana che testimonia.

Come spiega questa sua doppia personalità di autore di detective story e narratore di storie africane?

In verità di identità ne ho almeno tre: quelle che ha citato più quella di sceneggiatore per il teatro e per il cinema. E tutte e tre mi aiutano a vivere e a creare. Le alterno continuamente, perché la mia testa è come un campo che non può produrre sempre lo stesso raccolto, deve cambiare in modo che il terreno torni ogni volta fertile.

Ma come decide che una storia sarà un giallo, un romanzo o una sceneggiatura?


È la storia stessa a deciderlo, io devo solo darle ascolto. Le storie si presentano già per quello che sono, e a me è capitato di rado di non riconoscere il formato al quale appartengono, di dire a me stesso: no, questo non è un romanzo, questo è un testo teatrale. Quando è successo, ho semplicemente dato retta a quello che la storia mi diceva.

Come è avvenuto il suo incontro con l'Africa?

Da giovane tutto quello che sapevo sull'Africa l'avevo letto nei libri. A 19 anni però venni preso dal desiderio, tipico di quell'età, di viaggiare fino all'altro capo del mondo, e siccome vivevo in Svezia, l'altro capo del mondo per me era il continente africano. Arrivai in Guinea Bissau, che a quel tempo era ancora una colonia portoghese, col desiderio di uscire dall'egocentrismo europeo e guadagnare una prospettiva diversa sul mondo. Dalla Guinea mi sono spostato in Zambia, poi sono stato invitato a occuparmi del primo teatro nazionale in Mozambico. E lì è intervenuto il destino, perché l'aereo che doveva riportarmi in Svezia non partiva mai, continuava a posticipare la data, e io ho continuato a rimanere in Africa. Alla fine sono là da più di vent'anni.

In Io muoio ma il mio ricordo vive lei fa capire che il rifiuto di occuparsi seriamente del problema dell'Aids ha molto a che vedere col rifiuto di affrontare l'idea della morte in generale.

Tutti, con la possibile eccezione delle persone molto religiose, abbiamo paura della morte, è un timore universale. Ma mentre in Africa la morte è un fatto della vita, vicino e naturale, che non può essere nascosto, in Occidente viene occultata, segregata negli ospedali: i giovani ad esempio la vedono solo alla televisione. E questo ha fatto crescere in noi la paura. Io che, vivendo in Africa, mi trovo davanti alla morte tutti i giorni, paradossalmente ne sono meno spaventato, anche perché osservo la grande dignità che gli africani mostrano nell'accettarla.
La gravità sta anche nel fatto che nel mondo occidentale con l'Aids si può convivere, perché le medicine sono disponibili e a prezzi ragionevoli rispetto ai guadagni della gente, mentre in Africa è una condanna a morte certa. Il che significa che vivere o morire della stessa malattia dipende da dove uno è nato. Parliamo di un Noi e di un Loro, che è come dire che separiamo la vita, riservata a noi, dalla morte, relegata a loro. Senza capire che la diffusione rapida dell'Aids ci riguarda tutti.

Oltre che una tragedia, l'Aids è anche una metafora?

Certamente, è il quinto cavaliere dell'Apocalisse, un simbolo del fatto che la natura è ancora più forte di noi e della presunzione umana. Abbiamo mandato l'uomo sulla luna ma non sappiamo fermare un microscopico virus: non è umiliante? L'unica nostra arma è la solidarietà, e la capacità di assumerci la responsabilità di trovare una cura. Kofi Annan l'ha detto benissimo: "Trovo strano che di fronte alla minaccia del terrorismo tiriamo fuori 'risorse illimitate' e non riusciamo a fare lo stesso davanti a un virus privo di un'agenda politica".

 

 

 

 

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