Henning Mankell
ha due personalità: una come scrittore di crime
story che hanno fatto il giro del mondo, rendendo celebre
a livello internazionale il personaggio del commissario
Wallander; l'altra come autore di romanzi di ambientazione
africana (Comédia Infantil e Il
figlio del vento, entrambi pubblicati in Italia
da Marsilio), che raccontano le difficoltà di
un continente travagliato ma anche il grande amore che
questo svedese tutto d'un pezzo nutre per la terra che
ha scelto come seconda patria (dividendosi a metà
fra Svezia e Mozambico).
Mankell è arrivato in Italia a presentare il
suo terzo libro ispirato all'Africa, Io muoio ma
il mio ricordo vive (sempre Marsilio), dove racconta
in prima persona la piaga dell'Aids nel Continente Nero
e la spaventosa indifferenza che tale piaga suscita
nel mondo Occidentale. Mankell lascia anche che a raccontare
questo dramma sia una madre colpita dall'Aids, che in
uno dei cosiddetti "libri della memoria" parla
di se stessa alla figlia così che le rimanga
qualche ricordo quando lei non ci sarà più.
Io muoio ma il mio ricordo vive è asciutto
ed essenziale – ma anche profondamente commovente
– come Mankell, e come la tragedia umana che testimonia.
Come spiega questa sua doppia personalità
di autore di detective story e narratore di storie africane?
In verità di identità ne ho almeno tre:
quelle che ha citato più quella di sceneggiatore
per il teatro e per il cinema. E tutte e tre mi aiutano
a vivere e a creare. Le alterno continuamente, perché
la mia testa è come un campo che non può
produrre sempre lo stesso raccolto, deve cambiare in
modo che il terreno torni ogni volta fertile.
Ma come decide che una storia sarà un giallo,
un romanzo o una sceneggiatura?
È la storia stessa a deciderlo, io devo solo
darle ascolto. Le storie si presentano già per
quello che sono, e a me è capitato di rado di
non riconoscere il formato al quale appartengono, di
dire a me stesso: no, questo non è un romanzo,
questo è un testo teatrale. Quando è successo,
ho semplicemente dato retta a quello che la storia mi
diceva.
Come è avvenuto il suo incontro con
l'Africa?
Da giovane tutto quello che sapevo sull'Africa l'avevo
letto nei libri. A 19 anni però venni preso dal
desiderio, tipico di quell'età, di viaggiare
fino all'altro capo del mondo, e siccome vivevo in Svezia,
l'altro capo del mondo per me era il continente africano.
Arrivai in Guinea Bissau, che a quel tempo era ancora
una colonia portoghese, col desiderio di uscire dall'egocentrismo
europeo e guadagnare una prospettiva diversa sul mondo.
Dalla Guinea mi sono spostato in Zambia, poi sono stato
invitato a occuparmi del primo teatro nazionale in Mozambico.
E lì è intervenuto il destino, perché
l'aereo che doveva riportarmi in Svezia non partiva
mai, continuava a posticipare la data, e io ho continuato
a rimanere in Africa. Alla fine sono là da più
di vent'anni.
In Io muoio ma il mio ricordo vive
lei fa capire che il rifiuto di occuparsi seriamente
del problema dell'Aids ha molto a che vedere col rifiuto
di affrontare l'idea della morte in generale.
Tutti, con la possibile eccezione delle persone molto
religiose, abbiamo paura della morte, è un timore
universale. Ma mentre in Africa la morte è un
fatto della vita, vicino e naturale, che non può
essere nascosto, in Occidente viene occultata, segregata
negli ospedali: i giovani ad esempio la vedono solo
alla televisione. E questo ha fatto crescere in noi
la paura. Io che, vivendo in Africa, mi trovo davanti
alla morte tutti i giorni, paradossalmente ne sono meno
spaventato, anche perché osservo la grande dignità
che gli africani mostrano nell'accettarla.
La gravità sta anche nel fatto che nel mondo
occidentale con l'Aids si può convivere, perché
le medicine sono disponibili e a prezzi ragionevoli
rispetto ai guadagni della gente, mentre in Africa è
una condanna a morte certa. Il che significa che vivere
o morire della stessa malattia dipende da dove uno è
nato. Parliamo di un Noi e di un Loro, che è
come dire che separiamo la vita, riservata a noi, dalla
morte, relegata a loro. Senza capire che la diffusione
rapida dell'Aids ci riguarda tutti.
Oltre che una tragedia, l'Aids è anche
una metafora?
Certamente, è il quinto cavaliere dell'Apocalisse,
un simbolo del fatto che la natura è ancora più
forte di noi e della presunzione umana. Abbiamo mandato
l'uomo sulla luna ma non sappiamo fermare un microscopico
virus: non è umiliante? L'unica nostra arma è
la solidarietà, e la capacità di assumerci
la responsabilità di trovare una cura. Kofi Annan
l'ha detto benissimo: "Trovo strano che di fronte
alla minaccia del terrorismo tiriamo fuori 'risorse
illimitate' e non riusciamo a fare lo stesso davanti
a un virus privo di un'agenda politica".
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