290 - 12.12.05


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Tutti i rischi
del postmoderno

Maurizio Ferraris



L’articolo che segue è tratto dal libro
Il bello del relativismo.
Quel che resta della filosofia nel XXI secolo

(Marsilio – I libri di Reset, 2005, euro 10,00),
curato da Elisabetta Ambrosi, con scritti di Butler, D’Agostini, De Monticelli, Di Nuoscio, Ferrara, Ferrarsi, Nussbaum, Petrucciani, Salvatore, Rorty, Rovatti, Vattimo, Veca.

Una barzelletta che circola tra ecclesiastici narra che un giorno vengono ritrovati i resti di Cristo. Imbarazzo, poi si studiano le contromisure. I Francescani propongono di adoperarli per cavarne reliquie da vendersi nei giorni di festa; i Domenicani suggeriscono nuove ermeneutiche della scrittura volte a far quadrare i conti; e i Gesuiti, stupefatti, esclamano «ma allora esisteva davvero!». I tre ordini manifestano i tre ingredienti fondamentali del post-moderno: la Secolarizzazione (i Francescani), l’Ermeneutica (i Domenicani), il Nichilismo (i Gesuiti).

Il sincero disappunto di Gianni Vattimo, alcuni anni or sono, quando il Papa ricevette D’Alema e Benigni e non lui, era dimostrazione di genuino e motivato stupore, così come sorprendenti, in ultima analisi, risultano i ricorrenti attacchi di dotti monsignori nei confronti di Eco e di Vattimo e del loro nichilismo post-moderno, del ridurre i fatti a interpretazioni, del vedere nel mondo nulla più che un testo e un intrico di segni. Magari i monsignori non sono aggiornatissimi, perché in effetti, almeno da Kant e l’ornitorinco (1997), ma già con I limiti dell’interpretazione (1992), Eco aveva volto le spalle alla infinità delle interpretazioni che era già caratteristica del maestro suo e di Vattimo, Luigi Pareyson (Verità e interpretazione, 1971), per orientarsi verso un realismo sempre più netto. Ma il punto resta: quella tra i monsignori e i postmoderni è una guerra fratricida. I primi potrebbero dire dei secondi, come Carlo V di Francesco I, «Io e mio cugino vogliamo la stessa cosa», cioè il Ducato di Milano.

Se ne era già accorto, sin dal lontano 1985, Carlo Augusto Viano in Va’ pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea. Ma vale la pena di notare che l’ecumene postmoderna è, in larghissima parte, una ecclesia spiritualista, anche fuori d’Italia, tra Deleuze che non ha mai fatto mistero del proprio bergsonismo e Gadamer cultore delle scienze dello spirito (di passaggio, uno dei motivi più forti per non includere Derrida nella schiera dei postmoderni è il suo attacco allo spiritualismo heideggeriano in Dello spirito, 1987). Il caso indubbiamente più interessante, da cui prende avvio il dibattito avviato da «Reset», è tuttavia quello di Rorty, un tranquillo liberal schiettamente nichilista che, nel momento in cui afferma di leggere e seguire in privato Derrida (che interpreta riduttivamente come un funambolo della filosofia), e in pubblico Habermas, fornisce una versione aggiornata della teoria della doppia verità, che è stata sistematicamente il pezzo forte dello spiritualismo (se si sta male si va dal medico e non dallo sciamano, ma resta che si può pilotare un jet e credere nella immacolata concezione).

Questo mi sembra il punto più importante, ed è comunque quello che conto di svolgere: il post-moderno ha un cuore antico, la rivolta dello spirito contro la scienza e la tecnica, lo scetticismo nei confronti delle conquiste della ragione autonoma, della «boria delle nazioni», come diceva Vico non a torto incluso tra i grandi vecchi del movimento. E, in questo quadro, Rorty è l’Averroè del postmodernismo, perché sostiene che spiritualità privata e filosofia pubblica hanno funzioni e destinatari differenti. Vattimo invece ne è il San Bonaventura, riassumendo anche l’orizzonte pubblico e razionale all’interno del suo discorso di fede, in ultima analisi una religione privata, visto che credere di credere vuol dire credere, credere e credere. Ed è per questo che mi riferirò principalmente a loro in questo discorso, che vuole illustrare la dialettica del post-moderno in tre fasi: fase I: il Relativismo; fase II, lo Stallo; fase III, la Resurrezione. Seguirà un finale non troppo a sorpresa.

Il Relativismo

Incominciamo dal Post-moderno fase I. Si deve in primo luogo svolgere un grande discorso relativista, quello che Lyotard, in La condizione postmoderna (1979) chiamava «fine dei grandi discorsi», Illuminismo, Idealismo, Marxismo, che avevano caratterizzato la modernità. Un discorso del genere, ovviamente, era un gran discorso a sua volta, come Lyotard ebbe il merito di riconoscere autocriticamente sin dal Dissidio, che è del 1983, ma all’inizio non ci si fece troppo caso.
I suoi ingredienti sono più o meno i seguenti. In primo luogo, è caduta la speranza in uno sviluppo progressivo della storia che aveva alimentato la modernità (la famosa questione della «fine della storia», di cui aveva parlato Kojève negli anni Trenta, poi riattualizzata da Fukuyama dopo la caduta del Muro di Berlino del 1989). Gli stessi valori non sono più quelli di una volta, Dio è morto, l’uomo rotola via verso la x (come spiegava Nietzsche discorrendo del nichilismo europeo). La scienza stessa, garante della moderna oggettività, viene considerata dai postmoderni come la sola via per pervenire a qualcosa di reale; nel momento tuttavia in cui si scopre che le pratiche scientifiche sono determinate da paradigmi storicamente condizionati, allora anche l’oggettività va a farsi benedire.

La migliore espressione di questa impostazione è probabilmente quella offerta da Rorty in La filosofia e lo specchio della natura, uscito nel 1979, cioè nello stesso anno del libro di Lyotard. L’assunto di fondo di Rorty era il seguente: la funzione classica della filosofia come conoscenza del mondo è venuta meno, al filosofo ormai non importa l’oggettività: il suo scopo, piuttosto, è quello di promuovere la solidarietà sociale. In questo progetto, Rorty si impegnava in una sintesi fra la tradizione pragmatista americana e la filosofia di Heidegger, volte in entrambi i casi a smarcare la filosofia dal rapporto con la conoscenza, e a mettere in crisi l’idea stessa di una «conoscenza disinteressata». Il cerchio sembrava chiudersi, anche perché quello che si compiva aveva tutte le apparenze di un destino preparato da una tendenza maggioritaria della filosofia otto e novecentesca (grosso modo, quella che si riconosceva nella tradizione di Heidegger e nei suoi antefatti nel pensiero di Nietzsche), e realizzato in ampie comunità filosofiche. Se infatti il caso di Rorty poteva apparire come una eccezione –l’eresia di un transfuga dalla filosofia analitica - il tono dominante della filosofia sul Continente europeo sembrava concordemente muovere nella direzione del post-moderno.

Lo Stallo

Veniamo al post-moderno fase II. Siamo allo stallo, in cui il postmodernista si presenta come uno scettico perfetto. La ragione è una fonte di dominio, come aveva detto Nietzsche e come ripeterà Foucault. Da una parte, è in affanno, per via della crisi delle scienze (e questo, per restare all’Italia, è La crisi della ragione, 1979). Dall’altra, la condizione critica non è nemmeno un male, perché permette di indebolire quella perversa struttura di dominio che è per l’appunto la razionalità scientifica e metafisica (e questo, sempre per restare all’Italia, è Il pensiero debole, 1983). Parlare en philosophe, si spiega a questo punto, significa, come suggerisce Rorty, fare il «teorista ironico», ossia, detto alla buona, non credere sino in fondo a quello che si dice.
In che senso uno può non credere sino in fondo a quello che dice? A Rorty va indubbiamente il merito di cogliere il punto e di spiegare come avviene. Ci sono, spiegava in Conseguenze del pragmatismo (siamo nel lontano 1983), due tipi di filosofi, i kantiani, che amano costruire, e gli hegeliani, che viceversa si impegnano a smontare (a decostruire) il lavoro dei kantiani, più o meno nello stesso senso in cui Thomas Kuhn, in La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), parlava di scienziati normali, che lavorano all’interno di un paradigma già dato, e di scienziati rivoluzionari, che invece si impegnano nella trasformazione dei paradigmi, per esempio quando si passa dal geocentrismo all’eliocentrismo.
Il paragone funziona più o meno, e più meno che più, giacché gli scienziati rivoluzionari preludono alla costituzione di un nuovo standard per il sapere. Mentre i filosofi hegeliano-decostruttivi sono, per ammissione esplicita di Rorty, dei benevoli parassiti, dei pidocchi nella rigogliosa chioma del sapere. Ossia, a guardare la cosa da un altro punto di vista, meno negativo, propongono una conoscenza di secondo livello: c’è uno standard fatto di conoscenze salde e magari un po’ ingenue, e i decostruttori lo smontano, lo relativizzano, ne rivelano la natura storicamente e ideologicamente condizionata. Il che, a rigore, è una attività perfettamente legittima, tranne che - per restare a un caso del tutto ovvio ma cruciale - se un professore fa il decostruttore deve avere degli studenti già formati, che le cose le sappiano, altrimenti è soltanto un cattivo maestro (le contraddizioni di questa situazione sono magnificamente illustrare dai romanzi di David Lodge, eccellente fotografia degli esiti del postmodernismo accademico).
Questo è grave per la didattica, ma lo è anche per la ricerca. Perché alla fine il decostruttore resta in tutto e per tutto uno storico della filosofia, che racconta aneddoti, anche un po’ malevoli, sui propri predecessori. Ossia, facciamoci caso, si preclude a priori (per via della miscela infernale di relativismo, nichilismo, antifondazionalismo ecc. ecc.) la possibilità di essere un filosofo originale ed inventivo. Ed è così che, cambiando un poco Urlo (1956) di Allen Ginsberg, potrei dire che «Ho visto le menti migliori della generazione che mi ha preceduto distrutte dalla pazzia», le ho viste rovinarsi, dilapidando tanto ingegno in considerazioni che sono prevalentemente storiografiche.

La Resurrezione

Eccoci al post-moderno fase III, cioè alla conclusione della nostra dialettica. Annunciata questa volta non da Ginsberg, ma dalla sua versione più domestica e speranzosa offerta dai Nomadi e da Francesco Guccini un dieci anni dopo: «se Dio muore è per tre giorni e poi risorge».
Il motivo della resurrezione è fin banale. La decostruzione e l’indebolimento non possono durare per sempre. Come nel Diavolo della bottiglia di Stevenson, non si può procedere suddividendo un capitale all’infinito. C’è il momento in cui la bottiglia infernale, comprata per una fortuna col patto che per liberarsene (e per non vendere l’anima al diavolo) bisognava darla via alla metà del prezzo a cui la si era acquistata, risulta invendibile appunto perché prima o poi si arriva a una moneta talmente piccola da non poter essere suddivisa. E l’ultimo resta con il cerino acceso, e con la bottiglia in mano, e con l’anima venduta al diavolo. Fuori di metafore sataniche, una volta che si è detto che tutto, ma proprio tutto, compresa la luna e le stelle, è relativo, frutto di volontà di potenza, che la ragione è violenta e la filosofia nel migliore dei casi futile, allora il filosofo postmodernista non sa proprio più cosa fare o, per restare in tema, non sa a che santo votarsi.
Come diceva tuttavia Manzoni? «Ma provvida venne una man dal cielo». Dopo lo stallo, il post-moderno si rivolge verso lo spiritualismo, riscoprendo il cristianesimo (specie in Italia), o il comunitarismo (gli americani e Nancy, sempre biasimato su questo punto da Derrida, che pure è suo maestro e amico), Bergson, lo spirito che galleggia sulle acque. Anche qui, il libro curato da Vattimo e Derrida nel 1995 sulla religione (dove però, vale la pena di sottolinearlo, Vattimo è pro, mentre Derrida è nettamente contro) segna la svolta e il passaggio alla terza fase.
Permettetemi un ricordo di giovinezza. Nel settembre 1979, una amica mi portò da Parigi La condizione postmoderna, fresca di stampa. La lessi e poi la diedi a Vattimo, che per un po’ rimase perplesso: sed quid est hoc? Poi incominciò a elaborare, con l’inventiva e il talento che lo caratterizzano: in fondo, Nietzsche+Heidegger, e l’urbanizzazione di quella tradizione proposta da Gadamer, potevano ben fornire la via italiana al post-moderno, non radicale e giacobina come quella dei francesi perché in questo caso c’era la risorsa della Tradizione, una specie di acqua pesante o di baricentro che stabilizzava l’eccessivo relativismo e lo predisponeva verso un esito religioso a medio termine. E in capo a pochi anni il mio maestro tornò (anche con una bella elaborazione della nozione di «ritorno») alla religione degli avi, all’ave Maria e allo Spirito Santo.
Come dargli torto, d’altra parte, se, nella sua prospettiva, tutto (la ragione, la storia, e soprattutto la natura) è vanità e violenza? L’unico distinguo è che, come suona il titolo del suo libro del 1996, non si tratta di credere, come si faceva una volta, bensì di Credere di credere, che conserva - ma solo nella forma - un poco di scetticismo; come dire, con il bellissimo titolo dell’autobiografia di Simone Signoret, che La nostalgia non è più quella di un tempo.

Felix Krüll

È a questo punto che i monsignori si incazzano e denunciano lo scippo: questa è roba nostra. A parte che poi i monsignori spesso flirtano con il post-moderno, a colpi di Heidegger e Lévinas. Persino il coriaceo Ratzinger, pochi anni orsono, aveva sostenuto che l’eterno ritorno, dico l’eterno ritorno, può benissimo essere integrato nella dogmatica ecclesiale … chapeau: possiamo esser certi che se non fosse stato propugnato da un autore alla moda come Nietzsche, ma da quegli antichi e remoti pagani biasimati da Agostino, difficilmente si sarebbe spinto a tanto.
È a questo punto che, d’altra parte, venne un uomo, un uomo davvero post-moderno. Un uomo che seppe mescolare come meglio non si poteva l’appello spiritualistico con il relativismo più spinto, e con una sana volontà di potenza, senza tanti tremori e timori e cautele da anime belle. La speranza che non ci siano fatti ma solo interpretazioni era una delle sue più instancabili aspirazioni (e il 18 gennaio 2003, uscendo dal Palazzo di Giustizia di Milano dopo l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il suo ministro Castelli precisò che la giustizia deve «accettare la sfida della postmodernità»). E la stessa idea di un presidente operaio e imprenditore è – ammettiamolo - degna di un grande teorista ironico.
Che cosa unisce i monsignori e l’uomo del destino? Uno schietto disprezzo nei confronti della realtà. Lo stesso che coltivavano i postmoderni. I quali, nel frattempo, si sono trovati però spiazzati, cioè sono stati costretti ad ammettere che «emancipazione» non è necessariamente un corollario di «relativismo». E visto che diversamente dall’uomo del destino e dai monsignori i professori sono dei sinceri progressisti, un cambiamento di registro sembra necessario. Il post-moderno ci ha insegnato, o meglio ricordato, la tolleranza. Ma l’orientamento della migliore filosofia contemporanea verso il realismo mi sembra che insegni di più, e cioè che la tolleranza non basta, ci vuole la realtà, anche per i filosofi, e che la fuga nello spirito, come sempre avviene, è il ripiego di filosofi magari anche grandi (Plotino lo era), ma rassegnati a stare sotto il tacco di qualche grande potere imperiale. Insomma, ci sarà pure un momento in cui, alla faccia della postmoderna relatività del tutto, si smette di credere di credere, e si crede per davvero, cioè si pensa che ciò a cui si crede sia vero, ossia reale e fuori di noi. Come diceva Wittgenstein? «“Finora non ho mai creduto in Dio” – questo lo capisco. Ma non questo: 2Finora non ho mai creduto in lui veramente”».

Postilla 2005

Ho notato che taluni sostengono che il realismo ontologico è neoconservatore. Credo che con questo imputino al realismo un antirelativismo à la Ratzinger e attuino l’equazione «relativismo = progressismo». Ovviamente, entrambe le mosse sono sbagliate e poco interessanti, sintomo di una confusione mentale che si sarebbe tentati di definire «veterorivoluzionaria», tranne che la rivoluzione ha pur sempre una sua dignità, e allora tanto vale mettere le carte in tavola e dichiarare che quella confusione mentale è davvero post-moderna.

 


 

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