L’articolo che segue è tratto dal libro
Il bello del relativismo.
Quel che resta della filosofia nel XXI secolo
(Marsilio – I libri di Reset, 2005, euro 10,00),
curato da Elisabetta Ambrosi, con scritti di Butler,
D’Agostini, De Monticelli, Di Nuoscio, Ferrara,
Ferrarsi, Nussbaum, Petrucciani, Salvatore, Rorty, Rovatti,
Vattimo, Veca.
Nelle polemiche sul rapporto tra filosofie deboli e
terrorismo, il punto centrale è in maniera non
sorprendente, quello – antico – del rapporto
tra verità e interpretazione, riletto sullo sfondo
dei nuovi scenari mondiali. Le diverse posizioni sono
ormai note da tempo: da una parte, coloro che si inscrivono
nella tradizione post-moderna, o semplicemente ermeneutica,
rivendicano l’impossibilità di isolare
una realtà «esterna» e oggettiva,
valorialmente neutra, e nella difesa del carattere situato
e relativo di ogni verità trovano l’argomentazione
per criticare ogni forma di crociata culturale.
Dall’altra, i realisti, o forse sarebbe più
corretto dire gli «oggettivisti», o ancora
meglio, «naturalisti», se usiamo la celebre
immagine di Rorty della filosofia come specchio della
natura, si appellano ad una realtà che sarebbe
non solo indipendente dalle nostre interpretazioni ma
che anzi costituirebbe il criterio di verità
attraverso cui giudicare la correttezza e la bontà
di azioni individuali e collettive.
Di questa antica disputa, sulla quale molto, forse fin
troppo, si è già detto, esiste anzitutto
oggi una lettura tutta politica, contingente. Si tratta
di una battaglia strumentale, legata ad un preciso momento
della scena politica che ben poco ha a che fare con
le riflessioni filosofiche. Lo descrive efficacemente
Ingrid Salvatore in apertura del suo articolo: «È
da un po’ che circola la tesi secondo cui –
trovandoci di fronte a una sfida che mette in discussione
i fondamenti stessi del nostro stile di vita liberale
– non possiamo più permetterci alcun lusso
teorico. Che si ponga fine, dunque, alle incertezze
sulla Ragione, alla tolleranza di coloro che sono con
noi intolleranti, alle mollezze sul pluralismo, alla
proliferazione di identità che sfidano la compattezza
dei nostri valori: religiose, sessuali, estetiche. Non
ci possiamo più permettere questa decadenza».
Il sentimento di impasse che deriva da questo
tipo di argomentazione è ben spiegato da Rovatti
nell’intervento che pubblichiamo, in cui il filosofo
triestino denuncia come la stigmatizzazione del relativismo
e l’esaltazione di un pensiero del fondamento
«ci facciano più che altro girare a vuoto
e ci spostino all’indietro, in una scena già
molto usata, come se nulla fosse accaduto in filosofia
e nel pensiero in generale durante gli ultimi due decenni».
In realtà, prosegue Rovatti, «Credere che
oggi si giochi una guerra tra fondamenti e dunque tra
forze, per dir così, allo stato puro, blocca
con tutta evidenza la possibilità di comprendere
le cose. Le battaglie per il realismo o per le ontologie
oggettive sono chiaramente indizi di un grande disagio
e anche di un certo smarrimento. Basta un minimo di
criticità debole per rendersi conto che sono
battaglie reattive».
Lo schema primitivo, che risponde all’aumento
della complessità e dell’incertezza con
un acritico ritorno al passato – sia esso quello
di un modo di vita religioso che si sottrae agli interrogativi
del presente o un appello, spesso verbale più
che sostanziale, ad un pacchetto di valori che l’esasperato
individualismo delle società contemporanee avrebbe
lacerato e svilito – è un tipo di reazione
che la sociologia contemporanea ha indagato a lungo.
La sintetizza felicemente Mauro Magatti, in un volume
che fa il punto della discussione sociologica sull’identità
nelle società contemporanee, e in cui l’autore
sottolinea come tradizione e ortodossia siano risorse
simboliche che sembrano «poter opporsi alla disgregazione
contemporanea a condizione che vengano riproposte in
modo integralistico e così sottratte al potere
disgregante della discussione».
Risorse simboliche che, non necessariamente, risiedono
unicamente nelle tradizioni religiose, talvolta capaci
di cogliere le contraddizioni della modernità
e suggerirne vie d’uscite dotate di autenticità.
In un bell’articolo pubblicato sulla rivista francese
«La vie des idées», Quando
il razzismo si fa best-seller. Perché gli italiani
leggono Oriana Fallaci?, Bruno Cousin e Tommaso
Vitale individuano le ragioni del successo – che
hanno spinto addirittura il «Corriere della sera»
ad appoggiare con grande forza, e probabilmente eccessiva
spregiudicatezza, l’«operazione» Fallaci
– nella «sindrome dell’immediatezza»
che caratterizzerebbe il dibattito pubblico italiano:
quest’ultima «costituisce insieme un sintomo
e una legittimazione ulteriore di un aspetto emergente
del discorso pubblico: la valorizzazione dell’assenza
di mediazioni politiche, sociali e culturali. Si tratta
di una tendenza anti-intellettuale, che rifiuta sia
le prove di realtà che un confronto con “letture
complesse”».
I diversi e multiformi tentativi di ancoraggio ad un
passato non bene identificato – un Occidente incontaminato,
una tradizione valoriale compatta – generano tra
l’altro molta confusione, e rischiano di appiattire
critiche anche fondate al relativismo su una posizione
massimalista, reattiva dogmatica. Essi dimenticano che,
come sottolinea Benhabib, «le culture, al pari
delle società, non sono sistemi di azione e significazione
olistici, bensì plurivoci, polistratificati,
decentrati e frazionati».
In questo contesto, parzialmente diverso naturalmente
è il caso della Chiesa, la quale, seppure non
senza contraddizioni e senza sovente rispettare la laicità,
non dello spazio pubblico – nel quale tutte le
voci debbono far valere le loro ragioni e che di per
sé non può essere «laico»
– ma delle istituzioni, si richiama da sempre
ad una tradizione millenaria volutamente sottratta al
dibattito e si ancora ad una ontologia tomistico-realistica
che vede nel relativismo teoretico e morale un pericolo
per la dignità umana. Per questo, infatti, i
dialoghi tra i cosiddetti «atei devoti»
del panorama pubblico italiano e autorevoli esponenti
della Chiesa cattolica rischiano di ingenerare confusioni
che certamente non giovano alla stessa Chiesa –
la quale farebbe assai meglio a starne alla larga –
perché ciò che ne risulta è una
sorta di equivalenza tra un’accorata e sofferta
denuncia dei mali del presente interpretati attraverso
una potente escatologia che annuncia salvezza dalla
mortalità e dal male e una contingente riflessione,
tutta politica, finalizzata a produrre una genealogia
semplificata del terrorismo e delle contraddizioni delle
società contemporanee.
Una diversa declinazione politica della critica al
relativismo, anch’essa tuttavia funzionale al
rifiuto una seria autocritica verso le nostre stesse
posizioni «occidentali», è stata
avanzata, qualche mese fa, da Pierluigi Battista, sul
«Corriere della Sera» di sabato 2 luglio
2005. L’articolo di Battista partiva dalle critiche
dei laici alla capillare diffusione, da parte della
Chiesa cattolica, del Compendio del suo catechismo,
e denunciava le tesi di coloro secondo cui «una
Chiesa sicura di sé e forte delle proprie certezze
prefiguri un animus intollerante e, dunque,
un pericolo per le sorti stesse del pluralismo».
La riflessione sul Compendio era uno spunto
per denunciare una versione edulcorata e irenico-conciliatoria
del dibattito pubblico, basata ad avviso dell’autore
«sul pregiudizio che le forti convinzioni e le
rivendicazioni orgogliose della propria identità
siano in quanto tali ostacoli al dialogo e persino alla
convivenza di fedi e culture diverse». Aggiungeva
Battista: «Prevale l’idea che la nettezza
delle posizioni significhi il contrario dell’auspicabile
comunicazione tra diverse visioni del mondo. Si impone
in forma surrettizia la pretesa che il dialogo sia un’eterna
mediazione, un incessante stemperarsi, un autodepotenziante
infiacchirsi e che, per poter entrare nel novero delle
opinioni rispettabili, queste stesse opinioni devono
trovare una forma sbiadita e compromissoria».
Questa tesi è parzialmente fuorviante, perché,
nonostante Battista utilizzi aggettivi negativi («sbiadito,
infiacchito») appare davvero impresa difficile
criticare il fatto che nel dibattito pubblico –
insieme al conflitto, elemento fisiologico e segno di
vitalità – ci sia anche eterna mediazione,
stemperarsi e depotenziarsi delle opinioni, capacità
di trovare compromessi teorici e politici. Sarebbe piuttosto
una sciagura se le posizioni rimanessero immobili, impenetrabili,
se nessuno facesse passi indietro, perché in
tal caso non ci sarebbe dialogo, né pluralismo,
né, soprattutto, democrazia. E, inoltre, non
è forse giusto ricordare che è proprio
un lavoro culturale di interpretazione e parziale «depotenziamento»
delle sue tesi quello che ha permesso alla stessa Chiesa
di accettare la democrazia liberale e apparire oggi
non solo un autorevole punto di riferimento morale,
ma addirittura anche un baluardo contro gli attacchi
dell’islamismo più radicale?
Un ultimo, forse troppo ripetuto ma certamente vero,
affondo alla tesi di coloro che attaccano il relativismo
in nome di una difesa di un’etica che potremmo
definire, con un brutto sintagma, «oggettivistico-occidentale»,
proviene dal ragionamento – sottolineato nel volume
anche dalla tesi di Ingrid Salvatore sul carattere in
definitiva etnocentrico dell’occidentalismo –
da un sociologo pure critico nei confronti di alcune
contraddizioni del post-modernismo come Zygmunt Bauman,
secondo cui «le società moderne sono affette
da provincialismo morale benché in apparenza
promuovano l’universale», dal momento che
sono i codici etici (univoci, moderni, ndr) ad essere
infestati dal relativismo, una piaga che è solo
un riflesso o un sedimento del provincialismo tribale
dei poteri istituzionali che usurpano l’autorità
etica». L’accusa ricorrente circa la miopia
che scambia la propria visione del mondo come quella
certamente universalizzabile ed esportabile, senza interrogarsi
sul suo carattere parimenti situato e sui risvolti politici
autoritari di un tale «abbaglio», coglie
certamente un altro aspetto di verità.
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