290 - 12.12.05


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Una, mille,
nessuna realtà.

Elisabetta Ambrosi




L’articolo che segue è tratto dal libro
Il bello del relativismo.
Quel che resta della filosofia nel XXI secolo

(Marsilio – I libri di Reset, 2005, euro 10,00),
curato da Elisabetta Ambrosi, con scritti di Butler, D’Agostini, De Monticelli, Di Nuoscio, Ferrara, Ferrarsi, Nussbaum, Petrucciani, Salvatore, Rorty, Rovatti, Vattimo, Veca.


Nelle polemiche sul rapporto tra filosofie deboli e terrorismo, il punto centrale è in maniera non sorprendente, quello – antico – del rapporto tra verità e interpretazione, riletto sullo sfondo dei nuovi scenari mondiali. Le diverse posizioni sono ormai note da tempo: da una parte, coloro che si inscrivono nella tradizione post-moderna, o semplicemente ermeneutica, rivendicano l’impossibilità di isolare una realtà «esterna» e oggettiva, valorialmente neutra, e nella difesa del carattere situato e relativo di ogni verità trovano l’argomentazione per criticare ogni forma di crociata culturale.

Dall’altra, i realisti, o forse sarebbe più corretto dire gli «oggettivisti», o ancora meglio, «naturalisti», se usiamo la celebre immagine di Rorty della filosofia come specchio della natura, si appellano ad una realtà che sarebbe non solo indipendente dalle nostre interpretazioni ma che anzi costituirebbe il criterio di verità attraverso cui giudicare la correttezza e la bontà di azioni individuali e collettive.
Di questa antica disputa, sulla quale molto, forse fin troppo, si è già detto, esiste anzitutto oggi una lettura tutta politica, contingente. Si tratta di una battaglia strumentale, legata ad un preciso momento della scena politica che ben poco ha a che fare con le riflessioni filosofiche. Lo descrive efficacemente Ingrid Salvatore in apertura del suo articolo: «È da un po’ che circola la tesi secondo cui – trovandoci di fronte a una sfida che mette in discussione i fondamenti stessi del nostro stile di vita liberale – non possiamo più permetterci alcun lusso teorico. Che si ponga fine, dunque, alle incertezze sulla Ragione, alla tolleranza di coloro che sono con noi intolleranti, alle mollezze sul pluralismo, alla proliferazione di identità che sfidano la compattezza dei nostri valori: religiose, sessuali, estetiche. Non ci possiamo più permettere questa decadenza».

Il sentimento di impasse che deriva da questo tipo di argomentazione è ben spiegato da Rovatti nell’intervento che pubblichiamo, in cui il filosofo triestino denuncia come la stigmatizzazione del relativismo e l’esaltazione di un pensiero del fondamento «ci facciano più che altro girare a vuoto e ci spostino all’indietro, in una scena già molto usata, come se nulla fosse accaduto in filosofia e nel pensiero in generale durante gli ultimi due decenni». In realtà, prosegue Rovatti, «Credere che oggi si giochi una guerra tra fondamenti e dunque tra forze, per dir così, allo stato puro, blocca con tutta evidenza la possibilità di comprendere le cose. Le battaglie per il realismo o per le ontologie oggettive sono chiaramente indizi di un grande disagio e anche di un certo smarrimento. Basta un minimo di criticità debole per rendersi conto che sono battaglie reattive».

Lo schema primitivo, che risponde all’aumento della complessità e dell’incertezza con un acritico ritorno al passato – sia esso quello di un modo di vita religioso che si sottrae agli interrogativi del presente o un appello, spesso verbale più che sostanziale, ad un pacchetto di valori che l’esasperato individualismo delle società contemporanee avrebbe lacerato e svilito – è un tipo di reazione che la sociologia contemporanea ha indagato a lungo. La sintetizza felicemente Mauro Magatti, in un volume che fa il punto della discussione sociologica sull’identità nelle società contemporanee, e in cui l’autore sottolinea come tradizione e ortodossia siano risorse simboliche che sembrano «poter opporsi alla disgregazione contemporanea a condizione che vengano riproposte in modo integralistico e così sottratte al potere disgregante della discussione».

Risorse simboliche che, non necessariamente, risiedono unicamente nelle tradizioni religiose, talvolta capaci di cogliere le contraddizioni della modernità e suggerirne vie d’uscite dotate di autenticità. In un bell’articolo pubblicato sulla rivista francese «La vie des idées», Quando il razzismo si fa best-seller. Perché gli italiani leggono Oriana Fallaci?, Bruno Cousin e Tommaso Vitale individuano le ragioni del successo – che hanno spinto addirittura il «Corriere della sera» ad appoggiare con grande forza, e probabilmente eccessiva spregiudicatezza, l’«operazione» Fallaci – nella «sindrome dell’immediatezza» che caratterizzerebbe il dibattito pubblico italiano: quest’ultima «costituisce insieme un sintomo e una legittimazione ulteriore di un aspetto emergente del discorso pubblico: la valorizzazione dell’assenza di mediazioni politiche, sociali e culturali. Si tratta di una tendenza anti-intellettuale, che rifiuta sia le prove di realtà che un confronto con “letture complesse”».

I diversi e multiformi tentativi di ancoraggio ad un passato non bene identificato – un Occidente incontaminato, una tradizione valoriale compatta – generano tra l’altro molta confusione, e rischiano di appiattire critiche anche fondate al relativismo su una posizione massimalista, reattiva dogmatica. Essi dimenticano che, come sottolinea Benhabib, «le culture, al pari delle società, non sono sistemi di azione e significazione olistici, bensì plurivoci, polistratificati, decentrati e frazionati».

In questo contesto, parzialmente diverso naturalmente è il caso della Chiesa, la quale, seppure non senza contraddizioni e senza sovente rispettare la laicità, non dello spazio pubblico – nel quale tutte le voci debbono far valere le loro ragioni e che di per sé non può essere «laico» – ma delle istituzioni, si richiama da sempre ad una tradizione millenaria volutamente sottratta al dibattito e si ancora ad una ontologia tomistico-realistica che vede nel relativismo teoretico e morale un pericolo per la dignità umana. Per questo, infatti, i dialoghi tra i cosiddetti «atei devoti» del panorama pubblico italiano e autorevoli esponenti della Chiesa cattolica rischiano di ingenerare confusioni che certamente non giovano alla stessa Chiesa – la quale farebbe assai meglio a starne alla larga – perché ciò che ne risulta è una sorta di equivalenza tra un’accorata e sofferta denuncia dei mali del presente interpretati attraverso una potente escatologia che annuncia salvezza dalla mortalità e dal male e una contingente riflessione, tutta politica, finalizzata a produrre una genealogia semplificata del terrorismo e delle contraddizioni delle società contemporanee.

Una diversa declinazione politica della critica al relativismo, anch’essa tuttavia funzionale al rifiuto una seria autocritica verso le nostre stesse posizioni «occidentali», è stata avanzata, qualche mese fa, da Pierluigi Battista, sul «Corriere della Sera» di sabato 2 luglio 2005. L’articolo di Battista partiva dalle critiche dei laici alla capillare diffusione, da parte della Chiesa cattolica, del Compendio del suo catechismo, e denunciava le tesi di coloro secondo cui «una Chiesa sicura di sé e forte delle proprie certezze prefiguri un animus intollerante e, dunque, un pericolo per le sorti stesse del pluralismo». La riflessione sul Compendio era uno spunto per denunciare una versione edulcorata e irenico-conciliatoria del dibattito pubblico, basata ad avviso dell’autore «sul pregiudizio che le forti convinzioni e le rivendicazioni orgogliose della propria identità siano in quanto tali ostacoli al dialogo e persino alla convivenza di fedi e culture diverse». Aggiungeva Battista: «Prevale l’idea che la nettezza delle posizioni significhi il contrario dell’auspicabile comunicazione tra diverse visioni del mondo. Si impone in forma surrettizia la pretesa che il dialogo sia un’eterna mediazione, un incessante stemperarsi, un autodepotenziante infiacchirsi e che, per poter entrare nel novero delle opinioni rispettabili, queste stesse opinioni devono trovare una forma sbiadita e compromissoria».

Questa tesi è parzialmente fuorviante, perché, nonostante Battista utilizzi aggettivi negativi («sbiadito, infiacchito») appare davvero impresa difficile criticare il fatto che nel dibattito pubblico – insieme al conflitto, elemento fisiologico e segno di vitalità – ci sia anche eterna mediazione, stemperarsi e depotenziarsi delle opinioni, capacità di trovare compromessi teorici e politici. Sarebbe piuttosto una sciagura se le posizioni rimanessero immobili, impenetrabili, se nessuno facesse passi indietro, perché in tal caso non ci sarebbe dialogo, né pluralismo, né, soprattutto, democrazia. E, inoltre, non è forse giusto ricordare che è proprio un lavoro culturale di interpretazione e parziale «depotenziamento» delle sue tesi quello che ha permesso alla stessa Chiesa di accettare la democrazia liberale e apparire oggi non solo un autorevole punto di riferimento morale, ma addirittura anche un baluardo contro gli attacchi dell’islamismo più radicale?

Un ultimo, forse troppo ripetuto ma certamente vero, affondo alla tesi di coloro che attaccano il relativismo in nome di una difesa di un’etica che potremmo definire, con un brutto sintagma, «oggettivistico-occidentale», proviene dal ragionamento – sottolineato nel volume anche dalla tesi di Ingrid Salvatore sul carattere in definitiva etnocentrico dell’occidentalismo – da un sociologo pure critico nei confronti di alcune contraddizioni del post-modernismo come Zygmunt Bauman, secondo cui «le società moderne sono affette da provincialismo morale benché in apparenza promuovano l’universale», dal momento che sono i codici etici (univoci, moderni, ndr) ad essere infestati dal relativismo, una piaga che è solo un riflesso o un sedimento del provincialismo tribale dei poteri istituzionali che usurpano l’autorità etica». L’accusa ricorrente circa la miopia che scambia la propria visione del mondo come quella certamente universalizzabile ed esportabile, senza interrogarsi sul suo carattere parimenti situato e sui risvolti politici autoritari di un tale «abbaglio», coglie certamente un altro aspetto di verità.

 

 

 

 

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