“Il
mondo di oggi è brutto, ci appare sempre più
violento e atroce, e la gente non fa che continuare
a osservarlo, così com’è, in tutta
la sua bruttezza. Ho il timore che le cose siano andate
troppo oltre, che sia tardi per tornare a dialogare
con gli altri”. Omar Sharif, però, non
si arrende. I film che sceglie di interpretare parlano
sempre più spesso di tolleranza e rispetto dell’altro.
“È questo il mio mestiere: sono un attore.
Quando ricevo un premio intitolato alla cultura del
dialogo – come è accaduto a Venezia –
mi dico che sto andando nella direzione giusta, che
sto invecchiando bene. Non credo che i miei film cambino
le cose, ma io non posso che tentare”.
E un premio dedicato al dialogo tra le culture Omar
Sharif lo riceve anche dal Saturno Film Festival, tra
Anagni e Alatri, dove lo abbiamo avvicinato per farci
raccontare la sua esperienza di artista che vive a cavallo
tra il mondo arabo e l’occidente.
Lei si dichiara poco ottimista: la forte radicalizzazione
culturale e religiosa oggi in atto non alimenta certo
le sue speranze. Quale messaggio vorrebbe mandare al
mondo arabo e a quello occidentale?
Il messaggio è semplice: bisogna aprirsi al
dialogo. La prima cosa che ho insegnato ai miei figli
e ai miei nipoti è la tolleranza, il rispetto
per gli altri. Bisogna riscoprire questi concetti. Oggi,
sfortunatamente, siamo andati troppo oltre nelle guerre
e negli antagonismi. Sembrerebbe che sia troppo tardi.
Perciò dico: ricominciamo daccapo. Educhiamo
al dialogo e – soprattutto – iniziamo a
parlare una lingua comune. Non c’è dialogo
tra chi ha la pancia piena e chi muore di fame, non
c’è dialogo senza parità di diritti.
Confido nella prossima generazione, spero che sia diversa
da quella che l’ha preceduta. Altrimenti abbiamo
davvero pochissime speranze.
Le recenti dichiarazioni del presidente iraniano
Ahmadinejad hanno provocato reazioni in tutto il mondo.
L’ayatollah Khamenei ha poi corretto il tiro.
Cosa pensa di quest’episodio?
Non posso dire altro se non che si tratta di dichiarazioni
atroci e incredibili. Purtroppo la questione israelo-palestinese
è una ferita ancora aperta. Credo che si tratti
di una situazione insostenibile. Israeliani e palestinesi
non potranno vivere in queste condizioni per sempre:
a un certo punto, non potranno fare altro che riconciliarsi.
Le notizie che arrivano ci parlano di un mondo
più violento, assai poco incline ad ascoltare
le ragioni dell’altro – abbiamo detto dell’Iran,
penso anche agli scontri nella banlieue parigina. Quale
contributo può dare il cinema al dialogo tra
diversi?
Non sono ottimista: credo che il cinema non riesca
più a educare. Solo la televisione avrebbe le
potenzialità per salvare il mondo; nei fatti,
invece, i programmi televisivi non sono concepiti per
educare, per aiutare la gente a dialogare e a comprendere
gli altri, soprattutto se questi ultimi appartengono
a Paesi diversi dal proprio. Oggi, anzi, il mezzo televisivo
non fa altro che alimentare preconcetti. Io sono un
attore. Mi danno un copione, se mi piace il personaggio
accetto la parte e la interpreto con tutta l’anima.
Ho deciso di fare dei film che parlano di tolleranza
e dialogo. Mi basta riuscire a influire su dieci persone.
Non è molto, non penso di riuscire a fare di
più, ma perlomeno sento di aver fatto qualcosa.
Il mio mestiere è recitare.
Secondo lei la televisione avrebbe le potenzialità
per salvare il mondo invece sembra più concentrata
a mostrare acriticamente la realtà in cui viviamo.
E la realtà di oggi è brutta. Chi guarda
la tv continua a vedere immagini violente sia nelle
trasmissioni di informazione che in quelle di intrattenimento.
Persino i film cinematografici – fatti per un
pubblico giovane dai 14 ai 24 anni – si stanno
facendo più violenti. La televisione ci fa essere
presenti e ci fa assistere alle atrocità che
accadono ovunque nel mondo e, in questo modo, ci abitua
all’idea della morte, della guerra, della violenza.
In un certo senso, io ho avuto la fortuna di essere
nato in un’epoca in cui la televisione non c’era:
è stato esclusivamente attraverso la lettura
che – fino a vent’otto anni – ho acquisito
il mio bagaglio culturale.
Lei ha vissuto una vita multiculturale. Il
suo lavoro l’ha portata a conoscere, a viaggiare.
Qual è la sua esperienza personale del dialogo
culturale?
Mi viene in mente un vecchio progetto che realizzerò
il prossimo anno per la televisione egiziana. Nei Paesi
arabi, in occasione del Ramadan, vengono mandate in
onda delle serie televisive di trenta episodi –
un episodio al giorno fino alla fine del mese del digiuno.
Ho cercato di trovare una bella storia da raccontare
e poi mi sono messo a scriverla, con l’aiuto di
una sceneggiatrice più esperta di me. La vicenda
ha molto in comune con la mia. Racconta di un egiziano
che vive lontano dal suo Paese. La figlia non è
mai stata in Egitto e – come la madre –
è molto americanizzata: mentre loro mangiano
hamburger e ascoltano musica occidentale, lui prepara
per sé cibo egiziano e si rifugia in una stanza
ad ascoltare canzoni arabe e leggere poesie della propria
terra. Alla morte della moglie, l’uomo decide
di tornare in Egitto e porta sua figlia con sé,
ma, una volta arrivato – proprio come capitò
a me quando mancai dall’Egitto per quasi sedici
anni –, sembra non riconoscere il suo Paese: tutto
è cambiato. La figlia si stupisce: perché
il padre le aveva parlato sempre di quei luoghi? Cosa
avevano di speciale? La gente, gente buona, generosa.
Finisce che anche lei si innamora dell’Egitto.
Ecco, il dialogo con l’altro è anche questo:
comprendersi nel ricordo delle proprie origini, della
propria cultura, della propria storia.
Dialogare è anche avvicinarsi all’altro
con un po’ di curiosità.
Le faccio un esempio. Io adoro l’opera lirica:
ho imparato l’italiano per capire quello che era
scritto sui libretti. E ora – che sono più
anziano – ho deciso di imparare il greco antico.
Un’ora a settimana. Così se riuscirò
nell’impresa prima di morire potrò leggere
Omero in lingua originale. Se morirò prima, sarò
morto nel tentativo.
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