José
Ortega y Gasset, morto giusto cinquant’anni fa
(il 17 ottobre 1955) a Madrid (la città ove era
nato il 9 maggio 1883), è pensatore difficilmente
classificabile ma sicuramente attualissimo. Rispetto
all’altro grande filosofo spagnolo del secolo
scorso, Miguel de Unamuno, egli rappresenta il volto
moderno, laico, occidentale della nazione iberica. L’adesione
di principio all’Occidente (“Revista de
Ocidente” si chiama prestigiosa rivista vista
da lui fondata negli anni Venti) trova in Ortega la
sua ragion d’essere in un pensiero rigorosamente
immanentistico che si forma attraverso diverse esperienze
intellettuali. Recatosi in Germania ad approfondire
gli studi, nel 1906, Ortega si avvicina in un primo
tempo a Marburgo ai filosofi neokantiani. Gradualmente
però l’influenza della fenomenologia di
Husserl prima, dell’esistenzialismo di Heidegger
poi, lo portano a maturare una profonda critica dell’idealismo
e intellettualismo di Kant. Il pensatore spagnolo, aderendo
al programma metodologico di “andare verso le
cose stesse”, si impone così di adeguare
sempre più il suo pensiero alla realtà
piuttosto che il mondo a un sistema filosofico. Individua
nella stessa epoché fenomenologica un residuo
di concettualismo da eliminare. L’asistematicità
delle opere che va componendo, così come la non
riducibilità del suo pensiero a un comune denominatore,
sono la conseguenza dell’assunto di base teso
ad una fedeltà di fondo alla vita.
Del 1914 sono le Meditazioni sul Chisciotte,
ove è contenuta la celebre frase: “io sono
io e la mia circostanza”. Le Meditazioni
sono un vero capolavoro di letteratura, oltre che di
filosofia (Camus non esita ad affermare che Ortega è
il più grande scrittore del secolo): in esse
si trovano saggi su argomenti ultimi così come
sulle piccole cose, apparentemente banali, della quotidianità;
su temi letterari e filosofici; su questioni sacre e
profane. Nella vita non c’è infatti, per
l’autore, un alto e un basso: ogni realtà
va giudicata dalla prospettiva da cui la si osserva
(è il tema del “prospettivismo” ripreso
da Nietzsche) e le prospettive hanno tutte uguale dignità.
La serietà è data non dai temi prescelti,
ma dallo spirito che assume chi li interpreta. “Vivere
– scrive – significa essere costretti ad
interpretare la nostra vita”. E ancora, in Il
tema del nostro tempo (1923): “il senso della
vita non è altro che accettare la propria circostanza
e, nell’accettarla, trasformarla in una creazione
nostra. L’uomo è l’essere condannato
a tradurre la necessità in libertà”.
Nella dimensione della libertà umana, si collocano
l’etica e la politica, discipline a cui Ortega
ha dato i suoi contributi più conosciuti. Mi
riferisco soprattutto a quell’acuta analisi del
mondo contemporaneo, per tanti aspetti insuperata, che
è contenuta ne La ribellione delle masse
(1930). Se si legge quest’opera si rimane affascinati
dalla capacità fulgida e dalla vivida immaginazione
con cui Ortega descrive, già nelle prime pagine,
le folle: la promiscuità a cui ci costringe il
nostro tempo; il nostro costante venire a contatto con
uomini che, pur essendo a noi fisicamente vicini, sono
degli assoluti sconosciuti. La massa si tramuta però
subito, in Ortega, da concetto fisico, quasi palpabile,
in concetto ideale: l’uomo massa non appartiene
a nessuna particolare classe o ceto sociale, ma è
semplicemente l’uomo medio, senza qualità:
il “signorino soddisfatto” che pretende
semplicemente annullare ogni eccellenza. “La massa
travolge tutto ciò che è diverso, singolare,
individuale, qualificato e selezionato. Chi non è
‘come tutto il mondo’, chi non pensa ‘come
tutto il mondo’, corre il rischio di essere eliminato”.
La filosofia, in quest’ottica, come scienza paradossale
e anticonformista, critica del senso comune in nome
del buon senso, è l’unica speranza di salvezza
che è data al genere umano. Il filosofo, oserva
Ortega nell’opera postuma Che cos’è
la filosofia (1958), non è il cultore di
una particolare disciplina, né può rinchiudere
il suo pensiero nella gabbia rigida di un “sistema”.
Egli è semplicemente il custode dell’umanità,
di quanto ci fa diversi dalle bestie: la capacità
di ragionare, di dubitare, anche di contraddirci (la
ragione a cui fa affidamento Ortega è “ragione
vitale” non “scientifica”). Egli è,
ancora, il custode del pluralismo delle prospettive.
Ed è, perciò, per forza di cose un “relativista”:
“l’unica prospettiva falsa è quella
che pretende di essere l’unica vera”. Un
cultore di quello spirito laico e antidogmatico che
permette agli uomini di non azzannarsi a vicenda, dal
punto di vista pratico, e di non impazzire, da quello
teorico. “L’uomo – osserva Ortega
– non deve fermarsi in una sola cosa, perché
allora diviene matto: bisogna avere mille cose, una
confusione nella testa”. E in effetti già
Nietzsche, alla cui fase “illuministica”
della Gaia scienza Ortega si è sempre sentito
vicino, aveva scritto che “ci vuole un caos dentro
di sé per generare una stella danzante”.
Lo scorso venerdì 21 ottobre il filosofo
spagnolo è stato al centro di un convegno, organizzato
dalla Luiss Guido Carli e dall’Istituto Cervantes
di Roma, dal titolo “Ortega y Gasset a cinquanta
anni dalla morte”, durante il quale i vari aspetti
del pensatore spagnolo sono stati oggetto degli interventi
di Otello Lottini, Javier Ruiz Sierra, Fernando Lafueunte,
Armando Savignano, Dario Antiseri, fabio Nicotera, Lorenzo
infantino, Carmen Otero, Giuseppe Gembillo, Girolamo
Cotroneo, Carlo Mongardini, Gaetano Pecora, Luciano
Pellicani.
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