Maeve
Brennan,
La visitatrice,
BUR, pp. 109, € 7,20
A volte ritornano. Sono morti da tempo ma qualcuno,
dopo averli forse solo per caso riesumati, scopre in
loro una vitalità che desta stupore e meraviglia.
Allora eccezionalmente accade il miracolo di una resurrezione.
Essi tornano a vivere, a circolare, ad essere visitati
e studiati con quell’attenzione che nel passato
non c’era stata. Parlo degli scrittori che, durante
la loro più o meno travagliata o felice parabola
esistenziale, non hanno conosciuto la fama e il riconoscimento
che meritavano. E solo postumi vengono salutati come
modelli d’espressività, cui guardare con
gratitudine e considerazione. Parlo di valenti narratori
caduti per decenni nel dimenticatoio, come l’autrice
di origine dublinese Maeve Brennan, la quale in vita
sua diede alle stampe solo due libri di racconti (negli
Usa, dove era emigrata fin dall’adolescenza) e
che poi, anche a causa di uno squilibrio mentale sempre
più invalidante, pur continuando a scrivere non
riesce a pubblicare altre opere e ammutolisce, finendo
per morire all’inizio degli anni novanta –
sola e derelitta – in una casa di riposo.
Però un giorno (1997), destino vuole che venga
scovato tra le carte di un lascito d’archivio
della Casa Editrice newyorkese Sheed & Ward un suo
breve romanzo inedito, databile intorno a metà
anni quaranta (The Visitor: La
visitatrice), e d’improvviso da parte
della critica si parla di capolavoro, di romanzo al
limite della perfezione, di una scrittura che ricorda
quella di Emily Dickinson. Il romanzo nel 2000 è
pubblicato negli Stati Uniti, quindi in Inghilterra;
seguono edizioni in altri Paesi europei e il testo viene
ben presto tradotto in tedesco, spagnolo, ed ora in
italiano. Una fortuna letteraria che, secondo The
Guardian, oggi “colloca la Brennan al livello
più alto tra gli scrittori di narrativa breve”.
Però se qualcuno, otto anni fa, all’Università
di Notre Dame, Indiana, non avesse spulciato i carteggi
del suddetto lascito archivistico, quando mai saremmo
stati indotti a riparlare della Brennan (anzi, in primis,
a leggerla)?
Ma bando alle illazioni deprimenti e veniamo a The
Visitor. Pure a mio avviso si tratta di un piccolo
gioiello narrativo (piccolo solo perché
tale è, per numero di pagine, il romanzo breve
della nostra scrittrice), incentrato su alcune esemplari
figure femminili, calate nella Dublino degli anni quaranta.
La trama è semplicissima ed in un certo qual
senso non vi è vero e proprio intreccio ne La
visitatrice, costituendo il suo soggetto appena
l’occasione per un racconto psicologico, tutto
basato su dettagli, atmosfere e vissuti emozionali,
in uno scenario plumbeo, crepuscolare e melanconico,
fatto solo di interni e solitudini affollate di misconoscimenti
e/o presenze assenti.
Protagonista è la giovane Anastasia, sbarcata
a Dublino a seguito di un esilio durato sei anni trascorsi
all’estero presso la madre, dopo l’improvviso
abbandono da parte di questa del tetto coniugale. Essendo
però deceduta la genitrice (nel frattempo in
Irlanda è morto anche il padre), la ragazza torna
nella casa avita dove spera invano accoglienza da parte
della nonna paterna (persa dietro un lutto non ancora
elaborato nei confronti del figlio) che non la tollera,
anzi le impone ben presto di andarsene. Questo è
quanto. Ma, se vogliamo, nulla davvero accade in questa
storia all’insegna del disamore e della non accettazione;
ovvero tutto è già accaduto prima che
il romanzo inizi e niente può accadere - nell’ottica
ossessivo-depressiva di nonna e nipote - se non il compiersi
d’un disegno quasi predestinato: sorta di fatalità
inesorabile/ineludibile. Così Anastasia nulla
fa (può fare, nella prospettiva pessimistico-masochistica
della Brennan) per trovare accoglienza presso la nonna
o presso altre figure (come l’anziana e pur generosa
cameriera o i religiosi della vicina chiesa), ma si
limita a prendere atto sempre più tristemente
del suo status di orfana tre volte, sino alla
chiusa finale nel segno d’un estremo e un po’
folle gesto con cui la ragazza reclama e rende al contempo
impossibile quell’accoglienza che avrebbe dovuto
forse cercare piuttosto altrove.
Ma è nella scrittura, non certo nella narrazione
di una così scarna vicenda, la forza della Brennan.
Nel registro stilistico personalissimo, fatto di una
prosa insieme scarna ed essenziale ma attenta ai particolari
rivelatori (psicologici e ambientali); all’atmosfera
insomma, fatta di una desolante algidità che
piogge, cieli oscuri e freddezza/incapacità di
aprirsi all’altro da parte dei vari personaggi
sottolineano, al di là delle loro buone maniere
da galateo piccolo borghese. Ovunque emerge, sia pure
tra le righe, un dolore sottile ma omnipervasivo - che
solo implicitamente lascia percepire il suo afono grido
- a incidere in questa storia quasi lo stemma araldico
di questa sofferta scrittrice. Una cifra, la quale si
traduce in una diffusa aura di tristezza mortifera che
pervade tutto il romanzo e sottolinea la vocazione all’isolamento/abbandono,
che fan propria un po’ tutti i personaggi di questo
racconto della Brennan: monadi senza porte o finestre
che non sian quelle su “neri” giardini invernali:
vacui e derelitti come l’anima di Anastasia.
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