288 - 13.11.05


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L’ineludibile fato
della scrittura

Francesco Roat



Maeve Brennan,
La visitatrice,
BUR, pp. 109, € 7,20


A volte ritornano. Sono morti da tempo ma qualcuno, dopo averli forse solo per caso riesumati, scopre in loro una vitalità che desta stupore e meraviglia. Allora eccezionalmente accade il miracolo di una resurrezione. Essi tornano a vivere, a circolare, ad essere visitati e studiati con quell’attenzione che nel passato non c’era stata. Parlo degli scrittori che, durante la loro più o meno travagliata o felice parabola esistenziale, non hanno conosciuto la fama e il riconoscimento che meritavano. E solo postumi vengono salutati come modelli d’espressività, cui guardare con gratitudine e considerazione. Parlo di valenti narratori caduti per decenni nel dimenticatoio, come l’autrice di origine dublinese Maeve Brennan, la quale in vita sua diede alle stampe solo due libri di racconti (negli Usa, dove era emigrata fin dall’adolescenza) e che poi, anche a causa di uno squilibrio mentale sempre più invalidante, pur continuando a scrivere non riesce a pubblicare altre opere e ammutolisce, finendo per morire all’inizio degli anni novanta – sola e derelitta – in una casa di riposo.

Però un giorno (1997), destino vuole che venga scovato tra le carte di un lascito d’archivio della Casa Editrice newyorkese Sheed & Ward un suo breve romanzo inedito, databile intorno a metà anni quaranta (The Visitor: La visitatrice), e d’improvviso da parte della critica si parla di capolavoro, di romanzo al limite della perfezione, di una scrittura che ricorda quella di Emily Dickinson. Il romanzo nel 2000 è pubblicato negli Stati Uniti, quindi in Inghilterra; seguono edizioni in altri Paesi europei e il testo viene ben presto tradotto in tedesco, spagnolo, ed ora in italiano. Una fortuna letteraria che, secondo The Guardian, oggi “colloca la Brennan al livello più alto tra gli scrittori di narrativa breve”. Però se qualcuno, otto anni fa, all’Università di Notre Dame, Indiana, non avesse spulciato i carteggi del suddetto lascito archivistico, quando mai saremmo stati indotti a riparlare della Brennan (anzi, in primis, a leggerla)?

Ma bando alle illazioni deprimenti e veniamo a The Visitor. Pure a mio avviso si tratta di un piccolo gioiello narrativo (piccolo solo perché tale è, per numero di pagine, il romanzo breve della nostra scrittrice), incentrato su alcune esemplari figure femminili, calate nella Dublino degli anni quaranta. La trama è semplicissima ed in un certo qual senso non vi è vero e proprio intreccio ne La visitatrice, costituendo il suo soggetto appena l’occasione per un racconto psicologico, tutto basato su dettagli, atmosfere e vissuti emozionali, in uno scenario plumbeo, crepuscolare e melanconico, fatto solo di interni e solitudini affollate di misconoscimenti e/o presenze assenti.

Protagonista è la giovane Anastasia, sbarcata a Dublino a seguito di un esilio durato sei anni trascorsi all’estero presso la madre, dopo l’improvviso abbandono da parte di questa del tetto coniugale. Essendo però deceduta la genitrice (nel frattempo in Irlanda è morto anche il padre), la ragazza torna nella casa avita dove spera invano accoglienza da parte della nonna paterna (persa dietro un lutto non ancora elaborato nei confronti del figlio) che non la tollera, anzi le impone ben presto di andarsene. Questo è quanto. Ma, se vogliamo, nulla davvero accade in questa storia all’insegna del disamore e della non accettazione; ovvero tutto è già accaduto prima che il romanzo inizi e niente può accadere - nell’ottica ossessivo-depressiva di nonna e nipote - se non il compiersi d’un disegno quasi predestinato: sorta di fatalità inesorabile/ineludibile. Così Anastasia nulla fa (può fare, nella prospettiva pessimistico-masochistica della Brennan) per trovare accoglienza presso la nonna o presso altre figure (come l’anziana e pur generosa cameriera o i religiosi della vicina chiesa), ma si limita a prendere atto sempre più tristemente del suo status di orfana tre volte, sino alla chiusa finale nel segno d’un estremo e un po’ folle gesto con cui la ragazza reclama e rende al contempo impossibile quell’accoglienza che avrebbe dovuto forse cercare piuttosto altrove.

Ma è nella scrittura, non certo nella narrazione di una così scarna vicenda, la forza della Brennan. Nel registro stilistico personalissimo, fatto di una prosa insieme scarna ed essenziale ma attenta ai particolari rivelatori (psicologici e ambientali); all’atmosfera insomma, fatta di una desolante algidità che piogge, cieli oscuri e freddezza/incapacità di aprirsi all’altro da parte dei vari personaggi sottolineano, al di là delle loro buone maniere da galateo piccolo borghese. Ovunque emerge, sia pure tra le righe, un dolore sottile ma omnipervasivo - che solo implicitamente lascia percepire il suo afono grido - a incidere in questa storia quasi lo stemma araldico di questa sofferta scrittrice. Una cifra, la quale si traduce in una diffusa aura di tristezza mortifera che pervade tutto il romanzo e sottolinea la vocazione all’isolamento/abbandono, che fan propria un po’ tutti i personaggi di questo racconto della Brennan: monadi senza porte o finestre che non sian quelle su “neri” giardini invernali: vacui e derelitti come l’anima di Anastasia.

 

 

 

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