Le iniziative
sugli assetti della televisione pubblica italiana riguardano
sostanzialmente la ripartizione dei poteri. Sembra che
tutto si risolva in un cambio di bandiera. Che differenza
fa per i telespettatori se chi ha diritto all'ultima
parola sia di destra, di sinistra, di centro? Davvero
qualcuno pensa che la collocazione partitica sia per
loro motivo di depressione o di entusiasmo?
Chi acquista un computer vuole che funzioni e operi
nel miglior modo possibile. A meno di essere studiosi
della materia, sapere come è costruito e come
funzionano i circuiti importa relativamente poco. Così
la maggioranza dei telespettatori è poco propensa
a impantanarsi nei meccanismi di spartizione partitocratica
della televisione pubblica. Importa invece la qualità
dei programmi e la linea editoriale, sia sul versante
della informazione sia su quello dell'intrattenimento.
I palinsesti della attuale televisione pubblica sono
fondati su reality show, con personaggi in cerca di
popolarità e di nuova gloria, film d'azione o
sentimentali varie volte di serie B, rubriche e telecronache
sportive in cui il cambio generazionale dei cronisti
fa sentire gli effetti. Ci sono le eccezioni: sia tra
le reti, sia tra i programmi. Ma si tratta di enclave
mediatiche.
Così si assiste a scelte che risultano discutibili.
Come quella di lunedì 17 ottobre, quando il film
Ararat è stato trasmesso, in prima
visione, alle due di notte su Rai Tre. Ararat,
uno dei migliori film degli ultimi anni, diretto da
Atom Egoyan, è incentrato sul genocidio del popolo
armeno.
Tra il 1915 e il 1923 i turchi ottomani, nella fase
di passaggio dal loro impero ormai decomposto allo stato
guidato da Ataturk, uccisero un milione e cinquecentomila
armeni, uomini e donne di tutte le età. E' stata
la prima pulizia etnica del Novecento, seguita da una
diaspora di cinquecentomila persone scampate al massacro.
Il modo in cui le potenze occidentali trattarono la
questione con la Turchia è stato oggetto di tante
pubblicazioni.
La memoria di quella tragedia, il "Grande Male",
soltanto un paio di decenni dopo era in oblio. La realpolitik,
già allora aveva "consigliato" alle
potenze occidentali di non tirare troppo la corda per
non inimicarsi la Turchia, in funzione anti Urss. Basterà
ricordare che Hitler, quando stava preparando la Shoah,
a chi tra i gerarchi gli chiedeva come avrebbe reagito
la comunità
internazionale, rispondeva che non c'era nulla da temere
perché "chi si ricorda del genocidio degli
armeni?".
Il muro di opportunismo è ancora in piedi, anche
se dal Secondo dopoguerra, e ancora più in questi
ultimi anni, molti Stati, assemblee legislative e istituzioni
hanno riconosciuto, con atti ufficiali, il Genocidio
armeno. Lo ha fatto anche il Parlamento italiano nel
novembre del 2000.
La qualità del film Ararat è nella sintesi
tra la parte documentaristica e la narrazione. Un film
su un film da realizzare e la scoperta di una storia
personale e collettiva, attraverso una rappresentazione
che non impone nulla allo spettatore, ma lo accompagna
sollecitandone domande, prima di tutti a se stesso.
Atom Egoyan lo ha definito "una riflessione sulla
funzione spirituale dell'arte nella difficoltà
di confrontarsi e redimersi dalle conseguenze del genocidio".
"Ararat" non si limita alla semplice esposizione
di una parte, che lo avrebbe posto su un piano documentaristico,
ma sviluppa un confronto tra due parti: il giovane armeno
che torna in Canada, con pellicole e nastri digitali
per un film da realizzare, e un funzionario della dogana,
insospettito da quel materiale, perché ritiene
che quel film sia già stato realizzato.
Un confronto che è anche generazionale, seppure
molto più avanzato rispetto ai canoni abituali.
Se in genere il giovane vuole liberarsi dal passato
mentre chi è più maturo vi rimane legato,
in Ararat troviamo un giovane che sta facendo riemergere
la storia del suo popolo e l'adulto che si scopre aver
creduto a qualcosa di infondato. Un intreccio tra il
rapporto con l'altro e la introspezione che a tratti
rimanda al teatro di Harold Pinter.
Un film con queste caratteristiche, che ha ottenuto
numerosi riconoscimenti, meriterebbe di essere proiettato
in prima serata o quantomeno ad un orario in cui possa
essere visto da un'adeguata parte del pubblico televisivo.
Perché relegarlo in un orario insostenibile
per la gran parte dei pubblico? Che sia stato per scelte
commerciali, peraltro sempre più ipotetiche perché
non realmente rispondenti alla realtà, oppure
per altri motivi che nulla hanno a che fare con una
valutazione di stretto ambito televisivo, rimane il
dato della programmazione inadeguata di una pellicola
che merita molto di più.
Non si sa se in futuro avremo una televisione pubblica
in cui la qualità dei film da trasmettere sarà
una scelta strategica. Se così fosse, ritrasmettere
il film Ararat in prima serata sarebbe un segnale di
avvenuta discontinuità con il passato.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|