“Ci
sono piovuti sulla testa uova e pomodori, ci hanno scagliato
addosso improperi e maledizioni, hanno scatenato una
campagna d’informazione violentissima, ma alla
fine ce l’abbiamo fatta”.
Sì, alla fine ce l’hanno fatta e sono riusciti
a parlare, a discutere, a mettere in piedi la prima
conferenza pubblica turca in cui al centro dell’attenzione
fosse esplicitamente posto il genocidio armeno; e così
sono riusciti a fare un po’ di luce sulla storia
e a scalfire uno dei più rocciosi tabù
della cultura turca. Segno che in Turchia la rivoluzione
silenziosa procede, va avanti e avvicina sempre più
il Bosforo all’Europa e all’occidente portando
le consuetudini della democrazia; ma è anche
segno di quanto questa modernizzazione sia ancora incompleta
e di quanta strada debba ancora percorrere. Dell’Armenia,
ad esempio, i turchi non vogliono proprio sentir parlare,
dell’eccidio e delle deportazioni compiute dall’Impero
Ottomano a partire dal 1915 ai danni della minoranza
cristiana non si vuole discutere. E allora, se si vuole
organizzare un convegno con storici e intellettuali
chiamandoli a parlare esplicitamente del genocidio,
la reazione è brusca e numerosi i bastoni tra
le ruote di chi vuol schiarire le ombre del passato.
Come Elif Shafak, giovane e affermata scrittrice turca
che vive “come una nomade tra Istanbul e gli Stati
Uniti”, cinque romanzi all’attivo, uno in
particolare (The Flea Palace) di grande successo
nel suo paese e tradotto in più lingue, un sesto
romanzo in procinto di uscire negli Stati Uniti. Elif
racconta l’esperienza del convegno e guarda alla
sua Turchia: “È un bel risultato, anche
se non è abbastanza perché la battaglia
per la democrazia è ancora lunga”.
Tante difficoltà per una conferenza,
questo non è certo un episodio che fa pensare
a un paese pienamente democratico. Che ne è della
cosiddetta rivoluzione silenziosa?
La rivoluzione silenziosa esiste, è in pieno
corso ma è nata e si sta sviluppando in un modo
molto particolare: rapidamente, radicalmente e dall’alto.
In altre parole il cambiamento avviene principalmente
ad opera di élites politiche e culturali di ispirazione
riformista. Il rifiuto di riconoscere il genocidio compiuto
contro il popolo armeno è il frutto di una sorta
di amnesia collettiva, una specie di frattura della
memoria. La modernizzazione che ci sta aprendo le porte
dell’Europa sta anche costruendo una vera e propria
rottura con il passato. Ma la Turchia non può
andare avanti senza affrontare faccia a faccia il proprio
passato, perché questo non è un palcoscenico
chiuso dietro un sipario ma vive dentro il nostro presente,
nelle nostre vite.
Da dove viene questo rifiuto così
ostinato a parlare di sé e della propria storia?
Molti occidentali pensano che il rifiuto turco a confrontarsi
con il genocidio armeno sia una scelta deliberata e
cosciente. Non è così: l’atteggiamento
più diffuso non è affatto il rifiuto,
ma l’ignoranza. Le persone non conoscono la storia
del loro popolo e non avvertono la necessità
di conoscerla meglio. La conferenza ha generato moltissime
discussioni nella società civile e sui media,
ci siamo trovati di fronte a tante difficoltà,
ma alla fine tutti coloro che erano iscritti a parlare
hanno potuto esporre liberamente le loro idee, senza
censura; anzi molti quotidiani ci hanno seguito e il
giorno dopo si leggevano titoli tipo: “Un altro
tabù è stato infranto”.
Concretamente di che cosa si è parlato
alla conferenza?
L’idea comune dei partecipanti era la convinzione
che nel 1915 sia stata consumata una grande ingiustizia
ai danni della minoranza armena che è stata costretta
a subire pene enormi. Abbiamo analizzato il contesto
politico, sociale, economico e culturale in cui ha avuto
luogo la deportazione, abbiamo raccontato ai turchi
di oggi cose che non avevano mai ascoltato dalla voce
dell’ideologia di stato. La minoranza armena dell’ultimo
Impero Ottomano fu sottoposta a discriminazioni, deportata,
derubata di ogni proprietà, costretta ad attraversare
un destino ignobile, a subire saccheggi, assassinii,
stupri e ogni sorta di atrocità. Ora noi vogliamo
guardare in faccia il passato, accettare la verità
storica e fare in modo che gli Armeni della diaspora
sappiano che siamo spiacenti per quanto accadde ai loro
antenati nel 1915.
La Turchia si divide quindi tra intellettuali
che vogliono fare chiarezza sulle atrocità del
passato e la grande maggioranza della popolazione che
invece ignora la propria storia?
Spesso i media occidentali rappresentano la società
turca con un ritratto in bianco e nero, da una parte
le cose positive, la modernizzazione, la democratizzazione,
dall’altra le oscurità, le arretratezze
sociali economiche e culturali che fanno da contrasto
ai primi. Ma non è così. È importante
mettere in evidenza tutte le sfumature che ci sono in
mezzo. In Turchia esistono almeno quattro diversi modi
di affrontare il massacro degli armeni e le deportazioni
del 1915.
Il primo e più comune è quello dell’ignoranza:
la gente non ne sa abbastanza, non ha voglia di informarsi,
e così si produce una sorta di amnesia collettiva.
Il secondo è il rifiuto, atteggiamento condiviso
da poche persone che però occupano posizioni
influenti come burocrati, diplomatici permalosi e molto
suscettibili sull’argomento, ufficiali dell’esercito
e via dicendo.
Il terzo atteggiamento è invece condiviso in
generale dalle giovani generazioni: vogliono lasciarsi
alle spalle il passato, costruire un futuro pacifico
e si chiedono perché mai non si possa lasciar
andare il passato nel dimenticatoio. Dicono: “Perché
mai devo sentirmi responsabile per le colpe compiute
dai nostri nonni, sempre che si siano davvero macchiati
di queste terribili colpe?”
Il quarto atteggiamento, nel quale io personalmente
mi riconosco, si basa sulla necessità di confrontarci
con il passato; tanto gli onori e le meraviglie della
nostra tradizione e della nostra storia, quanto le atrocità
devono essere riconosciute da una nazione che pretende
di andare avanti. Non possiamo costruire un meraviglioso
futuro sulle rovine di pene misconosciute.
Tutte parole che mettono in evidenza quanto
sia importante il ruolo degli intellettuali in un paese
che vuole aprirsi al pieno rispetto dei diritti e delle
libertà.
Gli intellettuali hanno sempre svolto un ruolo essenziale
nei processi di trasformazione sociale e in Turchia
le élites culturali hanno una grande tradizione.
Scrittori, poeti, artisti, giornalisti e anche comici,
con la satira e l’umorismo, hanno contributo moltissimo
al progresso della vita sociale. Allo stesso tempo però,
la tradizione culturale turca è fatta di “Padri
Letterati”, tutta al maschile. Gli scrittori,
i maschi, sono rispettati grazie alla loro letteratura,
ai loro libri, alle loro idee, al loro sesso e alla
loro età. È molto difficile, invece, per
una donna vivere della propria scrittura nella società
turca dove sesso ed età sono criteri essenziali
di valutazione e sono misure del rispetto. Solo da anziane
le donne possono essere davvero, pienamente, rispettate
in Turchia.
Ma tu sei una giovane donna scrittrice, affermata e
nota. Sei un’eccezione, oppure andare negli Stati
Uniti ti ha aiutato a trovare una tua dimensione professionale
e culturale?
La società turca è dominata dai maschi.
I nostri ambienti culturali, visti da un occhio esterno,
potrebbero sembrare molto moderni e occidentalizzati,
ma se si arriva a guardare i rapporti tra i sessi e
la sessualità, si vede quanto sia davvero difficile
cambiare la mentalità turca. Da una donna ci
si aspetta sempre che sia meno colta, meno intellettualmente
attiva degli uomini. Quando si invecchia, poi, diventa
semplice per una scrittrice essere attiva, produttiva,
perché il suo attivismo intellettuale non turba
la mentalità delle persone, non urta gli stereotipi
culturali che raffigurano la donna turca. Si possono
frequentare i circoli più progressisti, i più
fini intellettuali, ma la Turchia rimane per il momento
una società di vecchio stampo in cui gli anziani
sono rispettati, gli uomini sono rispettati ma le donne
giovani non lo sono. Finché sei giovane e donna
devi lottare il doppio per far sentire la tua voce.
E la tua personale esperienza come si è
evoluta? Cosa ha significato andare negli Usa?
Ho scritto sei romanzi, i primi quattro in turco mentre
vivevo in Turchia poi sono andata negli Stati Uniti
dove ho iniziato a scrivere e a pubblicare i miei libri
in inglese. C’erano persone in Turchia arrabbiate
con me perché pensavano che dagli Usa avrei abbandonato
il mio paese e interpretavano la mia partenza come una
specie di tradimento culturale. Questo è un riflesso
nazionalistico per il quale i turchi tendono a pensare
in modo manicheo: o sei uno di loro o non lo sei. Io
invece credo che si possa essere multiculturali, parlare
e scrivere in diverse lingue e vivere una vita a più
dimensioni, a profondo contatto con realtà diverse.
Per questo continuerò a scrivere sia in turco
che in inglese.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|