Il peso fatale
di uno scarto di lettere.
Il caso è capace di produrre strani accostamenti
involontariamente ironici e beffardi; di tale natura
si deve considerare la circostanza che in Francia, a
pochi anni di distanza l’uno dall’altro
(1832-1840), nascessero due grandi artisti separati,
all’anagrafe, dallo scarto di una sola vocale:
Edouard Manet contro Claude Monet. Il bello è
che quel minimo scarto cronologico, abbondantemente
compensato dall’unità dell’ambiente
in cui videro la luce, la Parigi sulfurea di quel momento
storico, saldamente investita del ruolo di capitale
culturale d’Europa, li condannò a intrecciare
di frequente le loro vicende, tanto che i poveri osservatori
esterni, se solo un po’ distratti o non del tutto
competenti, li scambiarono in tante occasioni l’uno
per l’altro, con grande disappunto reciproco,
dato che in realtà seguivano, ciascuno, strade
tra loro assai diverse, nonostante qualche appariscente
tratto in comune.
E anche la loro importanza storica, enorme in entrambi
i casi, ha pesato in misura assai diversa sui piatti
della bilancia, non di rado a favore del più
giovane dei due, Monet, che si è trovato a imboccare
una pista unilaterale, percorrendola fino in fondo,
erigendosi a suo massimo campione, ma anche con ciò
entrando in una specie di tunnel senza uscita, di vero
e proprio cul-de-sac. Però l’opinione
pubblica ama i messaggi forti e chiari, perentori e
unilaterali, e di tale natura è senza dubbio
quello che ci è pervenuto da Monet, con cui l’asse
strategico che dal Realismo giunge al Naturalismo ed
esplode nell’Impressionismo si compie col massimo
di efficacia.
Ma è anche un asse che ferma la sua forza penetrativa
entro i termini cronologici dell’Ottocento, o
meglio, procede anche oltre, ma come una girandola,
come un fuoco artificiale che fugge fuori dalla cinta
prevista e splende di rinnovata forza, ma condannata
a spegnersi entro breve termine. Ovvero si può
ridire il tutto secondo la nota massima del motus
in fine velocior, la trottola impazzita dell’Impressionismo
monettiano ruota su se stessa, si attorce, brucia in
una incandescente fiammata, ma per concludere inesorabilmente
la sua parabola senza tramandi. In altre parole, l’astro
di Monet non porta fuori da una pur nobilissima tradizione
del mondo occidentale, quella che si apre quando Leonardo
inaugura la prospettiva aerea e scopre i valori atmosferici,
passando il testimone a tutti i grandi esponenti della
“maniera moderna”, nell’accezione
preziosa e puntuale del Vasari, a cominciare dal terzetto
superlativo rappresentato da Raffaello-Correggio-Tiziano.
Da lì si procede verso il grande Realismo-Naturalismo
europeo, su su per li rami, e finalmente l’asticciola
perviene, per il guizzo finale, per l’esplosione
ultima, a Monet quale postremo campione di una straordinaria
serie ascendente, nel momento in cui la fotografia è
già pronta ad assumersi la sua parte, e anzi
a stabilire un serrato “combattimento per un’immagine”,
come è stato detto.
Il confronto, vinto agli inizi dalla pittura, presto
si rivelerà impari, e gli artisti del pennello
saranno costretti a “lasciare” in favore
dei concorrenti forniti di camera, ed è questo,
come ben si sa, un modo elementare, perfino ingenuo,
per spiegare la ragione per cui l’arte, sul finire
dell’Ottocento, si trovò costretta a scegliere
un’”altra” strada. In quel preciso
momento si chiudeva la parabola della modernità
e si apriva quella della contemporaneità, per
quanto ambigui, in sé e per sé, siano
i due termini. Nasceva insomma, o ritornava sul quadrante
della storia, l’ora delle varie astrazioni e stilizzazioni
e scarnificazioni del dato visivo, tutti i valori di
cui Manet, a differenza di Monet, è validissimo
campione.
Ma l’opinione pubblica più sprovveduta
non si è ancora persuasa circa questo fatale
e necessario cambio di pedale, si ostina a invocare
nostalgicamente i “sani” valori della veduta
conforme, verosimile, fotografica, intinta di estro,
di umori, tutta dedita a un mondo di palpiti attimali:
che sono i valori erogati a piene mani dalle tele monettiane.
Se n’è ben accorto qualche astuto organizzatore
di mostre dei nostri giorni, pronto quindi a fornire
al palato facile di timidi e incerti vagheggiatori del
tempo passato tanto paesaggismo, tante Ninfee di Claude,
evitando invece con cura di soffermarsi sul difficile,
ingrato emulo beffardamente contrassegnato da quell’unica
vocale di scarto. Risultato: nel nostro Paese si apre
ogni anno una mostra volta a spremere una volta di più
il grato succo dei frutti monettiani, sontuosamente
accompagnati dai prodotti paralleli della corte dei
seguaci come Pissarro e Sisley, mentre si stenta a rendere
omaggio a chi, pur avvolto nelle stesse trame, tesseva
orditi a maglia più larga e razionale, con Manet
in prima fila, ma ricordando che è doveroso associargli
subito, in un ruolo per gran parte paritetico, l’altro
maestro francese Edgar Degas e l’apolide, giramondo
anglo-americano James McNeill Whistler. Ecco una terna
che pesa forte, lungo la rotta protesa verso i nostri
tempi contemporanei, su cui viceversa si indaga assai
poco, a livello espositivo. E’ dunque ampiamente
meritoria questa rassegna allestita al Vittoriano in
onore del primo, in ogni senso, di questi intrepidi
moschettieri, mostra che del resto fa il paio con una
precedente rassegna ugualmente utile dedicata a Degas.
Non conta stare a rilevare che dell’officina manettiana
mancano tanti pezzi forti, sui tipo del Déjeuner
sur l’herbe o dell’Olympia o del Balcon
o del Bar aux Folies Bergères: forse ormai
nessuna mostra, anche se tenuta nei musei più
titolati del mondo, potrà permettersi di far
apparire questi talloni aurei, nel sistema dei valori
contemporanei.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|