In memoria
di Riccardo Bonavita
Slavoj iek è un campione degli attraversamenti
e delle contaminazioni tra i saperi; sociologo, psicanalista
e filosofo che lavora all’Istituto di sociologia
di Lubiana ed è visiting professor presso
numerose università europee e americane. Globe
trotter della cultura che si divide tra Europa, Stati
Uniti e Argentina (dove risiede la moglie attuale),
le traduzioni italiane dei suoi libri si possono leggere
nelle edizioni della romana Meltemi (Benvenuti nel
deserto del reale e L’epidemia dell’immaginario)
e dalla milanese Cortina (Il godimento come fattore
politico e il mastodontico Il soggetto scabroso. Trattato
di ontologia politica).
Classe 1949, iek è autore prolifico
e immaginifico, conoscitore come pochi della cultura
pop dei nostri anni (da X-files ai film di David
Lynch), capace di mescolare lacanismo e recupero
di Lenin, iek sa essere brillante e continuamente
spiazzante rispetto ai cliché “perché
– dice – riformulare sempre le domande rappresenta
il vero compito della filosofia, soprattutto oggi”
. Soprattutto, sorprendente, ecco l’aggettivo
giusto, come dimostra in questa intervista, tutta incentrata
sulla politica, raccolta presso il Collegio della modenese
Fondazione San Carlo dove lo abbiamo incontrato in occasione
dell’ultima edizione del Festivalfilosofia di
Modena.
Prof. iek, lei ricorda spesso
che il compito della filosofia e dell’attività
intellettuale è, specialmente nell’epoca
attuale, quello di provare a pensare in modo diverso
da quanto prescrivono l’ordine dominante e lo
stato delle cose. Quale contributo può dare l’Europa
alla prospettiva di un pianeta differente da quello
egemonizzato dal “Nuovo ordine americano”?
Io credo molto all’Europa e alle sue potenzialità
future, e so molto chiaramente che farei volentieri
a meno di vivere in un mondo nel quale esistono solamente
due modelli: quello americano e quello cinese, ovvero
due paradigmi nei quali il capitalismo (neoliberista
oppure fuoriuscito dalla lunga transizione in corso
nel “pianeta Cina”) prevale sulla democrazia,
schiacciandola. Penso che la definizione di democrazia
cambierà radicalmente rispetto a quella liberal-procedurale
a cui l’Occidente è abituato, anche se
non siamo in grado di vaticinare in quale direzione
andrà (studiare la filosofia non equivale a disporre
di una sfera di cristallo; significa, molto più
propriamente, cercare di porre le domande secondo modalità
di volta in volta differenti, o più precise,
se preferisce).
Ma, di tanto in tanto, mi pare di scorgere dei segni
positivi. Per esempio, il referendum in Francia che
ha bocciato la costituzione non corrisponde affatto,
almeno nella sua “anima” prevalente, a un
rigurgito xenofobo o a un riflesso nazionalista e revanscista,
come si sono affrettati a descriverlo i liberali e i
partigiani di questa Unione tecnocratica. Anch’io
avrei votato, senza esitazioni, Non. Solamente
dire di no alla bozza preconfezionata del trattato costituzionale
(preparato da lobby economiche e burocrazie comunitarie
alla ricerca di una mera ratifica popolare alla loro
“minestra pronta”) avrebbe, infatti, tenuta
aperta la possibilità di una scelta autentica
e alternativa. È stato un tentativo di ribellarsi
a quella che il mio amico Jacques Rancière chiama
la post-politics, la versione odierna (e la
negazione) della politica, che cessa di essere decisione
radicale – come dovrebbe accadere – per
trasformarsi in atto razionale, pragmatico, al servizio
degli interessi dei più forti economicamente.
Del resto, le pare forse casuale che la parola stessa,
politics, abbia finito, in questo mondo dominato dalla
lingua inglese, per venire sostituita da espressioni
come government o governance piuttosto
che administration?
In Europa abbiamo bisogno di un dibattito vero e profondo.
In una parola, ci serve una riappropriazione da sinistra
del tema Europa. E, quindi, pur non credendo nel valore
automaticamente salvifico dei movimenti, il dibattito
sulla guerra in Iraq, suscitato dalle mobilitazioni
pacifiste, ha avuto di certo un ruolo prezioso e fondamentale.
Cosa pensa del multiculturalismo –
nelle sue diverse versioni – oggi così
al centro del dibattito?
Non amo per niente le retoriche, di qualunque natura
e colore. E, dunque, nutro molti dubbi nei confronti
del multiculturalismo che ci vuole tutti buoni e bravi,
e pronti a coabitare pacificamente. O del politically
correct, nuovo “giocattolo teorico”
alla moda della sinistra, che si è semplicemente
sostituito ad alcuni antichi e inservibili armamentari
ideologici (per molti versi, una forma di Left conservatism,
come rimarcato dalla specialista di Women’s
studies Wendy Brown).
Ad esempio, posso anche capire le motivazioni sostenute
dai fautori dell’ingresso della Turchia nell’Unione
europea, ma la vicenda e le ripercussioni sono molto
più complesse di quello che vogliono farci credere,
soprattutto se il tutto viene ammantato con la semplicistica
e buonistica retorica della convivenza tra le culture
o con l’idea della democrazia come “istituzioni
liberali + rispetto (apparente) dei diritti umani”,
sorta di passepartout per divenire nuovi membri.
Comprendo, però, molto bene anche la resistenza
all’allargamento della Ue (che non può
e non deve essere solo economia) a un paese innegabilmente
differente da quelli che la compongono. Per questo,
inviterei chi decide alla cautela, e a promuovere, veramente,
la discussione tra l’opinione pubblica i popoli
del continente. Oriana Fallaci è un sintomo di
un problema che va preso molto sul serio, così
come va fatta estrema attenzione al populismo di destra
montante per capirne le ragioni del successo presso
il popolo, evitando di rifugiarsi in una consolatoria
e liquidatoria (oltre che molto snob) alzata di spalle.
Su queste tematiche, infatti le destre dilagano e vincono
elezioni (come accaduto in Slovenia e in altri paesi
dell’Europa dell’est).
Ciò che mi preoccupa del multiculturalismo da
un punto di vista teoretico è il suo “superamento”
del conflitto e dell’antagonismo, che invece rimane
un fondamento della politica, e della nostra stessa
esistenza (come la psicanalisi evidenzia). Credo che
si debba tornare a forme di radicalismo antagonista,
senza le quali la sinistra rinuncia a fare politica
e alla sua vocazione alla trasformazione dell’esistente.
Si ricorda, come nelle fiabe, “c’era una
volta la lotta di classe”?
Nella sua rivisitazione critica – molto
franca e combattiva – delle forme più recenti
assunte dalla sinistra (a partire dagli anni Sessanta),
lei non risparmia neppure certo femminismo…
Già. Non sono affatto convinto, come si sente
spesso dire dalle teoriche dei gender studies,
che la “soggettività” maschile sia
tout court fallocentrica, imperialista, guerrafondaia,
a differenza di quella femminile necessariamente ecologica,
armoniosa, olistica, pacifista e cooperativa. Se il
cogito cartesiano della razionalità pura possiede
un sesso, direi che è femminile… Io ho
profonda paura di un falso femminismo che descrive il
femminile come “ontologicamente” bello e
buono, a fronte di un maschile selvaggio, bestiale e
oppressore.
Il femminismo Usa, poi, risulta, sotto un profilo sociologico,
tipicamente upper class; trovo, pertanto, inaccettabile
e assai poco elegante la critica spietata e il dileggio
mostrati da quelle che sono, di fatto, null’altro
che delle signore bene radical nei confronti delle donne
che, a loro giudizio, si farebbero opprimere così,
senza la minima consapevolezza. Lo trovo un atteggiamento
di completa ignoranza dei contesti socio-culturali in
cui vivono le altre donne.
Cosa pensa della situazione della sinistra occidentale
odierna?
Una premessa. Naturalmente, non mi piacciono, per niente,
le terze vie, null’altro che la “versione
sinistra moderata” della vittoria del principio
di amministrazione e di gestione sulla politica –
anche perché non ho ancora visto comparire e
sperimentare la seconda via, nel frattempo… Insomma,
null’altro che un tentativo di offrire un “capitalismo
globale dal volto umano”; ditemi voi cosa c’entra,
dunque, con la sinistra questa proposta politica!
E, tuttavia, bisogna operare un distinguo. Non sono
neppure d’accordo, infatti, con l’atteggiamento
sterilmente snobistico e moralistico di certa sinistra
radicale – davvero una old left –
che non riesce ad andare oltre la mera – e spesso
personalistica – critica della figura di Blair.
Zapatero, invocato come salvatore e nuova icona dalla
sinistra più intransigente, ha sicuramente messo
in campo una politica estera più condivisibile
di quella del governo inglese New Labour, ma in politica
interna e in quella socio-economica non vedo alcuna
differenza rispetto al blairismo. Dov’è
la proposta concreta? Che fare? Anche la popolarissima
teoria della moltitudine di Toni Negri e Michael Hardt
non si discosta, di fatto, dalla prospettiva di una
lista di richieste effettuate nei confronti dell’”Imperatore”
e, in questo, pecca un po’ di mancanza di radicalità.
D’altra parte, come nota il mio amico Ernesto
Laclau (che, a volte, risulta anche eccessivamente critico
nei suoi confronti), il successo di Negri negli Usa,
si potrebbe spiegare anche con il desiderio delle elite
accademiche statunitensi di essere radicali, senza rinunciare
ai confort del sistema; agli atti pratici,
difatti, c’è assai poco di rivoluzionario
nell’attuale teoria negriana che finisce per non
disturbare granché il manovratore.
Per quanto possa apparire sgradevole, Bush e i neocons
che lo circondano fanno politica – naturalmente
inaccettabile. La sinistra, sfortunatamente e purtroppo,
no. Si apprende, così, molto di più da
alcuni conservatori intelligenti (da Daniell Bell che
ha intuito il nuovo corso del mondo contemporaneo al
Francis Fukuyama del libro Trust) che dai liberal
spaesati o dai riformisti tecnocratici.
Dal “Che fare?” passiamo, allora,
alla sua riscoperta di Lenin; in cosa consiste?
Io propongo un recupero del leader del bolscevismo
in un’accezione, per così dire, kierkegaardiana,
fondata sulla scelta. Ciò che mi affascina di
lui è il suo essere partito da zero nel durissimo
e apertissimo orizzonte storico del 1914; il suo averci
provato davvero, la sua consapevolezza del gesto e dell’atto
quasi disperato (che emerge molto chiaramente dai suoi
tanti scambi epistolari), così distante e antitetico
rispetto al determinismo di tutta una certa tradizione
comunista. Il capo bolscevico non aveva paura di farcela
e di riuscire a vincere, in un contesto nel quale, da
sempre, i marxisti sono i migliori critici e i primi,
quasi compiaciuti, osservatori e analisti del fallimento
delle rivoluzioni; pensi a Trotzki, ma anche allo stesso
Marx, i cui scritti più riusciti sono quelli
sul ’48 e la disfatta dei moti rivoluzionari.
Ecco, Lenin è tutt’altro rispetto a questa
consuetudine, e alla degenerazione staliniana. Potrei
persino dire che fu molto “postmoderno”,
nel senso positivo che attribuisco a una certa accezione
del termine.
Al riguardo, da anni assistiamo al fiorire di tutte
le teorie del post (postmoderno, postindustrialismo
e così via), che in generale non mi convincono,
né piacciono granché. Il postmoderno può
fornire una chiave interpretativa di qualche utilità
se lo si intende come la fase e la realtà attuale
del tardo capitalismo, mentre mi trovo completamente
in disaccordo con chi ne fa un’ideologia e il
paradigma di una supposta trasformazione epocale che
staremmo vivendo. Penso, per fare un esempio, alla visione
– sbagliata – che ne ha, per l’appunto,
certa teoria femminista: l’età postmoderna
non porta alcuna emancipazione, né alcuna liberazione
della cosiddetta soggettività. I meccanismi di
dominio e di controllo sono ben saldi; hanno assunto,
ecco il punto, altre forme. Allora, di fronte, a quel
florilegio di posizioni post, io propongo di ritornare
decisamente a Hegel. Tra lo Stato e la società
civile, poi, io mi colloco solitamente dalla parte dello
Stato, non capendo affatto la retorica pro-civil
society che ha finito per dilagare a sinistra;
tanto è vero, infatti, che la retorica antistatualistica
è divenuta, da tempo, un cavallo di battaglia
delle destre. Ha mai notato – tanto per portare
un esempio – che i survivalist dell’America
profonda e le vecchie Black Panthers sono accomunati
dalla medesima teoria cospiratoria (col relativo linguaggio)
che vede la burocrazia e gli apparati dello Stato annidati
ovunque e responsabili di ogni male?
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