Un imponente
muro di cemento nasconde la facciata del museo e protegge
la corte sottostante, sorvegliata da telecamere a circuito
chiuso e accessibile solo da un gabbiotto con i vetri
antiproiettile e gli strumenti di controllo di un aeroporto.
È questo il primo impatto con il memoriale della
Shoah, situato nella parte più tranquilla del
Marais verso la Senna, inaugurato nel ’56, rinnovato
nel ’92 e da quest’anno aperto al pubblico.
È attraverso la rete di dispositivi di sicurezza
– indici sempre più significativi dell’attuale
situazione politica – che prendiamo coscienza
del luogo che ci apprestiamo a visitare.
Il muro con i nomi degli ebrei deportati dalla Francia
conta circa 76.000 persone di cui 11.000 bambini –
2.500 i sopravvissuti, anche se la lista è tuttora
in aggiornamento. I nomi sono incisi sulla pietra, ogni
rigo ne contiene tra i cinque e gli otto, un calcolo
che dà le vertigini: percorrendo il corridoio,
le righe ci avvolgono dalla testa ai piedi, confondono
la vista e rendono precario il nostro equilibrio. Sulla
corte spunta la cupola in bronzo della cripta, su cui
sono impressi i nomi dei campi di concentramento e al
cui interno sono conservate le ceneri delle vittime
del ghetto di Varsavia. Consacrata ai sei milioni di
ebrei morti senza sepoltura, è costituita solo
da una stella di David in marmo e da una luce perpetua
al centro. Cenere, fiamma, nomi incisi sulla pietra:
la cripta è un luogo fatto di pochi elementi,
in cui la dimensione simbolica soppianta quella visiva.
Nella sala attigua sono conservate le schede nominative
degli ebrei, riempite dalla prefettura di polizia sotto
Vichy, tra il ’41 e il ’44. Gli schedari,
in ordine alfabetico, danno un’idea tangibile
dell’indefettibile apparato amministrativo che
ha reso possibile la ghettizzazione e la deportazione
del popolo ebraico nonché una sfaccettatura dell’antisemitismo
francese, che faceva dell’ebreo lo straniero inassimilabile,
secondo un darwinismo razziale, al popolo francese.
Il governo di Vichy promulgò del resto di sua
iniziativa leggi contro gli ebrei, dall’interdizione
dalla funzione pubblica all’istituzione dei campi
di Drancy, Pithiviers e Beauve la Rolande.
L’allestimento del museo cerca di rendere il più
interattivo e il più eterogeneo possibile il
materiale documentario: proiezioni video e album di
famiglia, ritagli di giornale e affiches d’epoca,
lettere manoscritte e videointerviste ai sopravvissuti,
mentre una cronologia dei fatti cadenza il percorso.
Un approccio che, offrendo simultaneamente una messe
di informazioni e stimoli, di date e numeri, di immagini
e voci, tiene all’erta il visitatore, correndo
a volte il rischio di disorientarlo. Del resto è
così che si costituisce la storia, la cui istanza
narrativa non è altro che il risultato di una
selezione arbitraria e di un montaggio di frammenti.
A ritenere la nostra attenzione è la rappresentazione
della sinagoga come una donna velata, le foto dell’incontro
tra Hitler e Petain nel ’40 o i segni distintivi
gialli – colore del demone e della follia –
che gli ebrei dovevano portare sul petto. Ancora, le
foto dei cervelli in scatola ordinati sugli scaffali,
risultato del programma di eutanasia T4, oggi conservati
a Vienna; le scatole di gas Zyklon B proveniente da
Birkenau, dove in 24ore – quando l’industria
della morte lavorava a tempo pieno – si potevano
eliminare 3000 persone con il gas e incenerirne altre
4800. O ancora la voce dell’ex-SS Suchomel, che
restò in prigione solo quattro anni, intervistato
da Claude Lanzmann a Braunau am Inn, villa natale di
Hitler, mentre intona un marziale inno al lavoro e alla
Germania, che i detenuti erano costretti a cantare e
che, confessa, nessun è sopravvissuto per serbarne
memoria.
Ma a restar impresse sono soprattutto le foto insignificanti,
emotivamente forti in quanto incapaci di testimoniare
il reale, come quella della facciata della villa sul
lago di Wannesee, vicino Berlino. Una foto che non sfigurerebbe
in un album di famiglia se non fosse che lì,
nel ’41, fu discusso e approvato lo sterminio
di massa degli ebrei in Europa – la cosiddetta
“soluzione finale”. Dei quindici alti funzionari
delle SS che presero parte alla conferenza, vi sono
dei ritratti fotografici da cui non traspira alcuna
emozione, ed è proprio questo mutismo a gelare
i nostri tentativi di comprensione. Destabilizza vedere
come sotto i nostri occhi non ci siano altro che i cliché
di un gruppo di commilitoni con la divisa in ordine
e lo sguardo un po’ annoiato. Non si tratta certo
solo del male come mysterium iniquitatis, ricordato
di recente da Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia,
ma anche dell’incapacità della storia di
dare ragione.
La missione segreta dell’operazione speciale
1005 dell’SS Blobel voleva cancellare le tracce
delle esecuzioni di massa, affinché il mondo
non venisse mai a conoscenza degli orrori perpetrati
in quei campi recintati che sorgevano accanto a ridenti
cittadine con i fiori sul terrazzo, come a Dachau. Le
camere a gas furono distrutte e i corpi delle vittime
riesumati e bruciati – perché non ne restasse
che cenere – come avvenne nel campo di Sobibor
nel ’43, dove al suo posto fu impiantata una foresta.
Molti si illudevano che i sopravvissuti non sarebbero
stati mai creduti: è per questo che i memoriali
non sono solo ricettacoli della memoria di un popolo,
ma operosi e insostituibili luoghi di scrittura della
storia.
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