286 - 14.10.05


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Il museo degli orrori

Riccardo Venturi



Un imponente muro di cemento nasconde la facciata del museo e protegge la corte sottostante, sorvegliata da telecamere a circuito chiuso e accessibile solo da un gabbiotto con i vetri antiproiettile e gli strumenti di controllo di un aeroporto. È questo il primo impatto con il memoriale della Shoah, situato nella parte più tranquilla del Marais verso la Senna, inaugurato nel ’56, rinnovato nel ’92 e da quest’anno aperto al pubblico. È attraverso la rete di dispositivi di sicurezza – indici sempre più significativi dell’attuale situazione politica – che prendiamo coscienza del luogo che ci apprestiamo a visitare.

Il muro con i nomi degli ebrei deportati dalla Francia conta circa 76.000 persone di cui 11.000 bambini – 2.500 i sopravvissuti, anche se la lista è tuttora in aggiornamento. I nomi sono incisi sulla pietra, ogni rigo ne contiene tra i cinque e gli otto, un calcolo che dà le vertigini: percorrendo il corridoio, le righe ci avvolgono dalla testa ai piedi, confondono la vista e rendono precario il nostro equilibrio. Sulla corte spunta la cupola in bronzo della cripta, su cui sono impressi i nomi dei campi di concentramento e al cui interno sono conservate le ceneri delle vittime del ghetto di Varsavia. Consacrata ai sei milioni di ebrei morti senza sepoltura, è costituita solo da una stella di David in marmo e da una luce perpetua al centro. Cenere, fiamma, nomi incisi sulla pietra: la cripta è un luogo fatto di pochi elementi, in cui la dimensione simbolica soppianta quella visiva.

Nella sala attigua sono conservate le schede nominative degli ebrei, riempite dalla prefettura di polizia sotto Vichy, tra il ’41 e il ’44. Gli schedari, in ordine alfabetico, danno un’idea tangibile dell’indefettibile apparato amministrativo che ha reso possibile la ghettizzazione e la deportazione del popolo ebraico nonché una sfaccettatura dell’antisemitismo francese, che faceva dell’ebreo lo straniero inassimilabile, secondo un darwinismo razziale, al popolo francese. Il governo di Vichy promulgò del resto di sua iniziativa leggi contro gli ebrei, dall’interdizione dalla funzione pubblica all’istituzione dei campi di Drancy, Pithiviers e Beauve la Rolande.

L’allestimento del museo cerca di rendere il più interattivo e il più eterogeneo possibile il materiale documentario: proiezioni video e album di famiglia, ritagli di giornale e affiches d’epoca, lettere manoscritte e videointerviste ai sopravvissuti, mentre una cronologia dei fatti cadenza il percorso. Un approccio che, offrendo simultaneamente una messe di informazioni e stimoli, di date e numeri, di immagini e voci, tiene all’erta il visitatore, correndo a volte il rischio di disorientarlo. Del resto è così che si costituisce la storia, la cui istanza narrativa non è altro che il risultato di una selezione arbitraria e di un montaggio di frammenti.

A ritenere la nostra attenzione è la rappresentazione della sinagoga come una donna velata, le foto dell’incontro tra Hitler e Petain nel ’40 o i segni distintivi gialli – colore del demone e della follia – che gli ebrei dovevano portare sul petto. Ancora, le foto dei cervelli in scatola ordinati sugli scaffali, risultato del programma di eutanasia T4, oggi conservati a Vienna; le scatole di gas Zyklon B proveniente da Birkenau, dove in 24ore – quando l’industria della morte lavorava a tempo pieno – si potevano eliminare 3000 persone con il gas e incenerirne altre 4800. O ancora la voce dell’ex-SS Suchomel, che restò in prigione solo quattro anni, intervistato da Claude Lanzmann a Braunau am Inn, villa natale di Hitler, mentre intona un marziale inno al lavoro e alla Germania, che i detenuti erano costretti a cantare e che, confessa, nessun è sopravvissuto per serbarne memoria.

Ma a restar impresse sono soprattutto le foto insignificanti, emotivamente forti in quanto incapaci di testimoniare il reale, come quella della facciata della villa sul lago di Wannesee, vicino Berlino. Una foto che non sfigurerebbe in un album di famiglia se non fosse che lì, nel ’41, fu discusso e approvato lo sterminio di massa degli ebrei in Europa – la cosiddetta “soluzione finale”. Dei quindici alti funzionari delle SS che presero parte alla conferenza, vi sono dei ritratti fotografici da cui non traspira alcuna emozione, ed è proprio questo mutismo a gelare i nostri tentativi di comprensione. Destabilizza vedere come sotto i nostri occhi non ci siano altro che i cliché di un gruppo di commilitoni con la divisa in ordine e lo sguardo un po’ annoiato. Non si tratta certo solo del male come mysterium iniquitatis, ricordato di recente da Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia, ma anche dell’incapacità della storia di dare ragione.

La missione segreta dell’operazione speciale 1005 dell’SS Blobel voleva cancellare le tracce delle esecuzioni di massa, affinché il mondo non venisse mai a conoscenza degli orrori perpetrati in quei campi recintati che sorgevano accanto a ridenti cittadine con i fiori sul terrazzo, come a Dachau. Le camere a gas furono distrutte e i corpi delle vittime riesumati e bruciati – perché non ne restasse che cenere – come avvenne nel campo di Sobibor nel ’43, dove al suo posto fu impiantata una foresta. Molti si illudevano che i sopravvissuti non sarebbero stati mai creduti: è per questo che i memoriali non sono solo ricettacoli della memoria di un popolo, ma operosi e insostituibili luoghi di scrittura della storia.

 

 

 

 

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