Questo
articolo è tratto dal numero 91 (settembre –
ottobre 2005) di Reset,
interamente dedicato al cinema italiano.
Perché il cinema italiano non è industria?
Perché manca quel prodotto «medio»
capace di attrarre pubblico e critica? Come dovrebbe
intervenire lo Stato? Quanto influisce il duopolio produttivo
Rai-Medusa?
Queste le domande a cui Reset ha cercato di rispondere
chiamando a discutere critici, registi, sceneggiatori
e scrittori, produttori, attori, attrici, politici.
Severino Salvemini è professore ordinario di
Organizzazione aziendale all’Università
Bocconi di Milano, dove è direttore del Corso
di laurea in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione.
Già presente nel board di Cinecittà Holding,
dell’Istituto Luce, del Teatro alla Scala e della
Biennale di Venezia, è oggi presidente di Mikado
Film. Per «Reset» ha fatto una diagnosi
chiara dei problemi del cinema italiano, sullo sfondo
dei modelli produttivi europei e americani.
Prima di passare al quadro europeo, le chiederei
subito perché in Italia manca quel prodotto medio
competitivo capace di attrarre pubblico e capitali e
perché il cinema non ha fattezze industriali.
Cercherò di fare prima una diagnosi e poi darò
una terapia. La tesi che il cinema non è un’industria
andrebbe contestualizzata nel periodo: il fatto che
l’industria cinematografica sia un po’ primordiale
e elementare potrebbe essere vero fino alla fine degli
anni Novanta. All’inizio del 2000 sono state messe,
a mio parere, alcune basi per rendere il cinema più
industriale. Ora siamo in un momento di transizione
verso uno stadio che sicuramente è più
industriale di prima, intendendo per “industriale”
un cinema che è più patrimonializzato
e che passa da singoli progetti episodici a progetti
editoriali di più lungo termine. Per “più
industrializzato” intendo anche un cinema dove
la catena di valore, cioè l’integrazione
verticale del settore, è gestita con maggiore
pianificazione da attori concatenati o unici (come nel
caso di alcuni protagonisti che gestiscono dalla produzione
fino alla distribuzione) e addirittura dalla televisione.
Contesterei quindi l’ipotesi che il cinema italiano
non sia un’industria, quanto meno in termini di
tendenza.
Lei ha parlato di basi industriali che sono
state poste, e ha fatto la data del 2000.
Sì, ma è indicativa, non c’è
un evento particolare che segna lo stacco fra il decennio
degli anni Novanta e il 2000: direi che negli ultimi
cinque anni la tendenza è verso una maggiore
industrializzazione. Non è un caso che in questo
periodo gli operatori che sono meno robusti hanno avuto
più problemi e in parte sono spariti.
Chi si è identificato, a suo avviso,
come leader di questo trend?
I due protagonisti più televisivi, Medusa-Mediaset
e Rai Cinema, sono più industrializzati rispetto
al passato (anche se non è detto che il fatto
di avere dei protagonisti che sono più robusti
corrisponda al bene del settore). Se si aggiungono un
protagonista italiano come De Laurentiis, alcune major
statunitensi per la parte distributiva e di esercizio,
le catene dei multiplex, il fenomeno, apparso
intorno all’inizio del 2000, di fondi finanziari
o soggetti che hanno investito in protagonisti di taglia
media come Igol, Mikado, Colorado o Fandango, diventa
visibile un’attenzione da parte del mondo della
finanza e dell’industria tesa a rafforzare la
solidità del cinema, per renderlo più
moderno e più robusto sotto il profilo economico.
Si tratta, secondo me, di una tendenza irreversibile,
dalla quale non si può tornare indietro.
Lei quindi vede segni di pluralismo produttivo.
No, io sostengo che c’è una tendenza che
sta rendendo il cinema italiano più industriale,
rafforzandolo patrimonialmente e facendo diventare i
progetti più robusti e più a lungo termine.
Il passato invece era contraddistinto, soprattutto nella
fase della produzione, da soggetti che giocavano con
strategie di piccolissimo cabotaggio, senza patrimoni
e costretti ad appoggiarsi ad altri sostegni. Ad esempio,
c’erano dei produttori esecutivi che costruivano
progetti cinematografici senza denaro, finanziandosi
in parte con lo Stato, in parte con la televisione,
che avevano un ruolo molto discontinuo e saltuario.
Adesso questi produttori si sono ridotti perché
la logica corrente è che l’industria cinematografica
è molto rischiosa dal punto di vista economico
e quindi non può essere fatta da imprenditori
improvvisati.
Che poi, alcune volte fuggivano con la cassa…
O erano imprenditori che per opportunismo di breve
termine erano disponibili a lavorare in nero, ad avere
relazioni di fornitura non sempre limpide. Effettivamente,
l’industria cinematografica dagli anni Ottanta
fino al 2000 si potrebbe definire un po’ un’Armata
Brancaleone. Adesso invece c’è una selezione
di operatori, che pure è vista con molta diffidenza
dagli altri del settore. I “vecchi” operatori
dicono che il cinema italiano privilegia solo i grandi
e chi ha denaro e patrimonio, che oggi il cinema è
un’industria dove il giovane che ha talento ma
non ha finanza non riesce a trovare spazio: io dico
invece che queste sono le classiche situazioni di crisi
di un’industria che diventa più matura
e adulta. Un’anomalia da ricordare sempre è
il fatto che l’imprenditore cinematografico, in
particolare il produttore che non ha barriere di economia
di scala all’ingresso, era fino a poco tempo fa
un personaggio che, vendendo anticipatamente i diritti
del suo prodotto, riusciva ad essere imprenditore senza
tirare fuori neanche una lira, cosa molto curiosa in
un settore economico. Anche rispetto ad altri settori
culturali: teatro, spettacolo, editoria e discografia
musicale, che non conoscono questo fenomeno.
Una tendenza positiva, allora.
La giudico sana e per schierarmi subito nel dibattito
ideologico del settore credo che l’ultima legge
fatta, legge che prende il nome di Urbani ma che aveva
i semi contenutistici nel ministero precedente della
Melandri e di Veltroni, metta dei paletti giusti per
un’industria cinematografica sana e moderna.
Ovviamente è una legge severa e quindi deve essere
gestita in una fase di transizione. Non possiamo infatti
introdurla in un far-west e poi sperare che tutto funzioni,
perché il far-west deve essere accompagnato fino
a farlo diventare qualcosa di più adulto e di
più maturo. Forse questa fase di transizione
non è stata colmata così bene, per cui
il passaggio è stato un po’ brusco e per
questo il settore ha avuto un anno di arresto e di difficoltà.
Veniamo ai confronti con l’estero. Può
contestualizzare la situazione del cinema italiano nel
quadro europeo?
Direi che il momento attuale è molto difficile,
ma non è dovuto al fatto che il cinema sia o
meno industria. Ci sono cioè dei problemi contingenti
e specifici. Inoltre, è diverso parlare di industria
cinematografica per la produzione, la distribuzione
e l’esercizio.
Quando si parla di settore in crisi si dovrebbe distinguere
fra queste tre fasi. Per esempio, all’inizio degli
anni Novanta l’esercizio ha cominciato un’operazione
di ristrutturazione che si è completata abbastanza
bene, tanto che adesso siamo addirittura in una fase
di selezione delle strutture delle sale cinematografiche,
perché ne sono state fatte troppe, quasi una
situazione di over-struttura rispetto al passato.
La distribuzione?
Anche la distribuzione è abbastanza moderna,
mentre forse il settore della produzione è quello
che richiede una maggiore trasformazione. In questo
momento, il settore è in difficoltà perché
è venuta a mancare una serie di introiti che
erano quelli su cui il cinema era abituato a contare
per fare dei prodotti.
Gli introiti non sono solo quelli provenienti dalla
sala cinematografica e dai box office, ma anche
dai diritti che vengono ceduti alle televisioni generaliste
e pay tv, dai diritti ceduti per l’home
video, per i dvd, dai diritti ceduti all’estero
e poi da tutti gli altri introiti secondari come sfruttamento
internet o telefonico.
Quali sono i motivi della diminuzione degli
introiti?
Improvvisamente, da due anni a questa parte, l’aiuto
televisivo è crollato perché la tv ha
deciso di programmare un numero decisamente inferiore
di prodotti cinematografici in palinsesto (soprattutto
Mediaset e Rai). In prime-time si trovano molti
meno film e di fatto sono scomparsi anche in seconda
serata: gli introiti che arrivavano dall’acquisto
delle televisioni, chiamati “diritti d’antenna”,
molto importanti per la produzione cinematografica italiana,
di fatto sono crollati a meno della metà. La
pay tv, che per un certo periodo è stato
un aiuto finanziario importante per il cinema, da quando
Stream e Tele+ si sono fusi in Sky ha aumentato fortemente
il carattere negoziale nei confronti del cinema. Oggi
quindi, in parte per il palinsesto di Sky che è
molto povero e ripetitivo, in parte per una posizione
negoziale molto forte nei confronti del cinema, gli
introiti che arrivano dalla pay tv sono limitatissimi.
Il cinema, che prima godeva di almeno il 30-35% di diritti
di antenna, oggi ha avuto una diminuzione dal 20 al
40%. Il 20% perso è stato quindi cercato in altri
canali: fortunatamente, c’è stato un momento
di boom di dvd (che però è già
in flessione perché arrivato ad uno stadio di
maturità) e quindi rispetto al periodo precedente
il box office è tornato ad essere centrale.
E poi c’è il problema della (assente)
vendita all’estero.
Da sempre, l’Italia vende pochissimo prodotto
cinematografico sull’estero, a causa di un problema
gravissimo relativo alla scarsa capacità della
struttura e del sistema-paese di vendere il prodotto.
Il produttore quindi, abituato a costruire le sue avventure
cinematografiche sul prepagato, si è trovato
ad essere molto esposto al rischio e ha ridotto enormemente
la produzione perché anche i fondi di garanzia
dello Stato spesso non erano sufficienti per fare il
mestiere.
Questa situazione, già drammaticamente difficile,
è stata peggiorata negli ultimi mesi da alcuni
fenomeni di riduzione del consumo in sala (trend decrescente
nel box office con cadute del 30-40% nel mese
di maggio e giugno, rispetto al 2004). Questa diminuzione
è determinata sia dalla crisi economica ormai
stagnante (per cui le persone considerano il cinema
un intrattenimento troppo caro per il loro reddito spendibile),
sia dal fatto che la popolazione principale del cinema
(cioè la fascia compresa tra i 13 e i 25-26 anni)
ha orientato gran parte delle loro spese sul telefonino
(una fetta enorme del consumo spendibile viene erosa
dalle tessere prepagate). Un ultimo motivo del crollo
del consumo di cinema è da individuare, in particolare
per le classi più abbienti, nella fruizione domestica
del cinema, fatta di home video o di dvd. Gli
italiani vivono quindi una situazione di crisi del settore,
a causa del crollo dei diritti di antenna, mentre in
Europa la situazione congiunturale si ripercuote sul
cinema esattamente nello stesso modo in Spagna, Francia
e Germania. Meno in Inghilterra.
E allora, quali le differenze fra il cinema
italiano e quello europeo?
Non credo ci siano differenze particolari in termini
di prodotto. Una volta si diceva che il cinema italiano
era troppo domestico, perché troppo minimalista
(il cinema “due camere e cucina” come lo
definiva Maurizio Porro) e in quel periodo le pellicole
made in Italy erano effettivamente incomprensibili
e non gustabili da pubblici diversi rispetto al nostro.
Oggi questo non è più vero perché
ormai il cinema italiano di qualità e di autore
è molto simile al gusto europeo, francese, spagnolo
o tedesco. Grandi differenze non sono presenti neanche
nella distribuzione e nell’esercizio. Il problema
invece è che il nostro cinema da grandi incassi
è popolare, comico e “vernacolare”.
Questo prodotto è meno internazionale perché
relativo a una comicità un po’ crassa e
legata a personaggi che sono santificati solamente dalla
televisione italiana e quindi difficilmente esportabili.
Secondo lei, come si pone il cinema europeo
rispetto all’invasione del cinema americano?
Dipende molto dalle singole nazioni. Alcune hanno delle
quote di programmazione sia nelle sale cinematografiche
sia in televisione, come in Francia. Ci sono poi situazioni
opposte come in Germania dove, in assenza di quote,
il cinema Usa fa da padrone anche più di quanto
lo faccia da noi.
Non sono dell’idea che il cinema americano come
prodotto abbia delle caratteristiche diverse da quello
italiano o europeo. Forse il cinema americano riesce
ad intercettare più efficacemente i gusti medi
del pubblico; e sicuramente è promosso molto
meglio (negli Usa il marketing è nettamente superiore),
ha più risorse, uno star system diverso,
copioni che rappresentano best-seller: ma anche
i film americani hanno le loro difficoltà. Certo
è che se in Italia investiamo 50-100.000 euro
per la promozione è chiaro che i film non se
li vede nessuno.
Quali sono le misure concrete che secondo lei
potremmo adottare?
Vorrei anzitutto sfatare il mito della persecuzione
dell’autore. L’autore che si lamenta perché
il suo film è incompreso, perché è
stato smontato subito o il distributore non gliel’ha
accudito sufficientemente. E non credo che in questo
momento il problema sia la distribuzione. Innanzitutto
perché ci sono sale in eccesso, quindi il problema
non è di portare il film nella sala, anche se
è chiaro che il distributore di film (così
come quello musicale o editoriale) ha un suo investimento
comunicazionale da fare e un progetto editoriale da
portare avanti nel momento in cui prende un prodotto
e quindi diventa molto selettivo.
Ma qualcuno resta fuori?
Ci sono dei prodotti particolarmente giovani di neo-autori
o difficili in termini di contenuto che la casa di distribuzione
non accetta di distribuire, perché non sono convenienti
nella politica di portafoglio distributivo. In questo
caso o c’è qualcuno che interviene investendo
con sussidio, e questa è la funzione tipica dello
Stato, altrimenti i neo-autori o i film di difficile
contenuto non appariranno mai nelle sale cinematografiche.
Ma penso che questo sia logico, accade a tutti, cantanti,
musicisti e scrittori. Insomma, secondo me alla fine
gli autori bravi in sala ci vanno, e non c’è
censura preventiva. D’altro canto, far diventare
il cinema industriale vuol dire riuscire a conciliare
l’elemento di qualità editoriale con il
mercato, il che non vuol dire fare dei film blandamente
popolari abbassando il livello qualitativo per avere
un maggior numero di spettatori, ma fare film di alta
qualità che riescano ad intercettare un mercato
sufficiente a farli stare in piedi. E questo è
un po’ l’arte in parte del produttore e
in parte del distributore.
Che ruolo dovrebbe avere lo Stato?
Quello che in questo momento ha. Tutti i prodotti culturali,
fra i quali anche il cinema, devono essere sostenuti
dallo Stato. Da una parte nel settore istruzione: sostenendo
la scuola e quindi la formazione dei talenti. Che vuol
dire non solo registi ed attori, ma anche direttori
di fotografia, compositori delle colonne sonore, post-montatori
e così via.
Dall’altra, direi che è necessario un aiuto
alla produzione, alla distribuzione, e alle sale cinematografiche
perché si modernizzino di più (anche se
in realtà questo aiuto viene già fornito).
Ultimo aiuto dello Stato dovrebbe essere una maggiore
spinta dei prodotti italiani all’estero, cosa
che non viene assolutamente fatta.
Veniamo, nuovamente, alla tv.
In questo momento, nel settore cinematografico la presenza
giocata dalla televisione è assolutamente cruciale
e strategica: la tv ha ridotto l’interesse per
il cinema, perché ha aumentato l’interesse
per la fiction, sceneggiati e soap opera, prodotti dei
quali si può più facilmente prevedere
l’audience. Credo che lo Stato, e qui ci vorrebbe
proprio un recupero normativo, dovrebbe riobbligare
nuovamente le televisioni generaliste ad aumentare la
loro quota di produzione cinematografica o almeno a
ridurre quella delle fiction. Una volta nella legge
Mammì e poi in quella Maccanico era previsto
che le televisioni dovessero dare un aiuto particolare
alla produzione cinematografica, poi questa quota è
stata dribblata. Io credo che quest’aspetto debba
essere senz’altro rivisto, ripreso e riformulato.
Non ha senso infatti che l’industria televisiva
sia così disinteressata al cinema come lo è
in questo momento.
Secondo lei cosa dovremmo imparare nel settore
dall’Europa e dall’America?
Dalla Francia senz’altro il senso dello Stato:
la grandeur con cui trattano il tema cinematografico
è una grande lezione. In un recente seminario
a Roma, che ha messo a confronto la distribuzione all’estero
di Francia e Italia, sono arrivati cinquanta rappresentanti
ministeriali francesi: gli investimenti che si muovono
oltralpe per questo settore sono impressionanti. Dalla
Francia potremmo quindi imparare la logica sistematica
con cui si affronta un problema del genere.
Dalla Spagna potremmo imparare la velocità: il
mercato spagnolo infatti ha avuto una trasformazione
velocissima nel settore, come noi non riusciremmo a
fare perché siamo ingabbiati in una serie di
pasticci burocratici, legislativi e normativi che rendono
anche gli aiuti statali molto complicati e molto difficili
da realizzare.
Dall’Inghilterra, infine, l’uso della coproduzione:
aiutati dalla lingua anglofona gli inglesi ci insegnano
che il cinema nazionale funziona se è attento
alla coproduzione internazionale. La nostra coproduzione
è molto immatura ed imberbe.
Tornando alla formazione, quanto è importante
formare una nuova figura di dirigente che possa seguire
la crescita del cinema italiano come industria?
Noi non abbiamo l’ambizione di formare dei dirigenti
ma delle persone che a diverso livello e ruolo siano
professionalmente attente ai fenomeni finanziari, commerciali,
organizzativi e tecnologici. Pensiamo che questi settori
culturali (cinema come teatro o danza) basino il loro
appeal sull’aspetto artistico, quindi la parte
economica viene a supporto della parte centrale e non
può assolutamente prendere il sopravvento.
Però, proprio perché ormai la competizione
è planetaria e si giocano somme ingenti di investimento,
il settore non può essere lasciato solamente
in mano agli artisti, che magari non hanno le competenze
giuridiche e finanziarie che servirebbero.
Accanto alla formazione più tradizionale come
quella fatta dalla scuola superiore di cinematografia
di Roma, il Centro Sperimentale, ci vogliono anche delle
figure che sappiano fare una buona campagna marketing
e sappiano gestire i conti di una casa di distribuzione
cinematografica.
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