285 - 28.09.05


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Intervista a Severino Salvemini



Questo articolo è tratto dal numero 91 (settembre – ottobre 2005) di Reset, interamente dedicato al cinema italiano.
Perché il cinema italiano non è industria? Perché manca quel prodotto «medio» capace di attrarre pubblico e critica? Come dovrebbe intervenire lo Stato? Quanto influisce il duopolio produttivo Rai-Medusa?
Queste le domande a cui Reset ha cercato di rispondere chiamando a discutere critici, registi, sceneggiatori e scrittori, produttori, attori, attrici, politici.


Severino Salvemini è professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università Bocconi di Milano, dove è direttore del Corso di laurea in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione. Già presente nel board di Cinecittà Holding, dell’Istituto Luce, del Teatro alla Scala e della Biennale di Venezia, è oggi presidente di Mikado Film. Per «Reset» ha fatto una diagnosi chiara dei problemi del cinema italiano, sullo sfondo dei modelli produttivi europei e americani.

Prima di passare al quadro europeo, le chiederei subito perché in Italia manca quel prodotto medio competitivo capace di attrarre pubblico e capitali e perché il cinema non ha fattezze industriali.

Cercherò di fare prima una diagnosi e poi darò una terapia. La tesi che il cinema non è un’industria andrebbe contestualizzata nel periodo: il fatto che l’industria cinematografica sia un po’ primordiale e elementare potrebbe essere vero fino alla fine degli anni Novanta. All’inizio del 2000 sono state messe, a mio parere, alcune basi per rendere il cinema più industriale. Ora siamo in un momento di transizione verso uno stadio che sicuramente è più industriale di prima, intendendo per “industriale” un cinema che è più patrimonializzato e che passa da singoli progetti episodici a progetti editoriali di più lungo termine. Per “più industrializzato” intendo anche un cinema dove la catena di valore, cioè l’integrazione verticale del settore, è gestita con maggiore pianificazione da attori concatenati o unici (come nel caso di alcuni protagonisti che gestiscono dalla produzione fino alla distribuzione) e addirittura dalla televisione. Contesterei quindi l’ipotesi che il cinema italiano non sia un’industria, quanto meno in termini di tendenza.

Lei ha parlato di basi industriali che sono state poste, e ha fatto la data del 2000.

Sì, ma è indicativa, non c’è un evento particolare che segna lo stacco fra il decennio degli anni Novanta e il 2000: direi che negli ultimi cinque anni la tendenza è verso una maggiore industrializzazione. Non è un caso che in questo periodo gli operatori che sono meno robusti hanno avuto più problemi e in parte sono spariti.

Chi si è identificato, a suo avviso, come leader di questo trend?

I due protagonisti più televisivi, Medusa-Mediaset e Rai Cinema, sono più industrializzati rispetto al passato (anche se non è detto che il fatto di avere dei protagonisti che sono più robusti corrisponda al bene del settore). Se si aggiungono un protagonista italiano come De Laurentiis, alcune major statunitensi per la parte distributiva e di esercizio, le catene dei multiplex, il fenomeno, apparso intorno all’inizio del 2000, di fondi finanziari o soggetti che hanno investito in protagonisti di taglia media come Igol, Mikado, Colorado o Fandango, diventa visibile un’attenzione da parte del mondo della finanza e dell’industria tesa a rafforzare la solidità del cinema, per renderlo più moderno e più robusto sotto il profilo economico. Si tratta, secondo me, di una tendenza irreversibile, dalla quale non si può tornare indietro.

Lei quindi vede segni di pluralismo produttivo.

No, io sostengo che c’è una tendenza che sta rendendo il cinema italiano più industriale, rafforzandolo patrimonialmente e facendo diventare i progetti più robusti e più a lungo termine. Il passato invece era contraddistinto, soprattutto nella fase della produzione, da soggetti che giocavano con strategie di piccolissimo cabotaggio, senza patrimoni e costretti ad appoggiarsi ad altri sostegni. Ad esempio, c’erano dei produttori esecutivi che costruivano progetti cinematografici senza denaro, finanziandosi in parte con lo Stato, in parte con la televisione, che avevano un ruolo molto discontinuo e saltuario. Adesso questi produttori si sono ridotti perché la logica corrente è che l’industria cinematografica è molto rischiosa dal punto di vista economico e quindi non può essere fatta da imprenditori improvvisati.

Che poi, alcune volte fuggivano con la cassa…

O erano imprenditori che per opportunismo di breve termine erano disponibili a lavorare in nero, ad avere relazioni di fornitura non sempre limpide. Effettivamente, l’industria cinematografica dagli anni Ottanta fino al 2000 si potrebbe definire un po’ un’Armata Brancaleone. Adesso invece c’è una selezione di operatori, che pure è vista con molta diffidenza dagli altri del settore. I “vecchi” operatori dicono che il cinema italiano privilegia solo i grandi e chi ha denaro e patrimonio, che oggi il cinema è un’industria dove il giovane che ha talento ma non ha finanza non riesce a trovare spazio: io dico invece che queste sono le classiche situazioni di crisi di un’industria che diventa più matura e adulta. Un’anomalia da ricordare sempre è il fatto che l’imprenditore cinematografico, in particolare il produttore che non ha barriere di economia di scala all’ingresso, era fino a poco tempo fa un personaggio che, vendendo anticipatamente i diritti del suo prodotto, riusciva ad essere imprenditore senza tirare fuori neanche una lira, cosa molto curiosa in un settore economico. Anche rispetto ad altri settori culturali: teatro, spettacolo, editoria e discografia musicale, che non conoscono questo fenomeno.

Una tendenza positiva, allora.

La giudico sana e per schierarmi subito nel dibattito ideologico del settore credo che l’ultima legge fatta, legge che prende il nome di Urbani ma che aveva i semi contenutistici nel ministero precedente della Melandri e di Veltroni, metta dei paletti giusti per un’industria cinematografica sana e moderna.
Ovviamente è una legge severa e quindi deve essere gestita in una fase di transizione. Non possiamo infatti introdurla in un far-west e poi sperare che tutto funzioni, perché il far-west deve essere accompagnato fino a farlo diventare qualcosa di più adulto e di più maturo. Forse questa fase di transizione non è stata colmata così bene, per cui il passaggio è stato un po’ brusco e per questo il settore ha avuto un anno di arresto e di difficoltà.

Veniamo ai confronti con l’estero. Può contestualizzare la situazione del cinema italiano nel quadro europeo?

Direi che il momento attuale è molto difficile, ma non è dovuto al fatto che il cinema sia o meno industria. Ci sono cioè dei problemi contingenti e specifici. Inoltre, è diverso parlare di industria cinematografica per la produzione, la distribuzione e l’esercizio.
Quando si parla di settore in crisi si dovrebbe distinguere fra queste tre fasi. Per esempio, all’inizio degli anni Novanta l’esercizio ha cominciato un’operazione di ristrutturazione che si è completata abbastanza bene, tanto che adesso siamo addirittura in una fase di selezione delle strutture delle sale cinematografiche, perché ne sono state fatte troppe, quasi una situazione di over-struttura rispetto al passato.

La distribuzione?

Anche la distribuzione è abbastanza moderna, mentre forse il settore della produzione è quello che richiede una maggiore trasformazione. In questo momento, il settore è in difficoltà perché è venuta a mancare una serie di introiti che erano quelli su cui il cinema era abituato a contare per fare dei prodotti.
Gli introiti non sono solo quelli provenienti dalla sala cinematografica e dai box office, ma anche dai diritti che vengono ceduti alle televisioni generaliste e pay tv, dai diritti ceduti per l’home video, per i dvd, dai diritti ceduti all’estero e poi da tutti gli altri introiti secondari come sfruttamento internet o telefonico.

Quali sono i motivi della diminuzione degli introiti?

Improvvisamente, da due anni a questa parte, l’aiuto televisivo è crollato perché la tv ha deciso di programmare un numero decisamente inferiore di prodotti cinematografici in palinsesto (soprattutto Mediaset e Rai). In prime-time si trovano molti meno film e di fatto sono scomparsi anche in seconda serata: gli introiti che arrivavano dall’acquisto delle televisioni, chiamati “diritti d’antenna”, molto importanti per la produzione cinematografica italiana, di fatto sono crollati a meno della metà. La pay tv, che per un certo periodo è stato un aiuto finanziario importante per il cinema, da quando Stream e Tele+ si sono fusi in Sky ha aumentato fortemente il carattere negoziale nei confronti del cinema. Oggi quindi, in parte per il palinsesto di Sky che è molto povero e ripetitivo, in parte per una posizione negoziale molto forte nei confronti del cinema, gli introiti che arrivano dalla pay tv sono limitatissimi. Il cinema, che prima godeva di almeno il 30-35% di diritti di antenna, oggi ha avuto una diminuzione dal 20 al 40%. Il 20% perso è stato quindi cercato in altri canali: fortunatamente, c’è stato un momento di boom di dvd (che però è già in flessione perché arrivato ad uno stadio di maturità) e quindi rispetto al periodo precedente il box office è tornato ad essere centrale.

E poi c’è il problema della (assente) vendita all’estero.

Da sempre, l’Italia vende pochissimo prodotto cinematografico sull’estero, a causa di un problema gravissimo relativo alla scarsa capacità della struttura e del sistema-paese di vendere il prodotto. Il produttore quindi, abituato a costruire le sue avventure cinematografiche sul prepagato, si è trovato ad essere molto esposto al rischio e ha ridotto enormemente la produzione perché anche i fondi di garanzia dello Stato spesso non erano sufficienti per fare il mestiere.
Questa situazione, già drammaticamente difficile, è stata peggiorata negli ultimi mesi da alcuni fenomeni di riduzione del consumo in sala (trend decrescente nel box office con cadute del 30-40% nel mese di maggio e giugno, rispetto al 2004). Questa diminuzione è determinata sia dalla crisi economica ormai stagnante (per cui le persone considerano il cinema un intrattenimento troppo caro per il loro reddito spendibile), sia dal fatto che la popolazione principale del cinema (cioè la fascia compresa tra i 13 e i 25-26 anni) ha orientato gran parte delle loro spese sul telefonino (una fetta enorme del consumo spendibile viene erosa dalle tessere prepagate). Un ultimo motivo del crollo del consumo di cinema è da individuare, in particolare per le classi più abbienti, nella fruizione domestica del cinema, fatta di home video o di dvd. Gli italiani vivono quindi una situazione di crisi del settore, a causa del crollo dei diritti di antenna, mentre in Europa la situazione congiunturale si ripercuote sul cinema esattamente nello stesso modo in Spagna, Francia e Germania. Meno in Inghilterra.

E allora, quali le differenze fra il cinema italiano e quello europeo?

Non credo ci siano differenze particolari in termini di prodotto. Una volta si diceva che il cinema italiano era troppo domestico, perché troppo minimalista (il cinema “due camere e cucina” come lo definiva Maurizio Porro) e in quel periodo le pellicole made in Italy erano effettivamente incomprensibili e non gustabili da pubblici diversi rispetto al nostro. Oggi questo non è più vero perché ormai il cinema italiano di qualità e di autore è molto simile al gusto europeo, francese, spagnolo o tedesco. Grandi differenze non sono presenti neanche nella distribuzione e nell’esercizio. Il problema invece è che il nostro cinema da grandi incassi è popolare, comico e “vernacolare”.
Questo prodotto è meno internazionale perché relativo a una comicità un po’ crassa e legata a personaggi che sono santificati solamente dalla televisione italiana e quindi difficilmente esportabili.

Secondo lei, come si pone il cinema europeo rispetto all’invasione del cinema americano?

Dipende molto dalle singole nazioni. Alcune hanno delle quote di programmazione sia nelle sale cinematografiche sia in televisione, come in Francia. Ci sono poi situazioni opposte come in Germania dove, in assenza di quote, il cinema Usa fa da padrone anche più di quanto lo faccia da noi.
Non sono dell’idea che il cinema americano come prodotto abbia delle caratteristiche diverse da quello italiano o europeo. Forse il cinema americano riesce ad intercettare più efficacemente i gusti medi del pubblico; e sicuramente è promosso molto meglio (negli Usa il marketing è nettamente superiore), ha più risorse, uno star system diverso, copioni che rappresentano best-seller: ma anche i film americani hanno le loro difficoltà. Certo è che se in Italia investiamo 50-100.000 euro per la promozione è chiaro che i film non se li vede nessuno.

Quali sono le misure concrete che secondo lei potremmo adottare?

Vorrei anzitutto sfatare il mito della persecuzione dell’autore. L’autore che si lamenta perché il suo film è incompreso, perché è stato smontato subito o il distributore non gliel’ha accudito sufficientemente. E non credo che in questo momento il problema sia la distribuzione. Innanzitutto perché ci sono sale in eccesso, quindi il problema non è di portare il film nella sala, anche se è chiaro che il distributore di film (così come quello musicale o editoriale) ha un suo investimento comunicazionale da fare e un progetto editoriale da portare avanti nel momento in cui prende un prodotto e quindi diventa molto selettivo.

Ma qualcuno resta fuori?

Ci sono dei prodotti particolarmente giovani di neo-autori o difficili in termini di contenuto che la casa di distribuzione non accetta di distribuire, perché non sono convenienti nella politica di portafoglio distributivo. In questo caso o c’è qualcuno che interviene investendo con sussidio, e questa è la funzione tipica dello Stato, altrimenti i neo-autori o i film di difficile contenuto non appariranno mai nelle sale cinematografiche. Ma penso che questo sia logico, accade a tutti, cantanti, musicisti e scrittori. Insomma, secondo me alla fine gli autori bravi in sala ci vanno, e non c’è censura preventiva. D’altro canto, far diventare il cinema industriale vuol dire riuscire a conciliare l’elemento di qualità editoriale con il mercato, il che non vuol dire fare dei film blandamente popolari abbassando il livello qualitativo per avere un maggior numero di spettatori, ma fare film di alta qualità che riescano ad intercettare un mercato sufficiente a farli stare in piedi. E questo è un po’ l’arte in parte del produttore e in parte del distributore.

Che ruolo dovrebbe avere lo Stato?

Quello che in questo momento ha. Tutti i prodotti culturali, fra i quali anche il cinema, devono essere sostenuti dallo Stato. Da una parte nel settore istruzione: sostenendo la scuola e quindi la formazione dei talenti. Che vuol dire non solo registi ed attori, ma anche direttori di fotografia, compositori delle colonne sonore, post-montatori e così via.
Dall’altra, direi che è necessario un aiuto alla produzione, alla distribuzione, e alle sale cinematografiche perché si modernizzino di più (anche se in realtà questo aiuto viene già fornito). Ultimo aiuto dello Stato dovrebbe essere una maggiore spinta dei prodotti italiani all’estero, cosa che non viene assolutamente fatta.

Veniamo, nuovamente, alla tv.

In questo momento, nel settore cinematografico la presenza giocata dalla televisione è assolutamente cruciale e strategica: la tv ha ridotto l’interesse per il cinema, perché ha aumentato l’interesse per la fiction, sceneggiati e soap opera, prodotti dei quali si può più facilmente prevedere l’audience. Credo che lo Stato, e qui ci vorrebbe proprio un recupero normativo, dovrebbe riobbligare nuovamente le televisioni generaliste ad aumentare la loro quota di produzione cinematografica o almeno a ridurre quella delle fiction. Una volta nella legge Mammì e poi in quella Maccanico era previsto che le televisioni dovessero dare un aiuto particolare alla produzione cinematografica, poi questa quota è stata dribblata. Io credo che quest’aspetto debba essere senz’altro rivisto, ripreso e riformulato. Non ha senso infatti che l’industria televisiva sia così disinteressata al cinema come lo è in questo momento.

Secondo lei cosa dovremmo imparare nel settore dall’Europa e dall’America?

Dalla Francia senz’altro il senso dello Stato: la grandeur con cui trattano il tema cinematografico è una grande lezione. In un recente seminario a Roma, che ha messo a confronto la distribuzione all’estero di Francia e Italia, sono arrivati cinquanta rappresentanti ministeriali francesi: gli investimenti che si muovono oltralpe per questo settore sono impressionanti. Dalla Francia potremmo quindi imparare la logica sistematica con cui si affronta un problema del genere.
Dalla Spagna potremmo imparare la velocità: il mercato spagnolo infatti ha avuto una trasformazione velocissima nel settore, come noi non riusciremmo a fare perché siamo ingabbiati in una serie di pasticci burocratici, legislativi e normativi che rendono anche gli aiuti statali molto complicati e molto difficili da realizzare.
Dall’Inghilterra, infine, l’uso della coproduzione: aiutati dalla lingua anglofona gli inglesi ci insegnano che il cinema nazionale funziona se è attento alla coproduzione internazionale. La nostra coproduzione è molto immatura ed imberbe.

Tornando alla formazione, quanto è importante formare una nuova figura di dirigente che possa seguire la crescita del cinema italiano come industria?

Noi non abbiamo l’ambizione di formare dei dirigenti ma delle persone che a diverso livello e ruolo siano professionalmente attente ai fenomeni finanziari, commerciali, organizzativi e tecnologici. Pensiamo che questi settori culturali (cinema come teatro o danza) basino il loro appeal sull’aspetto artistico, quindi la parte economica viene a supporto della parte centrale e non può assolutamente prendere il sopravvento.
Però, proprio perché ormai la competizione è planetaria e si giocano somme ingenti di investimento, il settore non può essere lasciato solamente in mano agli artisti, che magari non hanno le competenze giuridiche e finanziarie che servirebbero.
Accanto alla formazione più tradizionale come quella fatta dalla scuola superiore di cinematografia di Roma, il Centro Sperimentale, ci vogliono anche delle figure che sappiano fare una buona campagna marketing e sappiano gestire i conti di una casa di distribuzione cinematografica.

 

 

 

 

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