Patrick
McGrath,
La città fantasma,
Bompiani, pp. 197, € 14,50
È un McGrath decisamente minore quello dei racconti
La città fantasma. Qui siamo purtroppo
lontani anni luce sia dalla felicità inventiva,
sia dal registro stilistico così incalzante/perturbante
di ben altre più riuscite narrazioni all’insegna
dell’ossessività, quali Follia, Il
morbo di Haggard o Spider. L’atmosfera è
pur sempre quella angosciosa e fantasmatica di personaggi
che attraversano burrascose vicende in bilico tra labilità
psicologica e insania mentale conclamata, ma l’ultimo
libro tradotto in italiano dell’arcinoto scrittore
inglese convince solo in parte. Troppo invasi da spettri,
teatrali in eccesso e direi caratterizzati dal gusto
di stupire il lettore mi paiono i primi due racconti.
Maggiormente misurato e credibile l’ultimo, sebbene
il finale risulti a mio avviso affrettato e non risolto
(dal punto di vista narrativo, quantomeno) giacché
la chiusa, alquanto scontata, fa rimpiangere ben altre
pagine culminanti (vedi, solo per fare un esempio, le
ultime davvero imprevedibili di Grottesco).
Tre dunque, accennavo, sono le storie che Mc Grath ci
narra nella Città fantasma, ambientate
a New York in tempi diversi; rispettivamente nel 1832,
nel 1859 e nel 2001. Ed è forse anche questa
collocazione nel passato remoto - così ottocentesca
nel senso deteriore del termine, specie quando sposata,
come nella fattispecie, a certi scenari emozionali impregnati
di romanticume, nella cui atmosfera saturnina e plumbea
sono immersi storie e protagonisti - e la scelta di
una scrittura tradizionale, molto descrittiva, a tratti
da romanzo storico a tratti da racconto gotico o di
fantasmi, a nuocere a queste peregrinazioni letterarie
nel regno dell’inquietudine e dell’incubo
ad occhi spalancati.
Già l’incipit del primo narrativo mette
in risalto l’opzione stilistico-espressiva di
una prosa a tinte fosche (in eccesso) sottolineando
come la New York del 1832, falcidiata dalla peste, fosse
divenuta “un posto non tanto di morte, quanto
di terrore della morte”. L’io narrante
stesso (“distrutto, schiavo dei miei fantasmi”),
essendo stato contagiato dal morbo, vive ormai solo
in attesa del decesso liberatorio e mentre aspetta la
fine ci parla della madre, giustiziata dagli inglesi
verso la conclusione della guerra d’indipendenza
americana. Ma certo la sua malattia più devastante,
più che fisica è psichica, costretto ripetutamente
com’è ad incontrare “lo spettro
della mamma”. Ne consegue un finale macabro oltre
misura, con un exitus segnato da olezzi di
tomba, carro funebre e bara materna che lo aspetta.
Altrettanto a tinte fosche il secondo racconto, dove
un giovane aspirante pittore si innamora di una modella
e la presenta ai suoi. Non l’avesse mai fatto.
Essendo egli di famiglia agiata e la ragazza di origini
modeste, il padre si oppone al connubio (ricordo che
siamo a metà del diciannovesimo secolo) e fa
sparire la ragazza. Così il figlio impazzisce.
Rimarrà una ventina d’anni in manicomio
ed anche una volta uscito non farà che ricercare
per tutta Nuova York la sua ex. Riflessione conclusiva:
“Non è che l’amore negato possa condurci
a follia? Sì, penso di sì”. Mi astengo
da commenti ulteriori.
Infine il pezzo forte del libro, dal titolo Ground
Zero, ambientato nella Manhattan dei nostri giorni,
per la precisione a ridosso del fatale e mortifero 11
settembre. Voce narrante (verosimile e coinvolgente,
una volta tanto) una psicoterapeuta che racconta la
storia d’un uomo in analisi, il quale s’è
innamorato di una prostituta, il cui amante è
rimasto ucciso nell’attacco alle Torri gemelle.
E la follia, dove starebbe? Non nel fatto di perdere
la testa per una peripatetica ma in quello di essere
sconvolta, come fa la donna, dal fantasma dell’uomo
perito nella catastrofe. Tuttavia questa è solo
l’occasione per un racconto assai meno lugubre
degli altri e in grado di evocare - come forse solo
il miglior McGrath è in grado di fare - il senso
di smarrimento, di alienazione e di perdita patito dai
newyorkesi l’11 settembre. Al di là quindi
delle disavventure borderline del protagonista
e della sua bella, ciò che ti prende in Ground
Zero è la capacità di calarsi nell’anima
americana dolente, riuscendo a dire lo stupore attonito,
il lutto e la rabbia di una città ferita ma non
vinta. Ed insieme il ben più universale umano
sconcerto nei confronti della violenza, della guerra
e dell’odio. In una parola del male,
per dirla fuor di retorica con un’espressione
alla fin fine così allusiva e pregnante.
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