285 - 28.09.05


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Gli spettri di McGrath

Francesco Roat



Patrick McGrath,
La città fantasma,
Bompiani, pp. 197, € 14,50

È un McGrath decisamente minore quello dei racconti La città fantasma. Qui siamo purtroppo lontani anni luce sia dalla felicità inventiva, sia dal registro stilistico così incalzante/perturbante di ben altre più riuscite narrazioni all’insegna dell’ossessività, quali Follia, Il morbo di Haggard o Spider. L’atmosfera è pur sempre quella angosciosa e fantasmatica di personaggi che attraversano burrascose vicende in bilico tra labilità psicologica e insania mentale conclamata, ma l’ultimo libro tradotto in italiano dell’arcinoto scrittore inglese convince solo in parte. Troppo invasi da spettri, teatrali in eccesso e direi caratterizzati dal gusto di stupire il lettore mi paiono i primi due racconti. Maggiormente misurato e credibile l’ultimo, sebbene il finale risulti a mio avviso affrettato e non risolto (dal punto di vista narrativo, quantomeno) giacché la chiusa, alquanto scontata, fa rimpiangere ben altre pagine culminanti (vedi, solo per fare un esempio, le ultime davvero imprevedibili di Grottesco).

Tre dunque, accennavo, sono le storie che Mc Grath ci narra nella Città fantasma, ambientate a New York in tempi diversi; rispettivamente nel 1832, nel 1859 e nel 2001. Ed è forse anche questa collocazione nel passato remoto - così ottocentesca nel senso deteriore del termine, specie quando sposata, come nella fattispecie, a certi scenari emozionali impregnati di romanticume, nella cui atmosfera saturnina e plumbea sono immersi storie e protagonisti - e la scelta di una scrittura tradizionale, molto descrittiva, a tratti da romanzo storico a tratti da racconto gotico o di fantasmi, a nuocere a queste peregrinazioni letterarie nel regno dell’inquietudine e dell’incubo ad occhi spalancati.

Già l’incipit del primo narrativo mette in risalto l’opzione stilistico-espressiva di una prosa a tinte fosche (in eccesso) sottolineando come la New York del 1832, falcidiata dalla peste, fosse divenuta “un posto non tanto di morte, quanto di terrore della morte”. L’io narrante stesso (“distrutto, schiavo dei miei fantasmi”), essendo stato contagiato dal morbo, vive ormai solo in attesa del decesso liberatorio e mentre aspetta la fine ci parla della madre, giustiziata dagli inglesi verso la conclusione della guerra d’indipendenza americana. Ma certo la sua malattia più devastante, più che fisica è psichica, costretto ripetutamente com’è ad incontrare “lo spettro della mamma”. Ne consegue un finale macabro oltre misura, con un exitus segnato da olezzi di tomba, carro funebre e bara materna che lo aspetta.

Altrettanto a tinte fosche il secondo racconto, dove un giovane aspirante pittore si innamora di una modella e la presenta ai suoi. Non l’avesse mai fatto. Essendo egli di famiglia agiata e la ragazza di origini modeste, il padre si oppone al connubio (ricordo che siamo a metà del diciannovesimo secolo) e fa sparire la ragazza. Così il figlio impazzisce. Rimarrà una ventina d’anni in manicomio ed anche una volta uscito non farà che ricercare per tutta Nuova York la sua ex. Riflessione conclusiva: “Non è che l’amore negato possa condurci a follia? Sì, penso di sì”. Mi astengo da commenti ulteriori.

Infine il pezzo forte del libro, dal titolo Ground Zero, ambientato nella Manhattan dei nostri giorni, per la precisione a ridosso del fatale e mortifero 11 settembre. Voce narrante (verosimile e coinvolgente, una volta tanto) una psicoterapeuta che racconta la storia d’un uomo in analisi, il quale s’è innamorato di una prostituta, il cui amante è rimasto ucciso nell’attacco alle Torri gemelle. E la follia, dove starebbe? Non nel fatto di perdere la testa per una peripatetica ma in quello di essere sconvolta, come fa la donna, dal fantasma dell’uomo perito nella catastrofe. Tuttavia questa è solo l’occasione per un racconto assai meno lugubre degli altri e in grado di evocare - come forse solo il miglior McGrath è in grado di fare - il senso di smarrimento, di alienazione e di perdita patito dai newyorkesi l’11 settembre. Al di là quindi delle disavventure borderline del protagonista e della sua bella, ciò che ti prende in Ground Zero è la capacità di calarsi nell’anima americana dolente, riuscendo a dire lo stupore attonito, il lutto e la rabbia di una città ferita ma non vinta. Ed insieme il ben più universale umano sconcerto nei confronti della violenza, della guerra e dell’odio. In una parola del male, per dirla fuor di retorica con un’espressione alla fin fine così allusiva e pregnante.

 

 

 

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